Se, messi da parte per motivi diversi Croce e Cecchi; la prosa d’arte e gli elzeviri; puntiamo anziché sul prestigio intellettuale degli scrittori sul loro impatto con la storia, al cuore della non-fiction novecentesca troviamo i tre grandi libri memorialistici di Emilio Lussu, Carlo e Primo Levi. Ma non trascureremo gli epistolari (Gramsci), i diari (Gadda), la critica letteraria (Debenedetti), lo scrivere d’arte (Longhi), gli studi etnologici di De Martino, la saggistica militante di Fortini; Pasolini e Calvino…
Durante gli anni venti e trenta, il panorama italiano della prosa non creativa è dominato da due modelli che per motivi almeno in parte affini non si prestano a inaugurare il nostro canone. li primo, ovviamente, è Benedetto Croce. Secondo un’opinione largamente accolta, prima che un filosofo, uno storico o un critico letterario, e più ancora di tutto ciò, Croce è stato essenzialmente un maestro: l’incarnazione di un’immagine di paterna autorevolezza, che forniva alla cultura nazionale un punto di riferimento solido e obbligato. A spiegare questo fenomeno non bastano le qualità intellettuali dello studioso napoletano, per quanto grandi possano essere. Decisivo appare invece il ruolo giocato dalle sue qualità di prosatore (a detta di qualcuno, il maggiore dopo Manzoni): se c’è un segreto nella straordinaria influenza che egli ha saputo per tanto tempo esercitare, esso sta in quella scrittura tersa, posata, elegante, sgombra da ogni inquietudine, che sembrava esorcizzare i fantasmi e le angosce del secolo.
E infatti, già prima del termine cronologico che ci siamo posti – la guerra del ‘15 -18 – un lettore di acume singolare, che non sarebbe tornato vivo dal fronte, aveva diagnosticato i limiti di Croce in una compostezza un po’ troppo algida, vagamente elusiva, sottilmente anacronistica. A maggior ragione dunque noi posteri, insoddisfatti dalla ricerca di quelle incrinature che sole avrebbero conferito al magistero crociano uno stigma di indiscutibile modernità, prendiamo debitamente le distanze. Non per scelta di gusto, precisiamo: per vincolo giuridico. L’eredità di Croce, l’abbiamo ricevuta; ce ne siamo giovati, e faremo del nostro meglio per seguitare a giovarcene; ma non abbiamo il diritto di legarla al secolo ventunesimo come nostra originale acquisizione. Caratteri integralmente novecenteschi andranno semmai riconosciuti all’attività editoriale di Croce (leggi Laterza).
Il secondo modello consiste nella prosa d’arte, e si può, anzi, si deve identificare con il nome di Emilio Cecchi. È notorio (pur in mancanza di una verifica davvero puntuale e sistematica sui testi) quanto abbia contato nella lingua, per scelta letteraria novecentesca, il paradigma della scrittura cecchiana, anche in autori diversissimi per interessi e temperamento. E tuttavia, come nel caso precedente, non ci sentiamo di additare nell’autore illustre la pietra angolare della non-fiction contemporanea.
Certo, Cecchi appare molto meno imperturbabile e distaccato di Croce, più aderente alle cose, più curioso di dettagli concreti; meno olimpico insomma, e più empirico. Ma anche in lui si coglie un atteggiamento verso l’esperienza che non è quello che vorremmo raccomandare a coloro che verranno. Superbo stilista, Cecchi dà quasi sempre l’impressione di servirsi dello stile come di un dispositivo di autodifesa, se non di preventiva rassicurazione; o più esattamente, come d’un mezzo atto a garantire una sorta di equilibrio a priori fra il soggetto e le cose – mentre del Novecento che ci preme, dato primario è proprio la sproporzione (almeno in prima istanza) fra l’enormità degli avvenimenti e l’esiguità delle risorse individuali, che nessuna levigatezza di forma basta a risarcire.
Niente prosa d’arte quindi, niente elzeviri, nessun «grande stile» catafratto dai quattro tomi della filosofia dello spirito; e per maggior comodità, nessuna particolare priorità cronologica. Se puntiamo, anziché sul prestigio intellettuale degli scrittori, sull’impatto con la storia, al cuore della non-fiction novecentesca troviamo innanzi tutto tre libri, tre grandi libri, appartenenti alla categoria della memorialistica: Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, Se questo è un uomo di Primo Levi.
Si tratta, non a caso, di autori che non si qualificano in primo luogo come letterati: Lussu è un politico, i due Levi (rispettivamente) un pittore e un chimico. In effetti, il nodo principale che ha trattenuto gli scrittori contemporanei ogni volta che si sono accinti a parlare della realtà direttamente, e non tramite il velo, la metafora, l’apparato immaginativo dell’invenzione letteraria, è stato l’eccesso di letteratura: vizio dal quale più facilmente poteva affrancarsi chi si affacciava al mondo delle lettere, diciamo così, da outsider, mosso da intenti che nulla avevano a che vedere con la ricerca della perfezione stilistica.
Non diremo, per carità, che quando le cose sono tenute saldamente in pugno, lo stile segue in maniera automatica, di necessità; ma senza dubbio lo stile o gli stili più efficaci sono quelli che consentono di afferrare le cose. E infatti l’eccezionalità dei libri che abbiamo nominato deriva anche da pregi squisitamente retorici: senza di che sarebbe indifferente citare l’uno o l’altro titolo sulle maggiori catastrofi del nostro secolo, dal massacro delle fanterie nelle trincee della Grande Guerra alla deportazione e allo sterminio degli ebrei nei Lager nazisti, attraverso la tenace dolente piaga della miseria dei contadini del Sud.
Nonostante la diversità degli argomenti, tutt’e tre questi libri costituiscono il resoconto della scoperta di mondi «altri» rispetto alla norma: di dimensioni incognite e aliene che si scoprono annidate nel nostro presente geografico, istituzionale, antropologico, psichico. In tale prospettiva, le precarie linee fortificate sopra Asiago, le mulattiere e gli abituri di Gagliano, il campo di Buna-Monowitz assurgono al rango di luoghi topici della coscienza contemporanea. Non sfuggirà inoltre una sintomatica parentela editoriale. Al netto di eventuali esordi più o meno forzati in altre sedi (Un anno sull’Altipiano esce nel ‘38 a Parigi presso le Edizioni Italiane di Cultura di Giorgio Amendola, Se questo è un uomo viene pubblicato dalla De Silva di Franco Antonicelli nel ‘47), tutt’e tre s’impongono nella veste della collana dei Saggi Einaudi: che andrà considerata un vero crocevia della prosa non creativa del Novecento.
Restiamo nel dominio delle scritture «dell’io». Nell’insieme la nostra si presenta come un’epoca relativamente povera di epistolari, almeno rispetto ai secoli d’oro del genere (XVIII-XIX). Ma una prova di alta letteratura – e un’ulteriore testimonianza su un amaro capitolo della storia recente, la dittatura fascista – è offerta dalle postume Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, di cui un lettore esigente come Contini ha lodato la «spontanea e diffusa poeticità», la «rara temperanza di naturalità e cultura, e umanità che si aspetterebbe più facilmente da un “martire” del Risorgimento che da un politico altamente responsabile del nostro secolo». Affatto diversa l’atmosfera etica e umorale che aleggia nel più bello dei diari contemporanei: quel Giornale di guerra e di prigionia (arretriamo così fino al termine post quem del ‘15-18) che registra le riflessioni immediate sull’esperienza del fronte di Carlo Emilio Gadda. Se la vibrante passione politica di Gramsci poggia su una sostanziale serenità di spirito, lo scrittore milanese reagisce all’impatto con la realtà storica concreta con vituperosa indignazione. Di qui il furore convulso, la sgomenta tetraggine, lo spaesamento esistenziale destinato ad alimentare tante sue pagine narrative.
Con questo, non s’intende emarginare per principio la critica letteraria. Un nome almeno s’impone, quello di Giacomo Debenedetti. Debitore come tanti del gusto della prosa d’arte, stilista raffinato e dal timbro inconfondibile, Debenedetti non sacrifica al nitore della forma l’intento conoscitivo: i suoi «racconti critici», per quanto digressivi e dilatori possano apparire d’acchito, gettano sempre sull’oggetto dell’indagine una luce viva, magari di scorcio, da prospettive eccentriche e impreviste.
Storico e moralista (come il suo modello De Sanctis) dotato di un’affabilità comunicativa singolarmente accattivante, Debenedetti, anziché scomporre o analizzare, mobilita e drammatizza: trasforma i romanzieri in personaggi da romanzo, i processi creativi in ipotesi di trame avventurose, l’esperienza della lettura nella quête di un’impregiudicata, mai banale verità psicologica e artistica.
Quanto agli altri maestri della critica letteraria novecentesca, nessuno sembra potersi affiancare a Debenedetti. Nemmeno, tanto per esser chiari, Gianfranco Contini: il quale ha elaborato bensì un modello teso e originalissimo di prosa critica, ma ha avuto la sventura di essere troppo ammirato in vita, troppo imitato. Così, a fronte dei preziosismi superflui, del goffo metaforeggiare, delle astruse ellissi che aduggiano le pagine di tanti maldestri seguaci, al corifeo della filologia italiana contemporanea non si può che imporre d’ufficio un sabbatico: se non fino alle soglie del XXII secolo, almeno fino alle rese di questo Tirature ‘99 (il che, per uno studioso del suo calibro, non sarà piccolo esilio).
Piena cittadinanza avrà invece fin d’ora nel nostro canone
Roberto Longhi, celebrato maestro dell’ «arte di scrivere d’arte». Due gli elementi in comune con De benedetti: un’eleganza formale che non va mai a discapito della funzionalità, e una competenza specialistica capace di fondersi con i modi di un geniale dilettantismo (laddove Contini conosce solo la professione ex cathedra). Ma all’andamento narrativo tortuoso o spiraliforme del saggio debenedettiano Longhi oppone un modello di scrittura più concentrata, che mira a una condensazione lirico-descrittiva del fenomeno. Del resto, l’aderenza al dato visivo – da conquistarsi attraverso uno strenuo esercizio di intensificazione e invenzione semantica – è il principio cardine della critica di Longhi: mentre Debenedetti, per scandagliare i meandri della psicologia di autori e personaggi, inventa «tempi» e ritmi variabili, per i quali è stata evocata l’immagine della suite musicale.
I cinque sensi, a proposito, avrebbero potuto offrire un’utile cornice al nostro regesto: tanto più che in un ipotetico canone della non-fiction ottocentesca un posto spetterebbe di diritto a Pellegrino Artusi. Ma questa via, nel nostro caso, non sembra portare lontano (non ce ne vogliano i musicologi), pur tenuto conto dell’idoneità d’un trattatista anomalo quale Piero Camporesi a presidiare la zona delle percezioni più prossime alla materia (odorato, gusto, tatto).
Piuttosto, nel novero delle aperture a direttrici di studio extra letterarie, merita una menzione la einaudiana Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici curata da Cesare Pavese (di lì a poco nucleo originario della casa editrice Boringhieri): dalla quale si può prelevare, non solo a titolo di campione, Morte e pianto rituale nel mondo antico di Ernesto De Martino.
Rientriamo nei ranghi. La saggistica militante del secondo dopoguerra si impernia su, tre principali figure: Fortini, Pasolini, Calvino. Una storia della cultura italiana degli ultimi decenni richiederebbe un’attenta analisi dello stile (di pensiero e di elocuzione) di ciascuno. Ma non essendo questa, nemmeno in nuce, una disamina storica, una scelta s’impone. Serberemo intatta, quindi, la nostra ammirazione per le affilate armi dialettiche di Fortini, per la sua attitudine a brandire con pari efficacia nozioni desunte dalle più innovative scienze umane, e idee o accenti che rinviano alla tradizione religiosa, moralistica, biblica; così come non cesseremo di stupirei di fronte alla impavida, paradossale consequenzialità del Pasolini luterano e corsaro, e alla sua eccezionale capacità di stringere i vari bersagli polemici in una parola-mito o in uno slogan (proverbiale fra tutti, il «Palazzo»).
Però la nostra opzione cadrà sull’autore di Una pietra sopra: che dei tre è il meno apocalittico, il più laico, il più costruttivo, e l’unico che non si conceda all’idolo della polemica. Beninteso, a questa scelta sottostà anche un atto di fiducia nell’avvenire – o se si preferisce, un presupposto politico: cioè la convinzione che il secolo che si apre consenta (anzi, richieda) l’esercizio di un raziocinio critico magari radicale nei contenuti ma pacato e problematico nei modi, immune tanto dalla solennità sapienziale quanto dall’enfasi provocatoria. Chi invece fosse persuaso della ineluttabilità di quella che Pasolini chiamava «omologazione», non potrà che esprimere priorità differenti.
Per parte nostra, vorremmo riservare la (salvo errori) decima e ultima casella dell’elenco a un modello di prosa riflessiva poco idoneo all’intervento pubblico. Una forma che sembra piuttosto evocare, come ha scritto Alfonso Berardinelli (il quale, sia detto per inciso, è il miglior saggista in circolazione oggi), l’atmosfera di un colloquio amichevole, dove le argomentazioni vengono proposte in tono sornione e suadente, ma nello stesso tempo conciso e non privo di vigore aforistico.
Mi riferisco al Saba di Scorciatoie e raccontini, acuto e ironico osservatore di costumi, cultura, caratteri, per esempio egregio di scrittura breve che coniuga l’impegno morale con la levità espressiva. Qualcuno potrebbe però obiettare che, già nel titolo, questo libro esula dal dominio della non-fiction. Vero, o almeno verosimile.
Urge un rimpiazzo. Ebbene, sarà il più «canonico» possibile. Compatibilmente, beninteso, con le ragioni di equilibrio che ogni lettore può indovinare: perché finora abbiamo citato fin troppi memorialisti, fin troppi piemontesi, pochi (a ben vedere) critici letterari, troppi titoli degli anni quaranta e cinquanta, e nessun libro particolarmente divertente. Ergo, depenniamo – nell’ordine, e con diseguale rammarico – Libera nos a Malo di Luigi Meneghello, Una scelta di vita di Giorgio Amendola, America primo amore di Mario Soldati, Destra e sinistra di Norberto Bobbio, il Diario minimo di Umberto Eco, tutto Garbali, Praz, e stacchiamo l’ultimo biglietto o contromarca disponibile per la Storia confidenziale della letteratura italiana di Giampaolo Dossena, eloquente dimostrazione del fatto che misurando con cura toni e ritmi dell’esposizione si possono scrivere cose originali e spiritose su qualunque argomento, per quanto aulico, paludato e istituzionale esso sia (o sembri). Il che è bello e istruttivo.*
* Le opere di Lussu e dei due Levi, così come le Lettere gramsciane, si leggono in edizione Einaudi, anche tascabile. Ci si augura che sia temporanea la latitanza dal catalogo delle disponibilità di un’edizione economica dei Giornale di Gadda; più oneroso è ovviamente il ricorso alle Opere della garzantiana Biblioteca della Spiga. I Saggi critici di Debenedetti – il cui nome è storicamente legato alla casa editrice il Saggiatore – sono editi da Marsilio, ma tutte le lezioni inedite (fra cui il decisivo Romanzo del Novecento) si leggono sempre in edizione Garzanti: e lo stesso dicasi dei principali libri di Camporesi. Le opere di Longhi sono edite da Sansoni, ma per i nostri fini il titolo più rilevante è la silloge curata da Contini Da Cimabue a Morandi (Meridiani Mondadori). Morte e pianto rituale di De Martino è pubblicato da Bollati Boringhieri; Una pietra sopra (come tutto Calvino) da Mondadori, anche in versione Oscar. Delle sabiane Scorciatoie esiste una versione economica del Nuovo Melangolo; di Rizzoli, infine, è da sempre la Storia confidenziale di Giampaolo Dossena.