Il secolo della modernità prosastica

Alle soglie del nuovo millennio, la prosa narrativa si colloca al centro di un sistema letterario definitivamente ammodernato. A soddisfare le attese di ricreazione fantastica di un pubblico vasto e vario è soprattutto una scrittura romanzesca che, senza sofisticazioni tecniche, attinge dall’universo contemporaneo le suggestioni più fascinosamente inquiete: e le affabula in un ordine strutturale e formale capace di coinvolgere e galvanizzare le risorse percettive del lettore. In questa prospettiva, va rivalutata la funzione assolta, a metà secolo, dall’esperienza neorelista.
 
In barba alle tesi dei critici tradizionalisti e alle fedi tenaci della militanza neoavanguardistica, i lettori chiedono storie: poco importa chi le racconti, quali personaggi mettano in scena, quando e dove si svolgano. O meglio, conta e conta molto, ma prima vale un riconoscimento pregiudiziale: sono le opere in prosa a circoscrivere l’ambito privilegiato dell’esperienza estetica della letterarietà moderna, ad esse è delegato il soddisfacimento delle attese di ricreazione fantastica di un pubblico vasto, scolasticamente educato, socialmente stratificato.
In un mercato delle lettere maturo, il testo narrativo, il più idoneo, per statuto, a comporre materiali eterogenei e tensioni dissonanti, il più adatto a rispondere all’antropologico bisogno di «finzione», rimette ogni volta in gioco, nella varietà dei registri espressivi e nella diversa misura del racconto, la dialettica costitutiva e fondante di ogni comunicazione letteraria: i rapporti di reciproco interesse che intercorrono fra chi scrive e chi legge. Interesse, beninteso, nel senso di acconsentimento, pacifico o conflittuale, a quella legge della domanda e dell’offerta che governa l’ordine dei libri, ma anche l’economia biopsichica implicita in ogni atto di lettura.
Una visione meno conformista della letteratura novecentesca induce allora a smentire un altro tenace luogo comune: la rappresentazione critica della modernità non tende, sempre e inevitabilmente, alla decostruzione frammentaria, alla dissipazione caotica del racconto, nell’ostentata estraneità a ogni cadenza comunicativa: la scrittura romanzesca, che rifiuti l’oltranzismo trasgressivo della sperimentazione iniziatica cara all’élite degli specialisti, attinge dall’universo contemporaneo le suggestioni più fascinosamente inquiete, per affabularle entro un ordine strutturale e formale capace di galvanizzare le risorse immaginose del lettore, coinvolgendolo nell’esperienza percettiva del presente. Alle soglie del Duemila, insomma, la fiction in prosa, continuando a sfruttare la cangiante molteplicità dei suoi generi e sottogeneri, dà vita a inediti mondi d’invenzione e attualizza in forme inusuali i rapporti di screziata sintonia con i destinatari elettivi.
I lettori novecenteschi, immersi nel vorticoso turbinio delle immagini e dei suoni, alla confidenza fraterna dei narratori del secolo scorso prediligono i toni, forse un po’ ipocriti, della competizione anche aspra, ma la rete di relazioni d’interesse che sorregge il discorso narrativo, pur nell’ordito scompigliato o lasco, mantiene intatta la sua forza di attrazione e di orientamento.
La vera questione, semmai, riguarda la pertinace riluttanza dei letterati italiani a saggiare tecniche, procedimenti e stilemi adeguati a rappresentare le dinamiche della modernità, chiamando a parteciparne le cerchie di lettori rese disponibili dalla società mul­timediale dell’urbanesimo metropolitano. Ancora alla fine del secolo, il culto aristocraticistico per la pagina levigata pesa come un macigno sullo sviluppo di una matura civiltà della lettura. Ne deriva, anche entro il dibattito critico e storiografico, non solo l’offuscamento di una parte rilevante della tradizione letteraria novecentesca, ma soprattutto la rimozione netta del punto di cesura che ne segna e ne orienta il percorso: all’indomani del secondo conflitto mondiale, è il movimento neorealista a dispiegare il maggior sforzo di rinnovamento democratico per sconfiggere il carattere di separatezza castale e inaccessibile che i ceti umanistici continuano ad attribuire ai valori artistici. Nella stagione postbellica, ricca di entusiasmi euforici e speranze travolgenti, si avvia, finalmente anche nel nostro paese, la fondazione di una moderna civiltà del romanzo. L’inversione di rotta, con il conseguente mutamento di canone, non solo galvanizza il ricorso alle forme alacremente conversevoli della prosa ma sollecita a proclamare con baldanzoso coraggio che la letteratura non è un affare solo per addetti ai lavori, ma riguarda la collettività ampia dei lettori. Per dar voce alle vicende della comune umanità, tratteggiando figure e situazioni in cui ogni lettore poteva e doveva riconoscersi, gli scrittori neorealisti sperimentano sia le risonanze evocative della cronaca testimoniale sia i ritmi trascinanti dell’avventura: le cadenze del linguaggio si modulano sui toni della schiettezza cordiale, mentre il registro espressivo tende a coniugare drammaticità di pathos, insorgenze di lirismo elegiaco, note di spensierato buonumore. Il progetto era ambizioso, forse troppo impegnativo per la recente civiltà romanzesca: il fatto che i capolavori neorealistici appartengano soprattutto al campo cinematografico nulla però toglie all’empito democratico che sorreggeva la pratica di scrittura letteraria; ribadisce semmai il fardello opprimente di un’eredità che al primato auratico della lirica affiancava la diffidenza sprezzante verso l’orchestrazione di temi e motivi non preventivamente selezionati, la sveltezza accattivante della dinamica d’intreccio, la mescolanza di toni che fa baluginare il dissidio tragico entro le maglie della banale quotidianità.
Sono appunto questi i caratteri precipui della narrativa istituzionale del nostro secolo: vi appartengono quelle opere che, senza denunciare alcuna subalterna nostalgia per la modellistica tradizionale e i valori a essa connessi, rispettano i criteri di leggibilità e di interessamento, puntando a dar conto per via immaginosa delle contraddizioni in cui ci dibattiamo, fra desideri di libero, espansivo slancio vitale e tormentosi assilli di contristata identità privata e collettiva. Le accomuna, sul piano linguistico, la scelta di rigettare i contorcimenti involuti dell’ordine sintattico e il repertorio retorico della cifra espressionistica, per prediligere ora lo stile fatto di «cose e non parole», ora l’estro fabulatorio ambiguamente conturbante, ora la tersità di una prosa semplice, che non cela increspature d’ansia. Ad assicurare il dialogo è il campionario delle tecniche compositive che, pur nella incomparabile diversità delle strategie testuali, garantisce la riconoscibilità degli scenari in cui si dipanano le vicende, la messa a fuoco del punto di vista e dell’intonazione con cui sono narrate, l’attivazione dei meccanismi d’empatia e di straniamento verso personaggi per lo più abitati da turbamenti inquieti, aspirazioni confuse, crucci melanconici: tipi, cioè, novecentescamente normali. Sulla soglia del nostro ipotetico percorso, pronto a traghettarci verso il nuovo millennio, ci accoglie un morto vivente, che ha conosciuto l’esperienza umoristica del tragico moderno: «storie di vermucci» sono ormai le nostre, ci ricorda Mattia Pascal, non più raccontabili secondo le stantie convenzioni di stile e le tradizionali distinzioni di genere, ma degne per la loro «stranezza» di sollecitare la curiosità del lettore sbadato, spalancandogli nello scenario di noia dilagante una pausa di salutare «distrazione». Accanto al bibliotecario sopravvissuto, il vecchio bugiardo Zeno, con il mozzicone dell’ultima sigaretta fra le labbra, s’atteggia a vero eroe del nostro tempo. E tale è non perché il primo degli inetti, ma per la ragione opposta: prototipo nevrastenicamente insopportabile del borghese cittadino, abile nel barcamenarsi fra rivali, reali o presunti, accorto nell’assestare bilanci economici e familiari, consapevole soprattutto che questo mondo è un’infamia ma è l’unico possibile, dove la legge della reversibilità governa ogni atto e ogni sentimento, dove sola salvezza è l’autoironia, pronta a smascherare gli inganni della coscienza malata, nel momento stesso in cui li concepisce e li ammanta di alibi assolutori. La rievocazione memoriale intreccia nel tempo misto del racconto ricordi sinceri e proiezioni mistificanti, mentre la parabola romanzesca si raggruma per temi e figure, che / ungi dall’assecondare l’ordine progressivo della storia e della biografia, scandiscono la discontinuità incerta dei percorsi dell’esistenza e della lettura.
Se ad avvicinare le sorti letterarie dei protagonisti del Fu Mattia Pasca! («La Nuova Antologia», 1904) e della Coscienza di Zeno (Cappelli, 1923) è l’ambiguità con cui il narratore declina la connessione fra materiali di vita e attività di scrittura, a renderli guide autorevoli nell’universo novecentesco della narrativa istituzionale, è la nettezza con cui il resoconto delle loro vicende delimita i confini della rappresentazione: il nucleo familiare. A suggerire subito l’unico orizzonte di totalità romanzesca entro cui i nostri scrittori credono possibile inscrivere la raffigurazione dell’esperienza perturbante della modernità.
È la conferma indiretta, ma non meno significativa, di un carattere peculiare della società italiana contemporanea. A una collettività, priva di un forte senso dello stato-nazione, restia a instaurare relazioni di socialità corresponsabile e incline, al contrario, a coltivare i legami vincolanti del familismo, pare corrispondere una civiltà del romanzo fragile e timorosa, che alla rappresentazione dell’affresco di eventi collettivi antepone il quadro ristretto delle cronache domestiche. Termine di raccordo elettivo fra pubblico e privato, sede primaria di affetti disinteressati e ossessioni devastanti, la famiglia resta per quasi tutto il secolo l’osservatorio privilegiato da cui commentare la dinamica delle sorti comuni, magari riproiettandole, come agli esordi della letterarietà moderna, nel lontano passato: alle soglie del boom economico la decadente sensualità di Tomasi di Lampedusa fa rivivere nel Gattopardo (Feltrinelli, 1958) i viceré della Sicilia borbonico-garibaldina. E quando, al declinar di questo millennio, gli autori più giovani si cimentano a illuminare il trapasso ormai compiuto dal regime arcaico-patriarcale alla civiltà dell’urbanesimo borghese, il racconto acquista slancio e fervore nel confronto polemico con il microcosmo familiare. Nel Seminario sulla gioventù di Aldo Busi (Adelphi, 1984) il picaresco vagabondare del protagonista assume timbri corposi di visionarietà esuberante quanto più s’allontana dall’arretratezza cupa e violenta del mondo contadino; nel contempo, però, è dalla fedeltà crucciosa all’intrepida figura materna che Barbino attinge l’energia vitale per sfuggire alle trappole sedut­torie di una femminilità spregiudicatamente trasgressiva. La commistione di allegrezza spigliatamente scombinata e di struggente avvilimento rabbioso che sorregge l’intelaiatura sapiente di Castelli di rabbia di Alessandro Baricco (Rizzoli, 199 1) si condensa nelle due immagini di edifici che incorniciano la narrazione: all’inizio, nell’ «ovvia bellezza di una campagna docile e regolare», domina la villa della signora Jun Rail che, con il suo sorriso incredibilmente radioso, attende i ritorni immancabili di un marito intraprendente negli affari economici e sentimentali. Al termine, il Crystal Palace in cui «si rifugiano i desideri» d’autenticità e di pienezza sentimentale, perché fra le sue immense lastre di vetro è possibile sentirsi «al sicuro eppure liberi», deflagra in uno «spropositato fuoco d’artificio»: le fiamme bruciano il sogno umano di una convivenza senza inganni, e insieme consumano la fiducia fattiva nel progresso collettivo.
Interlocutori crucciati di una classe borghese timida, miope, refrattaria a uscire dalle certezze del conformismo benpensante, i nostri narratori, quando non scelgano i moduli dell’espressionismo arrovellato per rinfacciarle vigliaccherie mediocri e becere grettezze, ne dipingono il ritratto schizzando profili pallidi e scialbi, e soprattutto rinserrandone le sorti entro il circuito opprimente dell’intimità. L’esemplarità dell’esordio narrativo di Moravia con Gli indi/ferenti (Alpes, 1929) risiede anche in questa acuta percezione dell’angustia emotiva e ideologica dei rapporti dell’io col mondo: la vera indifferenza che alberga in casa Ardengo, così dirompente da diventare critica al regime fascista, non riguarda i sentimenti esacerbati di Carla e Michele, ma allude alla mancata assunzione di responsabilità verso sé e verso gli altri, venuto meno ogni principio d’autorità morale ed economica. E nella rappresentazione contemporanea dell’universo familiare la morte del padre non solo suona leitmotiv martellante – i protagonisti orfani o bastardi non si contano: valgano due nomi per tutti: Anguilla della pavesiana Luna e i falò (Einaudi, 1950) e Pin del Sentiero dei nidi di ragno, di Calvino (Einaudi, 194 7) – ma condiziona la struttura compositiva di un sottogenere tipico della modernità: il romanzo di formazione. Il percorso di crescita di Agostino (Bompiani, 1944 ), ma anche degli adolescenti protagonisti dei racconti bilenchiani (esemplare Anna e Bruno, Parenti, 1938) prende le mosse da quel vuoto e le prove iniziatiche si restringono al confronto ravvicinato con le immagini, presenti o sfumate, delle figure parentali.
Ancor più canonico, è il caso di dirlo, il libro che, giusto a metà del secolo, si porge come autentico «romanzo familiare dei nevrotici»: Menzogna e sortilegio (Einaudi, 1948). Nell’opera morantiana, la malata narratrice Elisa, rimodulando le bugie e le verità di Zeno, riveste i «parenti eroi» di tratti fantasmatici, oscurandone e nel contempo rivelandone l’autentica sostanza umana. Tutto nella compagine romanzesca rimanda all’ambigua legge della reversibilità: in un intreccio claustrofobico che abbraccia però la «grande stagione defunta» degli avi immettendoci nelle loro «magioni regali», la cronaca quotidiana di una meschina famiglia di impiegati meridionali getta luce sul tracollo rovinoso dei ceti aristocratici, sul declino inarrestabile del mondo contadino, sull’esito di squallore angoscioso cui perviene la «modernità promiscua, misera e indiscreta» di uno sviluppo urbano, estraneo a ogni dinamica di progresso. Il riuso dei generi tradizionali della narratività distesa nutre l’ambizioso progetto di attingere la totalità romanzesca mettendo in scena ciò che di meno interessante offre la civiltà contemporanea: le nevrosi distruttive e autogratificanti dei ceti piccolo-borghesi tanto più aggressivi e perdenti quanto più subalterni ai vecchi modelli dominanti. A dare spessore fascinoso a questa ambigua «compresenza di esaltazione e razionalità» (Cases) è una scrittura conturbante, ricca di futili leggerezze e melodrammatici deliri, capace di calcinosi squarci descrittivi e di penetranti analisi introspettive, di eleganti arabeschi e perfidi giudizi.
L’anno prima Pratolini aveva intrapreso un percorso analogo e opposto per ricomporre l’interezza polifonica dell’affresco romanzesco: il narratore di Cronache di poveri amanti (Vallecchi, 1947) recupera le cadenze epicamente popolari del racconto orale, dinamizzandone la progressione narrativa grazie a un montaggio veloce e spedito di taglio cinematografico: se le preoccupazioni giornaliere e i modesti traffici di un quartiere cittadino riflettono le contraddizioni e i conflitti della grande storia pubblica, il libro più rappresentativo del neorealismo riesce a capovolgere l’immagine della collettività nazionale come società chiusa: e rassegnata, aprendosi a un esito di fiducia nell’agire collettivo. I poveri amanti di via del Corno, fra beghe e violenze, soprusi e lutti, escono vincenti, perché possiedono, e sanno tramandarlo alle più giovani generazioni, come testimonia l’ultimo dialogo di Musetta Cecchi con il nuovo arrivato Renzo, un criterio di giudizio e di comportamento tanto semplice quanto netto: la vita «con tutti i suoi annessi e i connessi», secondo l’espressione di Maciste, ti ammaestra che «Estraniarsi significa prestare la propria connivenza all’ordine costituito, riconoscerlo, o almeno accettarlo moralmente». Il monito all’assunzione di responsabilità non solo vale a commento degli anni oscuri del regime, ma diventa sollecitazione pressante per tutti, nella stagione difficile della rinascita democratica del paese. La piena sintonia fra il narratore e i suoi «cornacchiai», fondata su una somma di valori coscienzialmente condivisi e affidata alle inflessioni coinvolgenti della cordialità affabile, è proiezione testuale del dialogo che lo scrittore punta a instaurare con le più ampie cerchie di lettori disponibili.
Ma l’aspirazione, efficace nel breve termine, rischiava di mancare il centro del bersaglio: il pubblico romanzesco, allargandosi e stratificandosi, tendeva ormai a scompaginare la cerchia tradizionale dei ceti popolari per avviarsi a diventare un’utenza collettiva, potenzialmente di massa. Non solo: la connessione fra fatti di vita intima ed eventi storici chiedeva mediazioni più duttilmente problematiche e la nostra narrativa non aveva ancora maturato gli strumenti idonei per raffigurarla nella sua inedita complessità. È un altro libro dell’area neorealista a suggerircelo nell’evidenza sfolgorante del titolo: Una questione privata (Garzanti, 1963), l’opera di Beppe Fenoglio che istituisce un legame provocatorio fra scelte di lotta resistenziale e ansie di verità esistenziali. Calvino riconosce all’autore piemontese il merito di essere riuscito «a fare il romanzo che tutti» i letterati di quella generazione avevano «sognato» di scrivere. La forza del testo fenogliano non solo risplende nell’enigmatico finale, dove la pazza corsa di Milton si blocca non si sa se sul vuoto di morte e sconfitta o sul varco di salvezza e futuro, ma si dispiega nella disarticolata linearità di una trama che tanto più illumina i contrasti ideologici delle bande partigiane quanto più si concentra sull’ossessione di un’impossibile promessa d’amore: l’esito è così persuasivo perché la combinazione dinamica degli eventi non si svolge entro un’ampia compagine romanzesca ma con rigore si concentra nella struttura del racconto lungo, o se si vuole, del romanzo breve.
È questa la misura che con maggiore continuità e coerenza caratterizza l’area della narrativa istituzionale novecentesca. I nomi si affollano e qui più che altrove gioca il criterio selettivo del giudizio idiosincratico: forse in questa galassia sparsa e disomogenea non brillano capolavori canonici; questi testi hanno, però, il merito indiscutibile di aver costruito una tradizione di modernità novecentesca che ha nutrito e acceso il gusto di raccontare storie entro una civiltà letteraria, costantemente tramata da riflussi di intellettualismo metanarrativo, da tentazioni di eccentricità arrovellate, da resistenze tenaci a confrontarsi non solo con le attese del pubblico di massa ma con gli ibridi linguaggi antiumanistici dell’immaginario collettivo. E allora ecco, in breve sequenza parabolica, la limpidezza fantastica con cui Bontempelli nella Scacchiera davanti allo specchio (Bemporad, 1922) allestisce, per un lettore adulto e bambino, gli spazi e i tempi di un mondo ormai estraneo all’ordine della naturalezza e al dominio dell’etica antropocentrica; il baluginio trepido dell’incubo di morte nella tersità di linguaggio di Casa d’altri di Silvio D’Arzo (Sansoni, 1953 ); e infine la rarefazione compositiva di Cassola, che sola può rendere la ritrosia esistenziale di personaggi incolori (Il taglio del bosco, Einaudi, 1959, col significativo sottotitolo Racconti lunghi e romanzi brevi), o l’ombrosità scontrosa di donne dal «cuore arido» solo perché incapaci di concedersi uno sfogo o un rimpianto. In fondo all’ipotetico percorso, mentre l’arrivo del nuovo millennio pare affievolire più che sollecitare le risorse creative degli autori di maggior prestigio, alcuni giovanissimi scrittori provano, sempre entro la misura breve del racconto, a rilanciare l’af­fabulazione narrativa, non rigettando ma appropriandosi i materiali più eterogenei e impuri che s’ammassano nell’universo multi­mediale contemporaneo. Aldo Nove sbeffeggerebbe, certo, l’inclusione nel canone delle sue «storie senza lieto fine» (Woobinda, Castelvecchi, 1996), raccolte con l’ordine franto e seriale tipico degli spot pubblicitari e delle schegge parodiche di blob. E noi ci guardiamo bene dal farlo; tuttavia, i libri dei «cannibali» hanno sollevato un problema ineludibile: è con le schiere dei numerosissimi «analfabeti» letterari che la parola scritta, per vincere la sfida con le tecnologie elettroniche, deve riuscire a dialogare, sperimentando, ancora una volta, i tempi e i linguaggi più idonei a far scattare le molteplici modulazioni dell’interesse. *
 
* La mappa degli editori che per primi hanno stampato i libri prescelti non solo non delinea un canone forte – è difficile individuare una o più case editrici che abbiano assolto la funzione istituzionale di promuovere e consolidare la civiltà del romanzo nel Novecento – ma la disparità delle sigle non consente neanche di tratteggiare un modello tipologico. Certo si conferma il primato dell’area Centro-settentrionale, con una visibilità fiorentina stupefacente, ma niente più, a testimonianza ulteriore della fragilità complessiva di un mercato dei libri che, anche da parte degli editori, non pare molto preoccupato di entrare iri sintonia con l’orizzonte variegato delle attese dei lettori novecenteschi.