La scuola italiana di età repubblicana ha sempre avuto un cattivo rapporto con la contemporaneità. Tanto più positiva allora deve essere l’accoglienza da riservare a quello che tutti chiamano il decreto Berlinguer sull’insegnamento della storia, il quale sancisce una radicale modificazione del modo in cui sono ripartiti i programmi di storia. Obiettivo principale è la massima valorizzazione del Novecento. Alcuni aspetti del decreto però lasciano perplessi. E resta il dubbio che l’insieme della scuola e forse anche della società italiana siano culturalmente impreparati ad affrontare lo studio del Novecento, e comunque non abbiano una gran voglia di farlo.
Nei programmi e nei piani di studio delle discipline storico-umanistiche (la letteratura, la filosofia, la storia vera e propria) i contenuti relativi a fatti e problemi degli ultimi cinquanta-sessanta anni sono stati spesso trascurati, ovvero sono stati relegati al ruolo di temi residuali, cui si dedicano poche affannose ore di lezione, quasi solo per accennare ai motivi generalissimi che li attraversano, e non certo per procedere ad approfondimenti degni di questo nome. E la responsabilità di certe colpevoli carenze deve essere ascritta ai vecchi programmi, i quali, soprattutto nelle scuole medie superiori, dove istituzionalmente tutto è rimasto immobile per decenni, hanno continuato a fondarsi su scansioni cronologiche didatticamente accettabili negli anni trenta e quaranta o nei primi cinquanta, ma affatto improbabili alle soglie del Duemila. Insomma: altro è programmare un approdo all’oggi entro l’arco di tempo che va dal congresso di Vienna fino – poniamo alla seconda guerra mondiale e alla Resistenza, altro, partendo dalle stesse posizioni, è arrivare sino alla guerra del Golfo.
Certo, quel cattivo rapporto si poteva in parte spiegare con una reazione alla fisionomia della contemporaneità che l’ultimo decennio circa del fascismo aveva imposto agli studenti italiani: il tempo presente essendo in quella prospettiva nient’altro che l’inveramento trionfale – e anzi imperiale – d’un lungo destino storico il quale culminava nella parola e nell’immagine del Duce (la cui opera era infatti parte integrante del programma terminale tanto di storia quanto di filosofia e italiano). E comunque, più in generale, una qualche prudenza verso le vicende recenti e recentissime poteva essere imposta anche dal timore che un eccesso di ideologizzazione di impianto aproblematico (se non addirittura giornalistico, nel senso peggiore del termine) avrebbe finito quasi inevitabilmente per caratterizzare ogni studio degli eventi più recenti.
Tutte riserve, queste, che oggi ci appaiono o legate a remore affatto superate, o teoricamente risibili; e per molte ragioni cui si può appena accennare. Basti comunque dire che la contemporaneistica (storica, letteraria, filosofica) è divenuta ormai da tempo una specializzazione scientifica e accademica dotata di istituzioni peculiari, d’una tradizione ingentissima di ricerche e studi in grado di legittimarla senza alcuna riserva. E anzi il «novecentista», lungi dal rappresentare una specie seppur nobile di giornalista o polemista, è oggi uno studioso che deve attenersi nei propri lavori a un rigore persino più rigido di quello cui è costretto – per esempio – il medievista o il classicista: le sue fonti sono infatti assai più numerose e dispersive, inevitabilmente lo costringono a faticose ricognizioni preliminari e insieme lo obbligano a elaborazioni teoriche e metodologiche di tipo selettivo che altri, viceversa, possono trascurare.
Tanto più positiva, allora, deve essere l’accoglienza da riservare a quello che tutti chiamano il decreto Berlinguer sull’insegnamento della storia: vale a dire il decreto ministeriale n. 682 del 4 novembre 1996, il quale sancisce una radicale modificazione del modo in cui sono ripartiti i contenuti dei programmi di storia tanto nelle scuole medie superiori (istituti professionali esclusi) quanto nelle medie inferiori. Obiettivo principale è, appunto, la massima valorizzazione del Novecento, che diventa il tema unico dell’insegnamento nell’ultimo anno di ciascuno dei cicli interessati. Tale ristrutturazione entra in vigore a partire dall’attuale anno scolastico (1997 – 1998) e ha comportato un immediato adeguamento dei docenti alle inevitabili asimmetrie di contenuti che ne sono derivate (nel passato anno si è dunque verificata una corsa a «finire il programma» più forsennata del solito, in particolare nelle quarte superiori: classi nelle quali in teoria si è stati costretti a coprire un arco cronologico che va dal tardo Rinascimento sino a Giolitti escluso).
Ma l’adeguamento forse più funambolico e dispendioso è quello cui sono dovuti andare incontro gli editori scolastici, costretti nel giro di pochissimi mesi a rifare del tutto i propri manuali, o quanto meno ad approntarne edizioni rinnovate in cui i vecchi contenuti siano ritagliati secondo le partizioni e scansioni oggi previste. Una vera faticaccia, che nell’immediato si configura anche come un danno finanziario non indifferente, vista la retrocessione al rango di carta da macero di tanti volumi giacenti nei magazzini.
Anche perché, a complicare ulteriormente la situazione per le case editrici (e a suscitare colpevoli confusioni – come vedremo – nei polemisti della carta stampata), nel febbraio di quest’anno sono stati resi operanti i nuovi programmi delle professionali, che peraltro erano allo studio ben prima che Berlinguer divenisse ministro. Sono provvedimenti nel loro complesso assai innovativi, che fra l’altro prevedono interessanti ristrutturazioni nell’ambito della contemporaneità (la fantasia dei giornalisti è stata soprattutto colpita dalle indicazioni riguardanti l’adeguamento dei contenuti alle realtà locali: quasi si trattasse di concessioni sostanziali alle ideologie federaliste). Ne deriva una vera e propria rivoluzione del manuale per le professionali, che va ben oltre una mutata distribuzione della materia, poiché implica, per esempio, tagli tematici trasversali al continuum storico, e quindi una contestazione della placida linearità cui siamo da sempre abituati. Comunque – per venire almeno in parte incontro alle esigenze della produzione – si è permesso agli insegnanti delle professionali di ritardare all’autunno 1997 l’adozione delle opere di storia, così che autori ed editori hanno avuto qualche mese di respiro in più.
Tutto (o quasi tutto) bene, dunque. Dopo decenni di immobilismo, finalmente qualcosa si muove. E, anche a prescindere dal progetto di «riordino dei cicli scolastici» di cui tanto si parla e di cui solo a partire dall’estate 1997 si cominciano a intravedere alcune delle linee-guida contenutistiche, l’attuale ridistribuzione di contenuti implica un mutamento di prospettiva decisamente positivo. Insomma, ci si augura che da un simile promettente inizio discenda il principio che la contemporaneità, con i suoi peraltro problematici contenuti, costituisca davvero il punto di arrivo imprescindibile di ogni percorso storico. E per esempio che – segnatamente nell’ambito letterario – lo studio delle opere del passato sia concepito in funzione di uno studente e soprattutto di un lettore saldamente moderno, radicato in un presente dal quale comincia e nel quale finisce ogni attraversamento della diacronia. Con i molti corollari che tutto ciò comporta: il primo dei quali a me sembra debba essere il coraggio di confrontarsi, attraverso metodi e procedure adeguati, con le caratteristiche specifiche dello studente odierno, il quale è in tutto differente dallo studente-modello (quello liceale insomma) vagheggiato e blandito non solo dal senso comune e dalla stragrande maggioranza delle opere per la scuola, ma anche – appunto – dagli stessi programmi. Sì, perché lasciare quasi del tutto scoperto il presente significa delegare ad altre istanze l’onere d’una vera educazione letteraria (ed estetica): e chi a casa propria ha a disposizione una biblioteca, seppur piccola, ha delle chances di orientarsi in modo autonomo mediamente più numerose rispetto a quelle di chi dispone solo d’un televisore, della «Gazzetta dello Sport» e di qualche noioso manuale scolastico. Contemporanei, novecenteschi, insomma, sono soprattutto gli studenti della nostra scuola, le cui caratteristiche capiremo e tematizzeremo tanto meglio quanto più – per scelta istituzionale – contemporanei e novecenteschi saranno i contenuti della scuola stessa.
Certo, anche in questo quadro – per così dire – di preriforma, i problemi non mancano, e vanno tenuti ben presenti. Dei libri scolastici si è già detto: e comunque colpisce che il decreto Berlinguer non abbia correttamente valorizzato le molte sperimentazioni, recepite talvolta anche nella manualistica, che da ultimo si erano sviluppate soprattutto in seguito al cosiddetto progetto Brocca. Perché, insomma, ripartire da zero, fingendo di essere arrivati per primi su un terreno dove un trentennio e più di ricche e ormai consolidate sperimentazioni aveva costruito tradizioni preziosissime?
Non si capisce poi per quale ragione il giusto obiettivo di valorizzare il nostro secolo abbia dovuto comportare il sacrificio del medioevo: del periodo vale a dire che nell’immaginario del mondo occidentale, da un paio di secoli a questa parte, rappresenta l’inizio della nostra civiltà, e che inoltre nella storiografia recente ha costituito l’ambito da cui sono scaturiti alcuni dei concetti metodologici più innovativi. Basti verificare come è stato ripartito il continuum cronologico prenovecentesco nella parte centrale della scuola media superiore: nel secondo anno, si sarà costretti a fare un balzo di più di mille anni, coprendo l’arco di tempo che va dall’età dei Severi fino alla metà del XIV secolo; mentre in terza si affronteranno i tre secoli compresi tra il 1350 e il 1650 (e pertanto – paradossalmente – si dovrà lavorare su un programma fin troppo concentrato). Tutto è convenzione, si sa, e ai discrimini cronologici non dovrebbe essere attribuito un valore simbolico troppo eloquente: ma che una simile partizione costituisca un implicito invito a svalutare lo «specifico» medievale, è una conseguenza sulla quale gli artefici della riforma avrebbero dovuto riflettere un po’ di più.
Non solo. Il mio vero dubbio – di tipo, diciamo, ideologico – è che l’insieme della scuola e forse anche della società italiana siano culturalmente impreparati ad affrontare lo studio del Novecento, e comunque non abbiano una gran voglia di farlo. Non per caso, intanto, oltre l’affanno a cambiare e addirittura rifare i libri scolastici, assistiamo all’organizzazione altrettanto affannosa di corsi d’aggiornamento, i quali dovrebbero colmare le lacune di insegnanti che il Novecento non conoscono perché non l’hanno mai seriamente studiato. È in effetti sconcertante constatare come una trasformazione profonda nei contenuti e nei metodi venga affidata alla buona volontà dei singoli, all’anarchia di iniziative pubbliche e private, comunque collocate fuori da una programmazione globale.
E poi, e soprattutto, sono gli stessi esperti della contemporaneità – storici e giornalisti – ad aver dato in questi mesi una pessima lezione «di Novecento» ai comuni lettori, e anzi proprio al corpo insegnante che ogni giorno è al centro delle loro critiche e obiezioni. Dagli interventi giornalistici di Ernesto Galli Della Loggia (il quale ha clamorosamente confuso in un’unica, incongrua polemica il decreto Berlinguer e i nuovi programmi per le professionali) fino al volume einaudiano di Giulio Ferroni, La scuola sospesa (che rimprovera a quelli come me di essere dei riformisti a tempo pieno, ma che quale fonte sui programmi di storia ritiene opportuno citare solo Galli Della Loggia), il sapere non specialistico intorno alla scuola italiana si nutre di approssimazioni, di luoghi comuni, di grezzi ideologismi e moralismi. n rischio, temo, è che pure a sinistra una vera riforma non la voglia seriamente quasi più nessuno: e almeno in questo senso a Ferroni si deve riconoscere l’ onestà intellettuale e il coraggio d’aver dichiarato a chiare lettere la propria antipatia per !’«egualitarismo» didattico (le virgolette distanzianti sono sue), per i metodologismi antinozionistici, e addirittura per talune «decisioni velleitariamente democratiche come quella di vendere i preservativi a scuola».
Il Novecento che sta per finire, ricordiamocelo, fra le altre cose si è nutrito della speranza operativa e anzi militante nella riforma scolastica: da Croce, Salvemini e Gentile a Lombardo Radice, Gobetti e Gramsci, i massimi intellettuali dei primi decenni del nostro secolo ci hanno insegnato che è possibile essere insigni pensatori e, insieme, scegliere di compulsare leggi, decreti, circolari ministeriali, nonché noiosi libri di didattica e pedagogia; ci hanno insegnato che la scuola diviene davvero un bene pubblico quando si accetta di studiar/a nelle sue reali caratteristiche istituzionali. Quel Novecento è davvero finito, temo: anche se molte delle sue ragioni continuano a vivere, e a chiederci la pazienza, la passione (e, appunto, lo studio) necessari per inverarle.