Da noi si continua a trasformare la paura in spauracchio comico, e a sghignazzare felici. Quanto più esplicita è la rappresentazione estrema del ripugnante o del sanguinolento, tanto più neutralizzato è l’eletto perturbante dei materiali impiegati, come se lo splatter e il pulp non fossero che l’ultima versione aggiornata del vecchio babau della nonna di adolescenziale memoria.
Mettiamola così: e se la moda dello «splatter» e del «pulp» non rappresentasse da noi che l’estremo tentativo di esorcizzare l’orrore? Di aggirare, ancora una volta, quel buco nero della nostra modernità letteraria che è costituito dal rifiuto ostinato, pervasivo e transgenerazionale di fare i conti con quella cultura della notte, del sangue e del mistero che in altre letterature europee ha accompagnato lo sviluppo del moderno, incarnando e dando voce al suo lato oscuro e alle sue inquietudini segrete? L’ipotesi è consapevolmente azzardata e bisognosa di verifiche da effettuare con cautela, ma è anche carica di indubbie suggestioni: incapace da sempre di rappresentare l’orrore sulla pagina scritta, la nostra narrativa continua a rimuovere il fantasma dell’horror frequentandolo nella forma rovesciata della parodia. Cioè – paradossalmente – parodiando un qualcosa che non è stata e non è in grado di produrre e realizzare. Scherzandoci su. E disperdendo nella forma del frammento, della scheggia o del blob il potenziale di inquietudine che la tradizione gotico-onorifica porta inevitabilmente con sé. Tutti i giovani scrittori italiani che maneggiano materiali riconducibili a questa matrice tematica (da Niccolò Ammaniti a Aldo Nove, da Michele Serio a Matteo Galiazzo) sono in bilico – lo notava già Bruno Falcetto su Tirature ’96 – fra l’horror e il grottesco. Affrontano temi alla Tod Browning con lo sguardo di un Dino Risi. Sghignazzano, sgavazzano, sollazzano. Ma mai neppure di sbieco – si avvicinano a quell’epos dell’orrore che fonda e sostiene le pagine non diciamo di uno Stephen King, ma di un qualunque mediocre narratore di genere d’area angloamericana (poniamo un Dean R. Koontz, o un Dan Simmons). Lì, l’orrore nasce da una profonda conoscenza della cultura di massa e da un’istintiva capacità di disarticolare le sue mitologie nascoste: quelle che si annidano nel ventre molle della provincia planetaria, negli incubi notturni dell’ordinary people, negli scheletri vagolanti tra le fobie collettive. Da noi no. Da noi si continua a trasformare la paura in spauracchio comico, e a sghignazzare felici. Quanto più esplicita è la rappresentazione estrema del ripugnante o del sanguinolento, tanto più neutralizzato è l’effetto perturbante dei materiali impiegati: come se lo splatter e il pulp non fossero che l’ultima versione aggiornata del vecchio babau della nonna di adolescenziale memoria.
Si prendano per esempio i racconti di Matteo Galiazzo pubblicati nel volume Una particolare forma di anestesia chiamata morte (Einaudi, 1997): il registro oscilla fra il comico e il tragico, con guizzi frequenti di gelido cinismo, il tono sfiora spesso il grand guignol, con picchi di sadismo macabro evidenti soprattutto nella rappresentazione del corpo. Molte e precise le ossessioni ricorrenti: le perversioni corporee più estreme (dalla necrofilia alla transessualità) si calano in un clima dichiaratamente apocalittico pervaso da flussi deliranti di riflessioni parateologiche. E quando lo splatter sfiora eccessi al limite della tollerabilità, ecco che il registro comico-grottesco riconduce la scrittura in un alveo più controllato e tradizionale. L’effetto complessivo è quello – evocato fin dal titolo del volume dell’anestesia: come se la scrittura aprisse col suo bisturi affilato il corpo di un cadavere, immobilizzato nel suo grottesco rigor mortis e incapace a tutti gli effetti di «sentire» e far provare emozioni.
Ancor più esplicita e rivelatoria è la posizione di Stefano Massaron, che pure (si veda il suo Lezioni notturne, Granata Press, 1994) è uno dei più kinghiani tra i giovani narratori italiani. Emblematico il suo racconto Riflessioni sparse sulle tette di una morta, pubblicato nel volume collettaneo Un trapano nel cervello, a cura di Massimo Perissinotto e Matt Fucile (Musa Edizioni, 1996): delirante fantasia necrofilo-sadiana tutta giocata sul gusto dell’ eccesso, narra di un assistente d’obitorio intento a raccontare in un sito Internet per «violatori notturni» la sua orgasmica esperienza con il cadavere di una ragazza sottoposta durante il giorno a un’autopsia. Il linguaggio è crudo, mima espressioni gergali assemblate in una sintassi franta e veloce, ma è il tono complessivo che non convince lo stesso narratore. Come risulta evidente da questo passo dichiaratamente metanarrativo: sospira e si passa una mano tra i capelli e scopre due cose. Primo, ha i capelli sudati e appiccicati alla fronte; secondo, le dita gli tremano ancora.
Riprende a scrivere, rabbioso e insoddisfatto: ormai non può fare più niente per cambiare le parole che già stanno viaggiando nelle stanze e nella fantasia dei violatori notturni in adorazione davanti al dio schermo. Il problema è che scritta così gli sembra una farsa, e invece gli pulsa ancora nelle viscere.
Decide di cambiare registro. Deve farlo gradatamente, senza che i suoi interlocutori passivi se ne accorgano, e ci vuole concentrazione. Maestria e concentrazione. (op. cit., p. 60)
Scritta così gli sembra una farsa: è la stessa impressione, più o meno, che dalle pagine del racconto ricava il lettore (relegato, non a caso, nel ruolo di «interlocutore passivo»). Non cambia tono, il necrofilo narratore elettronico di Massaron. Non ci riesce, o non vuole. Si avventura piuttosto in facili calembour goliardico-scherzosi («sento montar l’orgasmo nei meandri reconditi dell’organismo», «la foga di aver la figa»), gioca con trovate situazionali sempre più eccessive, ma anche quando nel finale raggiunge la freddezza di una composizione sadiana non sfiora mai la dimensione del tragico, assestandosi piuttosto sui territori dello humour nero. Come per una condanna, o per una congenita inadeguatezza della scrittura.
Anche Michele Serio preferisce all’orrore il grand guignol: nella sua Napoli boccaccesca e televisiva, attraversata da guizzi di lucida follia, la scrittura mescola sfrenatamente i due registri del macabro ripugnante e dell’eccesso iperrealista, controbilanciando i picchi di crudo sadismo con una vena di comicità allegra e esagerata che assembla il grottesco e l’ironico, si tuffa nel non sense e riemerge dalle parti dell’assurdo. Tanto in Pizzeria Inferno (Baldini & Castoldi, 1994) quanto in Nero metropolitano (Baldini & Castoldi, 1996), la vocazione alla violenza trova nel «ventre di Napoli» il suo humus d’elezione. E i personaggi – burattineschi come creature da cartoon – sperimentano una realtà allucinata e degradante in una danza macabra che non arretra di fronte a nulla e a nessuno. Popolata da erotomani ossessivi e da emofiliaci paranoici, da pornofili da hot fine e da mostri paradossali e improbabili, la nuova narrativa horror italiana sembra paralizzata di fronte alla propria indisponibilità (o incapacità) a confrontarsi con i due elementi che fanno invece la grandezza dell’horror angloamericano: la necessità di assumere un punto di vista e un giudizio (etico, estetico, psichico, sociologico) di fronte ai frammenti di realtà rappresentata e quella di farsi carico ( di liberare?) il potenziale emotivo connesso al consumo dei propri testi. I narratori citati – ma bisognerebbe aggiungere al gruppo almeno anche il Daniele Brolli di Animanera (Baldini & Castoldi, 1994) e Segrete identità (Baldini & Castoldi, 1996) e l’Andrea G. Pinketts di Lazzaro, vieni fuori (Music Makers, 1992), Il vizio dell’agnello (Feltrinelli, 1994) e Io non io, neanche lui (Feltrinelli, 1996) – sono muti di fronte alla realtà e hanno orrore delle emozioni. Attoniti, perplessi e annichiliti, provano a dominare l’orrore riproducendolo con fredda referenzialità, salvo poi schizzare altrove – come in un perverso e paradossale gioco di zapping – non appena avvertono il rischio di dover connettere le disjecta membra della loro scrittura in un quadro organico e coeso. Paura della paura, insomma: paura di produrla, di metterla in circolo, di non riuscire più a dominarla. Paura della tragedia che affascina e inquieta, anche quando assume toni marcatamente millenaristici, in uno scrittore come Stephen King.
Paura di non saper reggere il confronto, paura di non saper andare oltre un iperrealismo che, per quanto eccessivo, sa di non poter essere che minimale. Perché minimo – e piccolo piccolo – è il mondo che appare tra le televendite e gli scaffali delle merci di Aldo Nove, nell’umanità gaglioffa e inconsapevole di Niccolò Ammaniti, nella squallida volgarità dei dannati di Michele Serio.
La differenza è tutta qui: l’horror vero, quello che va da Lovecraft a King passando per Robert Bloch, Clive Barker e Anne Rice, è un genere inevitabilmente massimalista e «morale», il nostro non è che l’ultima maschera, cinica e ghignante, della vecchia commedia all’italiana.