Il fenomeno delle scuole di scrittura creativa sta esplodendo in tutto il paese. Chi sono i frequentatori, che aspirazioni nutrono e quali metodi vengono seguiti nell’insegnamento?
Una leggera, impalpabile euforia accompagna, da qualche tempo, la parola «scuola». Non perché si sia realizzata alcuna grande riforma del sistema scolastico pubblico, ancora faticosamente arrancante. Sta manifestandosi, invece, un’effervescenza di iniziative che con la didassi hanno molto a che fare, anche se si tratta di imprese rigorosamente private e poco ortodosse rispetto all’istituzione scolastica. Da circa tre o quattro anni, dunque, sta esplodendo il fenomeno dei corsi di scrittura creativa. È un’onda decisamente montante – ricca, nella sua varietà, perfino di alcune perplessità e di certi sussieghi – che prontamente si è riversata anche nell’editoria con il proliferare di libri, manuali, saggi di riflessione sulla scrittura. E che sta creando nuove professionalità, come ha prontamente rimarcato Bruno Falcetto in un’attenta indagine del fenomeno che la rivista «L’Indice» ha ospitato nel numero di settembre 1997. È una novità degna di qualche rilievo per la cultura italiana, un segno di civiltà, di progresso, e di salutare emancipazione da quella pervicace «metafisica» della letteratura che nella storia delle patrie lettere non ha certamente mai puntato sulla «didassi» – né su un confronto vasto e salutare con un pubblico – ma piuttosto si è appoggiata, per via verticale e gerarchica, sulle individualità «ispirate dal soffio divino», sulle accademie, le élite, le cooptazioni da parte di centri del potere culturale.
I detrattori più espliciti sostengono che l’unico risultato possibile rischia di essere l’ omologazione delle scritture, e che potrebbe trattarsi dell’ennesima forma di imperialismo del sistema culturale americano, dato che da quella cultura proviene il modello, variamente interpretato in Italia, delle scuole di scrittura. Chissà se può essere sufficiente obiettare che l’insegnamento della retorica, forma nobile e antica di quella didassi, sta tutta nella nostra tradizione greca e latina.
Non concederemo troppo spazio agli scettici, per privilegiare invece una prima, empirica analisi di un fenomeno che, almeno dai primi anni novanta, sta allargando esponenzialmente i propri confini di crescita. Ricordando, tuttavia, che i primi esperimenti italiani risalgono agli inizi del decennio scorso e portano i nomi di Raffaele Crovi e, soprattutto, di Giuseppe Pontiggia (ma non vanno dimenticati alcuni esperimenti di Dacia Maraini) il quale, per ben dodici anni, in autorevole solitudine, ha costruito la fase pionieristica di un’esperienza che ora attraversa il suo momento di espansione più forte e più variata. Verosimilmente i prossimi anni vedranno consolidamenti, selezioni e specializzazioni. Se si pensa che in America la creative writing è da quasi un secolo disciplina universitaria in tutti i principali atenei, o campus, del paese, insegnata dai più importanti scrittori e poeti della nazione, si intuiscono il profilo e la mole del lavoro che attende i nuovi operatori. Ma intanto vediamo lo stato delle cose attuali.
Il pubblico
Eterogeneo, è questo l’unico aggettivo possibile per una prima definizione del pubblico che affolla numeroso i corsi di scrittura. Se la scuola non prevede limiti di iscrizioni – come succede per il Master alla Holden di Torino, dove il limite massimo di età sono i trent’anni – ai corsi accedono, sia pur in percentuali diverse, tutte le fasce di età – adulta s’intende, anche se in un corso di Napoli si segnala la singolare presenza di una bambina di 10 anni! – e quasi tutte le categorie sociali e professionali. Una popolazione le cui aspettative sono, singolarmente, le più difformi e variegate ma sembrano rispondere a due bisogni fondamentali: l. verificare in termini concreti, anche se non immediatamente professionali, una personale tensione alla scrittura, iniziando a prendere possesso degli strumenti «tecnici» necessari a esprimersi in termini narrativi; 2. la necessità di condividere il «vizio assurdo» della scrittura, individuando in una scuola uno spazio di confronto e di socializzazione.
La scuola procura anche i primi lettori: qualificati quando si tratta degli insegnanti, comuni nel caso dei propri «colleghi». Qualificazione e condivisione, sembrerebbero dunque i bisogni primari di chi si iscrive a tali corsi. Uomini e donne si avvicinano alla scrittura narrativa con intenti di apprendimento attivo, produttivo, non più, o non solo, come semplici lettori. L’affermazione forse è un po’ generica e non rende ragione di qualche specificità del pubblico, che già comincia a profilarsi.
Infatti, utilizzando alcuni sondaggi fra gli iscritti ai laboratori di scrittura creativa organizzati dal circolo culturale «Walter Tobagi» di Mestre, emergono alcuni dati – raccolti e strutturati tra il 1995 e il 1996 da Annalisa Bruni – che possono fornire un’interessante campionatura media, estendibile con buona approssimazione anche ad altre situazioni. Il primo elemento di riflessione è indotto dalla percentuale maggiore di donne, rispetto agli uomini che frequentano i corsi: il 70% circa. L’età degli iscritti vede i numeri più consistenti nella fascia che va dai 30 ai 40 anni, ma anche in quella dei giovani fino ai 29 anni. Interessanti anche i dati relativi alle formazioni culturali e alle professioni: al laboratorio tenuto dal febbraio al maggio del 1995 gli iscritti erano 48 e i titoli di studio erano così ripartiti: laurea 30,8%, diploma 61,5%, media inferiore 7,7 % ; le professioni invece indicavano le seguenti percentuali: casalinga 7 %, studente universitario 7 %, impiegato 32%, insegnante 32%, pensionato 7%, commerciante 15%.
Nell’esperienza di chi scrive queste note, condotta al Teatro Verdi di Milano, là dove Pontiggia ha insegnato per dodici anni, la varietà sociologica è più frastagliata, anche se non è stata ordinata in termini numerici: nell’autunno-inverno 1996-1997 in quella scuola sono affluiti dalla maestra elementare in pensione al radiologo, dal giornalista televisivo alla redattrice di romanzi rosa, dal rappresentante di piastrelle al dirigente aziendale, dall’ex operatore finanziario all’operatore di sportello della Telecom, dal commerciante all’insegnante delle 150 ore per gli studenti lavoratori.
Ma torniamo ai dati del circolo mestrino. Significative le risposte sulla eventuale prospettiva del mestiere di scrittore o sulle aspettative rispetto ai corsi. Con quali motivazioni si è iscritto al la borato rio ?, era una delle domande. Ecco le risposte: imparare le tecniche di scrittura 33,3 %; conoscere scrittori affermati 16,7%; interesse culturale 27,8%; necessità di confronto 16,7%; per approfondire il mio essere scrittore 5,6%. E ancora: ha già avuto esperienze di scrittura? Sì, rispondeva il 53,8% che nella maggior parte aveva partecipato a concorsi letterari, no il 46,2 %. Ha già pubblicato? chiedeva il questionario. Sì, il 46,2%, no il 53,8%. È interessato a pubblicare? Sì, 1’84,6%, no il 7,7%, non so i 1 7,7%. Ma è verosimile che gli ultimi due dati fossero da ascrivere alle inevitabili ritrosie di chi si accosta, sia pur con curiosità, a un mondo con il quale ha poca familiarità, ma al quale ambisce sommamente di appartenere, come rivela 1’84,6% di coloro che vogliono pubblicare, forse al di là di precise consapevolezze sul proprio talento e sulle asperità del mestiere, non ultime quelle economiche. Tali dati, certamente molto empirici e non definitivi, inducono a un’ultima considerazione: per il ceto medio – sociale e culturale – che appare come il fruitore maggiore di questi corsi, la scrittura creativa sembra essere investita di aspirazioni, anche contraddittorie, che vanno dall’emancipazione ai desideri di riconoscimento, dalla crescita culturale al rapporto diretto con i produttori di letteratura (gli scrittori), ma passando attraverso un percorso nel quale si riconosce l’indispensabilità di conoscenze tecniche di cui una scuola può mediare il possesso. È un pubblico che quantitativamente si allarga, ma che ambisce a qualificarsi. Segnale che l’industria culturale, o la cultura tout court, non può permettersi di sottovalutare, se davvero desidera ottemperare a una delle proprie funzioni: la comprensione senza pregiudizi dei fenomeni, anche di quelli di massa.
I luoghi
Nella penisola sono soprattutto le città, gli agglomerati urbani del centro-nord a esprimere il numero maggiore di corsi di scrittura: da Torino a Trieste, da Mestre a Prato, da Milano a Roma. Ma anche Napoli si segnala come luogo in cui si organizzano laboratori di scrittura, legati a librerie di target specializzato o a centri culturali. Tuttavia non sono pochi i corsi che si tengono, più o meno brevi, più o meno intensi, nel cuore delle provincie: nei paesini sperduti delle valli lombarde, piuttosto che in quelli del profondo Veneto, agganciati alle biblioteche comunali o alle librerie – nelle quali si sta sviluppando la consapevolezza che attraverso tali corsi si qualifica, e si fortifica, anche la lettura – e tenuti da professionisti, per lo più scrittori, che sfrecciano sui treni nazionali con obiettivo l’incontro settimanale di scrittura creativa e il piccolo nucleo degli allievi: opinione comune è, infatti, che il lavoro sia più proficuo se tenuto in un laboratorio ristretto di 12/15 unità.
I metodi
È certamente uno dei motivi di maggiore riflessione, il punto in cui si esprimono le differenze fra le scuole, non solo di carattere didattico, ma anche di prospettive. Come ha già rilevato Bruno Falcetto, sono sostanzialmente due gli indirizzi che distinguono le impostazioni dei corsi.
Nel primo, la didassi è più decisamente improntata all’acquisizione di una tecnica della scrittura narrativa. La pratica è artigianale, l’impostazione è pragmatica, l’obiettivo è la consapevolezza e il controllo dei propri mezzi messi alla prova della tecnica, dei problemi ineluttabili della narrazione, quali il punto di vista piuttosto che la costruzione di dialoghi e personaggi. Non ultima, si tende a far maturare una salutare lucidità rispetto ad alcune prospettive di mercato alla quale la scrittura, professionale anche se non d’autore, può andare incontro. Per la seconda è l’elemento esperienziale, dell’allievo o dell’insegnante trainer, a connotare il rapporto con la scrittura, che diventa specchio di espressività profonde. Un’impostazione più filosofico-esistenziale, per la quale la scrittura rappresenta anzitutto l’espressione del sé, oltre che uno degli ultimi valori possibili.
Da queste prospettive spesso conseguono rapporti più o meno stretti, più o meno auspicati o demonizzati dagli operatori, con il mercato.
Un’ultima notazione deve, purtroppo, chiudere queste brevi note sui corsi di scrittura: il deplorevole ritardo delle Università italiane. n luogo «naturale» di crescita di questi corsi dovrebbero essere le aule degli atenei; là dove si insegna a leggere e a capire la scrittura della tradizione. Ma le riforme arrancano e gli accademici rivelano più di un timore, più di un pregiudizio.