Il disgusto del protagonista dell’ultimo libro di Gianni Celati contro la civiltà odierna, che ha perso la capacità di osservarsi criticamente e di interrogarsi con spregiudicatezza sul mistero dell’esistenza, è in sinfonia con posizioni largamente diffuse nel Novecento.
Guai a nominargli i giornali. Basta che ne veda uno, e subito Attilio Vecchiatto, protagonista dell’ultima fatica letteraria di Gianni Celati, Recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto (Feltrinelli, 1996), si sente un peso sulla cima della testa che gli schiaccia le spalle e il resto del corpo. Il disgusto che prova nei confronti del giornalismo contemporaneo è tale da fargli pronunciare invettive infuocate: colmi di parole vuote quanto nauseabonde e di nomi non meno ripugnanti, i giornali sono ai suoi occhi responsabili niente meno che dell’ «abbrutimento generale» della civiltà odierna; una «civiltà orrenda» che ha perso la capacità di osservarsi criticamente e di interrogarsi con spregiudicatezza sul mistero dell’esistenza. A denunciare la vuotezza del presente sono chiamati a collaborare due modi di espressione di ascendenza illustre, il teatro e la poesia. In forma di dramma è composta, in effetti, la prima delle due parti in cui è strutturato il libro, in versi invece la seconda nella quale sono raccolti gli abnormi sonetti (in quattordici versi, ma distribuiti in tre quartine e un distico) che Vecchiatto avrebbe dovuto recitare sul palcoscenico del teatro di Rio Saliceto in occasione del suo rientro in patria dopo un lungo soggiorno all’estero. Non li recita perché, a dispetto della fama conseguita oltre confine, ad ascoltarlo non vi è nessuno, se non una anziana signora e un gruppetto di giovanotti che, entrati in sala in ritardo, se ne vanno prima della conclusione.
L’attore, del resto, non è di quelli che nutrono illusioni: «dove una povera oca che mostra il deretano in televisione è considerata centomila volte più importante di Dante, Shakespeare, Leopardi, mi dica lei – si chiede rivolgendosi alla sua uditrice – cosa c’è da sperare?».
Sdegnato dal dispregio in cui i connazionali tengono i valori della grande arte, egli non vede altra possibilità che mandare · all’aria il programma per dare orgogliosamente sfogo alla propria rabbia, pur cosciente dell’inutilità di ogni atto di ribellione. La polemica risentita sembrerebbe indirizzata contro le storture dell’Italia contemporanea; in realtà a venire presi di mira sono i simboli della civiltà di massa così come si è andata sviluppando nel corso del nostro secolo: i giornali, appunto, e poi la televisione, l’editoria, il pubblico e l’industria.
Il capo di accusa non è affatto inedito: in sintonia con posizioni largamente diffuse nel Novecento, il libro di Celati intende denunciare il processo di omologazione che avrebbe appiattito la singolarità degli individui vanificando le potenzialità positive che la civiltà di massa sembrava possedere. La prospettiva democratica di un universo sociale altamente differenziato al suo interno, che riconosce a chiunque l’opportunità di soddisfare i bisogni del proprio essere, si sarebbe secondo quest’ottica ribaltata nel suo opposto: un universo totalmente unificato in cui non ci sono differenze apprezzabili tra i cittadini, né dal punto di vista politico, né da quello dei comportamenti o del linguaggio. L’ideologia consumistica propagandata con forza dai media si è affermata in maniera così pervasiva da rendere vana ogni possibilità di discussione critica. Il generale attaccamento ai beni materiali e l’altrettanto generale povertà di idee impediscono di ascoltare seriamente chi sostiene tesi diverse da quelle comunemente conclamate: non per nulla, finché sono presenti in sala, i pochi spettatori reagiscono alla provocazione di Vecchiano ridendo come si fa di fronte alle insensatezze di chi, anziché argomentare, sproloquia.
Una visione così apocalittica delle cose ha alle spalle una ricca tradizione saggistica che vede alleati contro le masse intellettuali conservatori e progressisti, da Gabriel Tarde a Le Bon, da Simmel a Ortega y Gasset, dai francofortesi a Enzensberger. Ma è forse Pasolini il precursore più vicino a Celati e agli attuali dispregiatori delle masse. Gli argomenti usati non sono in effetti molto diversi da quelli che impiegò l’autore degli Scritti corsari quando a cavallo tra anni sessanta e settanta scandalizzò la cultura italiana sostenendo che si era prodotta una rivoluzione antropologica che aveva annullato le distinzioni fra destra e sinistra decretando il trionfo definitivo del neocapitalismo.
Va detto tuttavia che, per quanto disilluso e addirittura convinto che la storia fosse giunta a un punto conclusivo di non ritorno, Pasolini non rinuncia a tenere aperto il dialogo con le fasce intellettualizzate del pubblico, che anzi cerca di rafforzare collaborando al più diffuso quotidiano del tempo con intenti che non sarebbe sbagliato definire neoilluministici: la denuncia spregiudicata della «invivibilità» del presente è sottesa infatti a una fiducia nella ragione di chi legge, che lo scrittore provoca affinché possa aprire gli occhi e prendere atto di quanto gli avviene intorno. Al contrario, nel libro di Celati prende corpo un cupo desiderio di accigliata autoemarginazione che esclude ogni compromesso con il mondo degenere: adattatosi a «Venire tra i maiali» dall’estero, dove è riverito da tutti, il grande «attore internazionale» non ha nulla da dire a chi ha «le orecchie imbottite di prosciutti, di formaggi, di mortadelle» e non ha altri interessi che non siano quelli indotti dal conformismo triviale: «il comfort, le vacanze, la gastronomia, la moglie che fa bella figura, l’ automobile da cinquanta milioni, le urla calcistiche della vergogna umana».
Eppure, le idee che Celati mette in bocca al suo personaggio sono tutt’altro che disdegnate dai lettori, e lo prova il fatto che punti di vista analoghi sono espressi nei maggiori libri di successo degli ultimi anni oltre che negli articoli dei nostri più acclamati maitres à penser. Una conferma la offrono gli ultimi due romanzi di Susanna T amaro, Va’ dove ti porta il cuore e Anima M un di. Anche in essi la contrapposizione è netta: libri sì, giornali e televisione no. I libri (e si dovrà pensare che il sostantivo vada inteso in senso restrittivo, non tutti i libri, ma solo quelli veramente degni di questo nome, i «buoni libri»), i libri, dunque, sono utili all’arricchimento spirituale perché frutto di una fantasia disinteressata. I mezzi di comunicazione di massa al contrario annebbiano le menti perché regolati dalle leggi del mercato, che premiano i prodotti maggiormente appetibili da un pubblico esteticamente rozzo. Anche il cinema (nel romanzo tamariano più recente) è preso nella rete, e si capisce dato che tra le arti è quella più compromessa con l’industria. Si salva solo la radio a cui gli intellettuali riconoscono in genere qualche simpatia forse perché la vedono associata in un comune destino di emarginazione.
Il pregiudizio che suggerisce sentenze tanto unilaterali da ignorare totalmente il contributo che i mezzi di comunicazione di massa hanno offerto al processo di democratizzazione del paese, è duro a morire: attaccata ai beni materiali, conformista per principio, remissiva alle lusinghe del potere, la massa non sa né può apprezzare i contenuti della vera arte, che per definizione sarebbe tale solo quando possieda la capacità spiazzante di rimettere in discussione ogni certezza acquisita, scompaginando il nostro orizzonte d’attesa.
Si capisce, dunque, che con tanta insistenza i nostri autori si soffermino su quello che ai loro occhi sembra il maggiore tabù della società contemporanea, non il sesso (ormai acclimatato in modo fin troppo prepotente nella galassia multimediale), ma la morte, intesa come principio sconvolgente che manda in frantumi ogni illusione ottimistica oltre che ogni progetto di ordine stabile. «Viene il momento che il giovane maschio scopre la morte, scopre ciò che la sua coscienza non potrà mai comprendere», afferma Vecchiatto; «La morte è la grande guastafeste», gli fa eco Ottiero Ottieri in un eteroclito volumetto (significativamente intitolato alla latina De morte) che mescola i modi aggressivi del pamphlet a quelli intimistici della confessione.
Compito principale dell’umanesimo letterario sarà allora richiamare l’attenzione su quel mistero che gli individui non sono in grado di accettare e che la cultura contemporanea rimuoverebbe di buon grado perché mina alle fondamenta l’ideologia consumistica dominante.
Naturalmente, una interpretazione della storia di tal genere trova i più ampi consensi anzitutto in un ceto intellettuale che, per ironia della sorte, proprio la società odierna ha infoltito in maniera poderosa e che risulta composto di una massa inquieta di individui i quali faticano a trovare nell’universo lavorativo e nel sistema sociale un ruolo adatto alla preparazione culturale di cui dispongono. Ma alle preoccupazioni antimoderniste è sensibile anche un numero ben più ampio di lettori, compresi coloro che sono pienamente inseriti nell’universo di massa.
La contraddizione è solo apparente, e il meccanismo che la rende editorialmente fruttuosa è ormai ben conosciuto. In Italia, a intuire fra i primi il comportamento del pubblico fu D’Annunzio, il quale aveva selezionato i suoi destinatari elettivi proprio in quella piccola e media borghesia che denigrava in modo impietoso. Oggi come allora, operazioni simili hanno successo. Chiamato a condividere gli sdegni dell’autore e sentirsi a lui affratellato in un moto di orgoglio, chi legge in effetti può interpretare le critiche più scottanti come rivolte ad altri, non a se stesso; il testo lo autorizza anzi a considerarsi parte di quella schiera ristretta di anime belle che hanno capito quanto è marcio il mondo attuale e ostentano di ritrarsene schifati a coltivare un sogno di snobistica superiorità. L’alto tasso di sovversivismo individualistico presente in molti dei prodotti narrativi degli ultimi anni è, insomma, tutt’altro che inquietante: appaga piuttosto la convinzione a tutti gradita di essere impermeabili alle lusinghe del conformismo imperante.