Questo «mensile internazionale di cultura poetica» è giunto ai dieci anni di ininterrotte pubblicazioni, vantando un record invidiabilissimo: legato a un ambito di studi e di gusti settoriale, quasi per definizione minoritario, scommette sul pubblico delle edicole, e riesce felicemente a sopravvivere. I suoi limiti più evidenti? Forse la sua posizione mainstream, centristica e blandamente unanimista, e La sua capacità mediatoria che le hanno impedito da un lato di prendere parte in modo protagonistico alle polemiche intorno alla poesia, e dall’altro Lato di rispecchiare Le punte estreme, più avanguardistiche e in senso Lato innovative, della produzione italiana degli ultimi anni.
Siamo dunque giunti, nel novembre 1996, ai cento numeri e, con la fine del 1997, al completamento del fatidico «anno X», ai dieci anni di ininterrotte pubblicazioni. «Poesia. Mensile internazionale di cultura poetica» (l’aggettivo «internazionale» figura sul frontespizio dal gennaio 1992) può vantare un record invidiabilissimo: una rivista legata a un ambito di studi e di gusti settoriale, quasi per definizione minoritario, scommette sul pubblico delle edicole, e riesce felicemente a sopravvivere. Entro un comparto dove anche i «generi» più garantiti (il fumetto, per esempio) hanno vissuto e vivono una notevole crisi, l’evento non può non stupire: e per commentarlo si potrebbero, o forse dovrebbero, usare frasi a effetto («i valori della tradizione conquistano l’effimero», «la poesia che vende», «Dante entra in edicola», e così via), che tuttavia non renderebbero in alcun modo conto della specificità e dell’interesse del fenomeno «Poesia», della sua ricchezza – e magari pure della sua contraddittorietà.
Tutto era cominciato nel gennaio 1988. Per iniziativa dell’editore Nicola Crocetti e sotto la direzione di Patrizia Valduga, veniva commercializzato un magazine dalla fisionomia bensì povera (non più di novanta pagine, rigorosamente in bianco e nero, poca e austera pubblicità), ma non privo di una sua eleganza grafica, garantita sia dalla ariosità della composizione sia, e soprattutto, da un intelligente uso della fotografia. Non per caso «Poe sia» si è a lungo contraddistinta per le copertine, costruite con collage di ritratti di poeti, dove le suggestioni suscitate dai volti degli autori erano sapientemente valorizzate (e il merito va alla costante collaborazione di Giovanni Giovannetti, vero e proprio maestro di questa fattispecie della ritrattistica). Quanto al titolo della nuovissima pubblicazione, se apparentemente era sin troppo generico, in realtà costituiva un omaggio a un autore certo non amato dal periodico di Crocetti, ma un’ottantina di anni prima in grado anch’ egli di fare della poesia un evento pubblico e commerciale, non necessariamente marginale: penso a Filippo Tommaso Marinetti, il cui periodico «Poesia» tra il 1905 e il 1909 aveva costituito una esperienza altrettanto internazionale (preludio, com’è noto, all’avventura futurista), anche se editorialmente assai più discontinua e pasticciata.
E tuttavia quella dicitura indicava pure, a chiare lettere, la volontà istituzionale della rivista, che avrebbe dovuto essere in grado di rispecchiare valori il più possibile collettivi, condivisi, generali se non proprio universali. Questa intenzione, che poi costituirà la carta vincente di «Poesia», veniva in parte contrastata da una serie di obiettivi polemici perseguiti nel primo anno di vita dalla direttrice della rivista. Particolare spicco avevano soprattutto i dossier sulle «fonti” dei poeti maggiori (i debiti di Leopardi verso Monti, di Montale con Rebora, ecc.), rubricati sotto l’etichetta unificante, e certo imprecisa, di Plagi; ma colpivano pure la predilezione per la poesia barocca, la rivalutazione – poniamo – di Manzoni lirico a discapito di Leopardi, e l’elogio della produzione di Prati.
Anche per questo, direi, a partire dall’anno successivo Valduga usciva di scena; dopo pochi mesi cominciava la direzione di Maurizio Cucchi (aprile 1989-aprile 1991), che conferirà alla rivista la fisionomia rimasta grosso modo immutata nel corso degli anni. E cioè: una costante attenzione ai poeti italiani sia più affermati (inquadrati con interventi di sintesi complessiva) sia più giovani, a volte esordienti (posti al centro di discorsi viceversa «militanti»); l’apertura programmatica alla poesia straniera (notevoli i risultati per gli autori di lingua inglese e francese, più discontinua la fotografia del panorama tedescofono e ispanofono; cospicue le incursioni nelle culture dette minori e negli ambiti non europei); la presenza di rubriche, come per esempio quella della «posta», che, svolgendo un costante servizio di informazione e commento, sono in grado di affezionare il lettore alla rivista. Ovviamente, su tutto prevale il testo delle poesie vere e proprie e anche i discorsi criticamente più impegnativi esigono sempre d’essere esemplificati mediante brevi scelte antologiche, che possono riguardare – fatto sintomatico – persino poesie notissime. Antologizzare Baudelaire, Ungaretti, Eliot, Montale, Kavafis nei loro specimina più frequentati rinvia a un cerimoniale comunicativo (quasi un reading a distanza tra sodali) cui «Poesia» annette una grande importanza: rileggiamo insieme testi che tutti già conosciamo, sembra dirci la rivista, per rievocare e rivivere una serie di emozioni estetiche che ci accomunano.
Certo, con gli anni alcune cose sono un po’ cambiate, e per esempio dopo il 1994-95 «Poesia» ha talvolta rischiato di rappresentare quella confraternita, partito o lobby della poesia, in quanto valore pubblico e sociale, cui precedentemente si era almeno in parte negata. In questo senso, la lettura svoltasi alla Camera dei deputati il 6 marzo 1995, dietro invito dell’allora presidente Pivetti, non è apparsa un episodio esaltante, e per fortuna – se non mi sbaglio – non ha dato luogo a ulteriori sviluppi. La più autentica «linea» di «Poesia» è quella di presupporre i legami di appartenenza, di alluderli nell’atto di lettura e nella critica, non di metterli in scena in modo «ufficiale». È in una determinata pratica estetica che lettori c autori si riconoscono, assai meno in una serie di proclami e di pubbliche ritualità. Altri cambiamenti, poi, si sono legati alla nascita di nuove rubriche: le più recenti riguardano i poeti ‘Under 21’ (tanto più sintomatica, questa, dei nuovissimi tempi se si pensa che solo quattro anni fa era stata preceduta da una serie di interventi sui Poeti di trent’anni), e addirittura ‘I giochi di Poesia’, vale a dire una inopinata sezione di enigmistica, che forse si può interpretare come un allineamento alle teorie della poesia in quanto gioco «combinatorio», tradizionalmente poco presenti in «Poesia».
Cionondimeno, gli elementi di continuità sono prevalsi nettamente, e hanno garantito la durata e la tenuta della rivista. Tra i risultati che si devono sottolineare in positivo, metterei in primo piano la «misura», alla lettera, degli interventi recensori contenuti nella rubrica ‘Lo scaffale di poesia’, dove l’informazione intorno alle novità è svolta con linguaggio chiaro, non pretenzioso, e con un’ammirevole sinteticità, così da svolgere una vera e propria funzione di servizio. Ma non trascurerei, e anzi considererei assai sintomatica, ‘Per competenza’, cioè la posta di «Poesia», curata or mai da tempo da Roberto Carifi: il quale ha la capacità invidiabile di dispensare, con grande equilibrio e rassicurante affabilità, elogi e critiche a lettori spesso irrequieti e poco disponibili a un razionale argomentare.
Si ha anzi l’impressione che una parte non trascurabile del successo della rivista dipenda anche da un rapporto – diciamo – «diretto» con il lettore: il quale partecipa alla comunità della poesia non solo come passivo fruitore, ma anche in quanto poeta in proprio, o aspirante tale. Tutto sommato, comunque, il velleitarismo protagonistico che simili atteggiamenti portano quasi sempre con sé è efficacemente contenuto, metabolizzato dal filtro redazionale, e anzi può forse essere volto in positivo nel momento in cui il lavorio critico riesce a mettere in rilievo i pochi veri talenti poetici (non di rado, infatti, fra i ‘Testi dei lettori’ si scoprono risultati tutt’altro che sgradevoli).
Lo si sarà intuito fra le righe del presente discorso: molti pregi di «Poesia» sono anche i suoi limiti più evidenti. La sua posizione mainstream, centristica e blandamente unanimista, il suo impegno istituzionale, la sua capacità mediatoria, le hanno impedito da un lato di prender parte in modo protagonistico alle polemiche intorno alla poesia, e dall’altro lato di rispecchiare le punte estreme, più avanguardistiche, e in senso lato innovative, della produzione italiana degli ultimi anni. E se la prima è una perdita a mio avviso non così grave (non mi pare che i discorsi critico-teorici del passato decennio abbiano detto molte cose nuove e/o interessanti), la seconda è invece una perdita secca. Piaccia o non piaccia, la tensione neoavanguardistica, quella che per esempio nel 1989 ha portato all’antologia Poesia italiana della contraddizione (Newton & Compton, a cura di F Cavallo e M. Lunetta), è stata in questi anni assai vitale proprio nelle pratiche vive della scrittura – oltre che nella teoria -, e averla trascurata non può che suscitare perplessità. La poesia, italiana e non, da un decennio e più a questa parte ha assunto forme, ha utilizzato supporti (oltre che grafici, pure visivi, sonori, in senso lato multimediali) che «Poesia» solo marginalmente ci ha raccontato.
Quest’ultimo rilievo ha, probabilmente, una ricaduta critica ancora più generale. Cioè: l’intelligente, equilibrata e pacata mediazione di «Poesia» non rischia di illuderci circa la «naturale» funzionalità di un genere, circa la sua piena condivisione collettiva? È corretto parlare solo a una comunità di consumatori (nonché produttori) di plaquettes, ai lettori di pubblicazioni periodiche defilate, di «classici» raccolti in edizioni per lo più costose? Non si corre il rischio, in nome d’un astratto equilibrio, di mancare un diverso pubblico, per lo meno potenziale? Una maggiore apertura sarebbe forse auspicabile, una maggiore disponibilità a sotto generi troppo trascurati: e non penso solo alle sperimentazioni neoavanguardiste, ma anche alla poesia «di consumo» – alla canzone, al rap, e magari pure alle tradizioni popolari. Né è detto che per ampliare gli orizzonti della rivista si debbano necessariamente scompaginare gli equilibri editoriali e redazionali oggi esistenti.
E, comunque, anche a rischio di apparire contraddittori, la chimerica possibilità che la civile e ragionevole comunità di lettori, in nome della quale «Poesia» da un decennio parla, sia non solo numerosa ma addirittura egemone, è una di quelle idee che in certi giorni ci appaiono assai desiderabili, e cui anzi è difficile rinunciare. Costituisce una piccola utopia pacificatoria, che «Poesia» ci auguriamo continuerà ancora per molto a tener ben viva.