Autori in festa

È possibile pensare di promuovere libro e lettura, invece che con patetici quanto inutili appelli, con la forza dimostrativa della passione e del divertimento?
In luoghi diversi d’Europa e d’Italia, quattro esperienze, due rodate ormai da decenni e due ai loro primi passi, sembrano avere assunto proprio il principio di una spettacolarizzazione della letteratura e della figura dell’autore che riesca a non tradire la specifica natura dei fatti e delle attività letterarie.
 
Immaginate duecento tra scrittori, giornalisti, fotoreporter, musicisti, autori di fumetti portati in massa in una bella cittadina della costa asturiana, in Spagna, coinvolti per nove giorni in una grande sagra a metà tra la festa dell’Unità e il luna park, con giostre e balere all’aperto, tende dove si mangia e si beve, artigianato povero da bancarella e librerie sotto i tendoni, circondati da una massa di centocinquanta, duecentomila visitatori al giorno. E immaginate che tutti questi autori, giornalisti, fumettari passino i loro nove giorni discutendo in pubblico e tra loro, conversando con i lettori sotto il grande tendone degli incontri ma anche al bar, al ristorante, per i viali del grande luna park, firmino le loro opere sotto la tenda di una libreria, in mezzo a venditori di bigiotteria etnica e di panini con la salsiccia, passino la notte a ballare o a chiacchierare in maniera informale nel bar cubano. Senza mai dimenticare che sono lì perché autori di opere, di libri che hanno, che vogliono avere, che stanno cercando un pubblico, dei lettori, e senza mai dimenticare che loro stessi sono al servizio delle loro opere, delle emozioni e delle passioni che le loro opere vogliono suscitare, accettando il confronto senza spocchia e senza steccati, ma proprio per questo con la massima serietà e il massimo rigore intellettuale.
Avrete un quadro abbastanza definito della Semana Negra di Gijón, la grande convention degli scrittori di letteratura di genere (il poliziesco, ma anche il fumetto e la fantascienza) nata dieci anni fa per volontà del romanziere messicano Paco Ignacio Taibo II e dallo stesso diretta fino a oggi sulla base di una precisa cognizione di «follia organizzata», di un uso creativo, irriverente ma efficace del caos congenito in un grande appuntamento di massa.
Per la Semana Negra, in dieci anni sono passati i migliori esponenti internazionali della letteratura di genere, con una decisa predilezione per gli innovatori, i guastatori che dall’interno dei canoni operano per la loro distruzione e l’apertura del genere alla sperimentazione stilistica e tematica. Da Manuel Vàzquez Montalban a Daniel Chavarria, da Norman Spinrad a Daniel Pennac, da Luis Sepúlveda a Donald Westlake, da Jerome Charyn a Didier Daeninckx, agli italiani Laura Grimaldi, Pino Cacucci, Carlo Lucarelli, Bruno Arpaia, il festoso recinto della Semana Negra è diventato un enorme mercato per il baratto delle idee tra scrittori e tra scrittori e lettori.
Il modello Semana Negra sembra aver trovato un corrispettivo italiano in Chiaroscuro, manifestazione astigiana che ha esordito a fine giugno 1997. A differenza della Semana Negra gli organizzatori della kermesse piemontese (la biblioteca di Asti e la Fondazione Alberto Tedeschi) hanno optato per un taglio monografico, dedicando la prima edizione al nuovo romanzo d’avventura latinoamericano. Per quattro giorni scrittori come Paco Ignacio Taibo II, Luis Sepúlveda, Daniel Chavarria, Leonardo Padura Fuentes, Miguel Bonasso hanno discusso di letteratura ed esilio, di immigrazione italiana in Argentina, del mito del Che, delle origini salgariane della loro opera romanzesca, mentre la sezione italiana ha visto impegnati in una anamnesi del giallo italiano Laura Grimaldi, Carlo Lucarelli, Bruno Ventavoli e Loriano Machiavelli.
Anche ad Asti il modello della festa popolare è stato il segno vincente: certo, ogni sera tra le settecento e le mille persone hanno affollato il grande cortile di Palazzo Ottolenghi per ascoltare i convegni e seguire i concerti dei Modena City Ramblers, dei Fratelli Soledad, di Ivan Della Mea, ma parte integrante di Chiaroscuro era la presenza degli scrittori in giro per la città, la possibilità di incontrare Paco Taibo o Luis Sepúlveda in un ristorante del centro, piuttosto che sotto la tenda allestita dalle librerie cittadine, o in una delle mostre collaterali, si trattasse delle copertine dei Gialli Mondadori, delle illustrazioni per le prime edizioni dei romanzi di Salgari o dei ritratti di scrittori del fotografo argentino Daniel Mordzinski.
Proprio l’idea di una saturazione degli spazi cittadini è al centro dell’iniziativa mantovana di Festivaletteratura, la cui prima edizione si è tenuta nella città dei Gonzaga tra 1’ 11 e il 14 settembre 1997. In questo caso gli organizzatori hanno rinunciato a una precisa connotazione di genere (come il giallo per la Semana Negra) o a un determinato taglio monografico (come per Chiaroscuro), puntando su un effetto massiccio: per quattro giorni, infatti, Mantova è stata letteralmente invasa da circa ottanta scrittori italiani e stranieri delle più diverse nazionalità, in rappresentanza delle più diverse opzioni stilistiche e tematiche, tutti chiamati non solo a raccontare la propria opera e a spiegare i modi della loro scrittura, ma soprattutto a spiegare le esperienze letterarie e artistiche che sono risultate decisive nella loro formazione di autori. Anche in questo caso, a fianco delle numerose iniziative, presentazioni, dibattiti e incontri specificamente dedicati a singoli autori o a gruppi, l’idea vincente è stata quella della presenza attiva e disponibile degli scrittori nel tessuto cittadino. La possibilità di incontrare Ian McEwan o Jerome Charyn, Ed McBain o Abraham Yehoshua nelle più diverse situazioni è stata la carta vincente della manifestazione.
Festivaletteratura si rifà a un ormai illustre precedente: il Literary Festival che dal 1988, con le stesse modalità, si tiene nella cittadina inglese di Hay-on-Wey, un piccolo borgo al confine tra Galles e Inghilterra, trasformato dai suoi abitanti in un’unica grande libreria antiquaria, attiva tutto l’anno e animata per dieci giorni, ogni fine maggio, dalla presenza contemporanea del meglio della letteratura britannica: da Ian McEwan a Martin Amis, da Hanif Kureishi a Tibor Fisher. I venticinquemila spettatori pagano per ogni incontro con gli scrittori 7 sterline, che equivalgono a circa 20 mila lire, oltre ad affollare le case-libreria del paese comprando volumi d’ogni natura e d’ogni fascia di prezzo. Una via, quella del dibattito letterario con biglietto d’ingresso, usuale in Gran Bretagna e in Germania e del tutto sconosciuta in Italia. È stata quindi una scommessa vinta, quella di Festivaletteratura, di far pagare a Mantova 5 mila lire per l’accesso agli incontri.
La caratteristica comune a queste quattro esperienze consiste nella decisione di scommettere sull’aspetto della festa e della spettacolarizzazione applicate a una forma espressiva strutturalmente riottosa a queste operazioni come la scrittura letteraria. Un esempio per tutti: il tentativo di portare la letteratura, o meglio gli scrittori, in televisione ha mostrato limiti evidenti: nel tentativo di evitare la noia quasi tutte le trasmissioni si sono pian piano trasformate in generici talk show, dove l’autore interviene in quanto generica figura pubblica, portatore autorevole (ma non si sa bene in nome di che) di un’opinione, perdendo per strada la propria specificità culturale e «professionale». Se un successo va attribuito alle quattro esperienze sopra sommariamente descritte è invece proprio di avere portato a contatto diretto di un pubblico di lettori (effettivi o potenziali) gli scrittori, e di averceli portati «in quanto tali», a parlare di letteratura, di libri, dei problemi della scrittura, del confronto tra stili e poetiche diverse, offrendo uno spaccato dell’infinita varietà che la creatività letteraria offre oggi come mai prima nella storia dell’umanità (di questo troppi polemisti sembrano scordarsi) a masse sempre crescenti di lettori.
Qualcuno potrà lamentare proprio la tendenza alla spettacolarizzazione del fatto letterario, ma scorderebbe che la società di massa implica anche una profonda laicizzazione e democratizzazione della letteratura. Lo scrittore non si avvia a scomparsa, come auspicavano le avanguardie più oltranziste, la sua presenza, e intendiamo anche la sua fisicità, ha anzi acquistato sempre più importanza (e basta assistere agli incontri con il pubblico di scrittori come Luis Sepúlveda o Daniel Pennac per rendersene conto). Allo stesso tempo non è neppure più una figura carismatica come avrebbe potuto intenderla il tardo romanticismo guerriero di un D’Annunzio o di un Mishima: lo scrittore è ora uno di noi, ciò che lo distingue sono alcune esperienze e la capacità di raccontarcele e di farcene partecipi, evocandole sulla pagina scritta grazie a una specifica competenza, insieme esistenziale e «professionale».
Basterebbe assistere a un incontro pubblico con uno degli scrittori sudamericani emergenti in quest’ultimo periodo, i già più volte citati Taibo, Sepúlveda e Chavarria, per comprendere di quale travolgente ricchezza retorica siano dotati. A riprova che la consapevolezza profonda del legame che unisce progetto letterario e attenzione al lettore sembra nutrirsi di qualcosa di antico, che riaffonda alle origini orali dell’ affabulazione, al rapporto anche molto diretto del narratore con un pubblico che è di volta in volta lettore e «platea».