Ecco un nuovo antieroe dei nostri tempi: l’emarginato per cultura. Costanti sono la conflittualità con l’ambiente domestico, l’inadeguatezza sentimentale, la precarietà e l’aspirazione-ripulsa a entrare nel mondo del lavoro. E la società post-industriale che affiora in queste pagine, lo spazio urbano stravolto e le sue immediate adiacenze. Qui abitano l’alienato ossessivo, il violento, lo sdegnoso che si ritira da una civiltà alle soglie della barbarie e il velleitario preso da un sogno giovanile di rivolta radicale.
«Scrivere, oggi, è la mia. stasi,. il filo che tesse il mio ripensamento»: così prende avvio la narrazione di Maurizio (Babi) Cellini, ventenne protagonista in Qualcosa che brucia di Gianfranco Bettin, edito una prima volta da Garzanti nel 1989, quindi largamente rimaneggiato per Baldini & Castoldi nel 1995. Un testo teso, a tratti drammatico, ma non troppo diverso nei suoi costituenti di fondo da quel «compendio di una vita non ancora strozzata» che ci viene offerto in tono di ilarità angosciata da Cesare De Marchi nel Talento. Variamente montate, in senso lineare o secondo intermittenze narrative, entrambe le vicende si configurano come finte autobiografie: come tranches de vie che dall’adolescenza conducono alla giovinezza, o anche alla maggiore età e ancora oltre, senza tuttavia che si registrino modificazioni positive nel conflitto che oppone l’Io al Mondo circostante. È l’affannosa ricerca di «spiragli» e «possibilità avventurose» la «caparbia sete di felicità» di Carlo Marazzi, antieroe demarchiano dalle cento risorse e dalle mille sconfitte. Nonostante un ambiente ostile, che già al momento della nascita lo «omette», è l’insopprimibile «talento di vivere» percepito in tutta chiarezza alle soglie del suicidio: ossia la marca più certa di una individualità prorompente ancorché destinata alla frustrazione. Ma è pure la dispersione luttuosa in cui versa Babi, tra amici eroinomani e trame criminali: la sua fuga in un altrove lontano da cui riconnettere gli eventi a ritroso, in vista di una possibile, auspicabile, maturità. Un arricchimento etico che però la pagina non intende contemplare, chiudendosi anzi con un senso di perplessità sconfortata: «non capivo cosa stava succedendo, e le poche cose che intuivo mi spaventavano».
Nell’uno e nell’altro testo, ciò che ci troviamo a misurare è un falso movimento, un’edificazione mancata: un’anti-Bildung che sembra definire per via negativa il romanzo di emarginazione (o dell’inettitudine, dello smarrimento). Un genere quanto mai plastico, d’altronde, in grado di lambire i territori del romanzo contemporaneo di costume, e virante, soprattutto nel corso dell’ultimo decennio, all’indirizzo del noir e del pulp. In un crescendo ossessivo scandito dai bagliori sinistri di un televisore, è la sorte tragica che attende Rizzo, il pluriomicida-suicida ideato da Paolo Di Stefano in Azzurro, troppo azzurro. A esso, rimane facile accostare romanzi ·di minor respiro come quelli di Massimiliano Governi, Il Calciatore e di Elena Stancanelli, una delle rare scrittrici nostrane che almeno tangenzialmente si confronta con questo tipo narrativo in Benzina. Nel primo abbiamo uno psicopatico trentunenne, detto Cazzetto ai tempi dell’esordio calcistico, che chiuso in una Cinquecento delira in attesa di assassinare il suo ex-allenatore, responsabile di un’esclusione che sta all’origine di una débacle senza ripari. Nel secondo, palesemente ricalcato sul film Thelma e Louise di Ridley Scott, si rappresenta con piglio visionario, e in presa diretta coscienziale, il dramma di due giovani assassine, Stella e Lenni, risolute a suggellare il loro legame omosessuale in un supremo gesto autodistruttiva. Della stessa natura, ma più corposo e letterariamente raffinato, è il percorso di Federico, l’irrequieto rampollo di un’agiata famiglia borghese tratteggiato da Edoardo Nesi in Fughe da fermo. Un personaggio a tutto tondo, in questo caso, capace di coniugare «ciclopiche seghe mentali» (geniale la trovata delle chiose cosmico-scientifiche in funzione extravagante), con un’ansia di azione antisociale e con una persistente distinzione di ascendenza classista: «ho delle grandi speranze, inossidabili nel tempo, e sopporto le sconfitte con dignità, io».
Alla base di questi romanzi, troviamo di solito due luoghi letterari dal valore strutturante: da un lato la polemica contro i genitori, sfociante in più di un’occasione nella rottura drastica del rapporto di tutela; dall’altro il fallimento in ambito affettivo, o comunque la difficoltà, anche per i protagonisti più disinibiti, di avere una consuetudine responsabile con l’altro sesso. Riguardo al primo aspetto, istruttive si mostrano le narrazioni di De Marchi e di Bettin, come pure Tutti giù per terra di Giuseppe Culicchia e Nel corpo di Napoli di Giuseppe Montesano. Altrettanti casi in cui la fuoriuscita dal nucleo domestico, e la conseguente trafila di convivenze, promiscuità problematiche, sordidi pensionati, soluzioni ultraprecarie presso anziane zie, costituisce il passo iniziale verso un’esistenza irrisolta e non di rado drammatica. Un nesso originario, in sostanza, quello della fuga da casa e dell’ingresso problematico nel mondo sociale: una mossa realisticamente ineludibile, che tuttavia la dice lunga sul familismo sotteso al romanzo di emarginazione all’italiana. Giacché anche là dove non emergono specifiche tensioni intergenerazionali, litigi, querele, ciò che si lamenta è una vera e propria vacanza del ruolo. La registra efficacemente Roberto in La casa con le luci, di Paolo Barbaro: «Mia madre dice che è una sessantottina. Ha grandi slanci, è una forza della natura; poi mi molla di colpo. Anzi ci molla, io e mio padre. Mio padre non dice niente; non è una gran forza». Ne nasce una ricerca affannosa di figure sostitutive, che nella fattispecie approda a un legame privilegiato con Christa, una vecchia immigrata russa, sensibile e vitale, abbandonata in un asettico cronicario alle porte di Venezia: un «purgatorio» per poveri emarginati in attesa di trapasso, che fa da sfondo alle difficoltà di autoindividuazione del giovane protagonista.
Ai fini di una codifica del genere, non meno decisivo risulta però il secondo tema: quello del fallimento o dell’incapacità sentimentale. Una condizione di cui patiscono gli antieroi di Culicchia, Barbaro, Montesano, Bettin; in bilico tra l’opportunismo e la pronta disillusione in De Marchi, quando all’esuberanza sessuale del protagonista Marazzi subentra la sottomissione coniugale e la frustrazione virile. Difficoltà e resistenze rese se mai più brucianti dal motivo del tradimento femminile, adombrato di frequente e reso esplicito da Governi, così da suscitare nel suo omonimo romanzesco – già complessato voyeur dei diari delle coetanee e della fidanzata – impulsi di aggressività sadica («i miei pensieri si infettavano e facevano il pus»). Moti di risentimento che in misura analoga si affollano sulla pagina della Stancanelli, tesa a rappresentare un universo di irriducibile conflittualità uomo-donna: tutto giocato sulla separatezza, la violenza e la voglia di fuga. Addolorato dalla lontananza dell’amata sino a «sanguinare dalle tempie», nemmeno la macerazione ultraromantica di Federico, il protagonista di Fughe da fermo, ne va esente. Il suo è uno stato di abbandono struggente, abitato da divagazioni melanconiche, che tuttavia non gli impedisce di frequentare in gruppo, con grande sfoggio di cinismo e di disprezzo maschilista, il vasto sottomondo delle prostitute e dei travestiti extracomunitari. Una scena insomma gremita di tensioni e di istinti insalubri esce da questo tipo di romanzi: concepiti apposta per dare sfogo al grande caos che pare governare i rapporti tra i sessi. E che, anche in questo caso, può trovare suggello emblematico in una pratica di duplicazione sostitutiva dal valore ferale: Rizzo, in Azzurro, troppo azzurro, il quale a una prostituta raccolta per strada dà il nome della sua ex-fidanzata, Roberta, per renderla testimone, dopo commerci sessuali ripetuti, in un clima di assoluta claustrofilia ossessiva, del suo suicidio tramite un sacchetto in testa di fronte alla televisione accesa.
Va da sé che il luogo entro cui si consumano queste drammatiche, o anche agiate e, nel caso di Nesi, lussuose emarginazioni, è frequentemente la città con lo spazio suburbano che la circonda. La Torino di Culicchia, tra via Po e il decentramento degli uffici comunali, odori di autobus sovraffollati e discoteche frastornanti; ma in tono meno nevrotico, ecco la Milano felix degli anni Sessanta, con i vialoni alberati adatti alle corse in bicicletta, la Palazzina Liberty, l’arco di Porta Romana, così come ci viene offerta da De Marchi; e ancora la periferia veneziana in via di inurbamento di Barbaro; Prato con il suo comparto tessile e gli intensi commerci notturni descrittaci da Nesi; Napoli dei bassi e quella propriamente cunicolare e fognaria immaginata da Montesano. Tutti inserti descrittivi che volgono alla parzialità, allo scorcio, e così acuendo, attraverso un cesello minutamente realistico, il senso di un visionarismo alienato. In Benzina, ciò che compare è una specie di catalogo dei non-luoghi: grill, raccordo anulare, discariche e baraccati nei dintorni di Saxa Rubra. Nessuna veduta d’insieme dà fiato alla pagina: lo sguardo dei protagonisti cattura immagini programmaticamente prive di profondità e soprattutto di prospettiva: anche quando l’anima dapprima esacerbata e poi compassionevole della madre assassinata si libra in aria e, con una mossa molto New Age, osserva impotente la triste sorte delle due amanti carnefici.
D’altronde domina il buio, in non pochi di questi romanzi, la notte anonima punteggiata dai fari delle auto e dei camion in cerca di prostitute, come in Nesi; oppure, con accompagnamento musicale dei Pitura Freska, è l’ombra lugubre di fabbriche e cantieri in disuso, maestranze sbandate, vecchi prostrati dall’alcolismo nella Marghera di Bettin (in pagine per altro tra le meglio riuscite del romanzo). Proprio della società postindustriale, con le sue scarse opportunità di lavoro, le occupazioni effimere e sottoqualificate, ci dà conto insistentemente questo genere narrativo. Mentre si trascina stancamente o fallisce l’istruzione universitaria, in attesa come nel corso di un servizio militare vissuto come chimerico spartiacque tra la minorità economica e l’indipendenza, ecco che fioriscono gli impieghi post-operai e da terziario arretrato: imballatori, mozzi, benzinai, bidelli, allevatori di lumache, cronisti culinari, assistenti sociali senza vocazione, vuoi per extracomunitari e zingari, vuoi per anziani agli sgoccioli dell’autosufficienza. Il rapporto con il lavoro da parte di questi personaggi, soprattutto se giovani (e sono i più numerosi), è oltretutto di ricerca e repulsione a un medesimo tempo.
«Condannati alle cooperative siamo»: lamenta il protagonista della Casa con le luci. Ma frequenti sono le invettive di Walter in Tutti giù per terra: la sua è una vera e propria riluttanza a entrare in «quel cesso chiamato mondo del lavoro», soprattutto nella prospettiva di uno spossessamento coscienziale, in una sorda e infine inutile resistenza a farsi «inscatolare», «ingabbiare», «imprigionare». Nell’insieme, più che di mobilità sociale – comunque al ribasso e molto di rado, lateralmente, in senso ascendente – si dovrebbe parlare per questi romanzi della raffigurazione di un gran disordine se non di un imbarbarimento economico. In essi, allo sfarinamento delle culture popolari e proletarie (Culicchia, Barbaro, Bettin) corrisponde una agiata alienazione o anche disperazione nelle classi medie e piccolo-borghesi (da De Marchi a Nesi, da Governi alla Stancanelli a Montesano): in un tourbillon non tanto di occasioni mancate, ma inconsistenti, inutili alla formazione e alla stabilizzazione del soggetto. Quasi fosse in corso, in senso letterario, un significativo moto a ritroso: per cui il romanzo di emarginazione si costituisce nelle ultime stagioni letterarie come regressione alle origini picaresche.
Fatto sta che intollerante e maltollerato nella dimensione familiare di provenienza, incapace di stabilire rapporti proficui con l’altro sesso tali da favorire una prospettiva di affrancamento indipendente, sbatacchiato da un lavoro all’altro senza qualifiche né gratificazione, l’emarginato o il fallito an ti eroe di questi testi si esprime di preferenza attraverso un io narrante dal tono sordamente rimuginante e angoscioso. Al di là della sostenutezza iperletteraria del Talento – per altro esiguo sotto il profilo della sceneggiatura e del romanesque in senso stretto – vige per solito in questo genere di romanzi uno stile che indulge volentieri alla rappresentazione non solo dell’erotico (o del pornografico, con alquanto compiacimento), ma anche del basso corporeo: in cui vomito, umori, peti, deformità e vari gradi di decadenza psico-fisica vengono declinati volentieri. L’assetto discorsivo, d’altra parte, mostra un cospicuo sforzo di verbalizzare il disagio in cui versano i protagonisti attraverso uno psichismo tutto estrovertito, e non senza punte di virtuosismo: affinché risulti accentuato il problema relazionale, di commercio quotidiano con il gruppo di appartenenza e la collettività in senso più largo.
A riguardo, si può osservare l’impasto dialogico diretto-indiretto ottenuto da Barbaro nella Casa con le luci; un tessuto colloquiale scorciatissimo, per molti versi impeccabile: «Chiediamo, ma niente, non c’è la discoteca. C’era; non c’è più – debiti, droga, non si sa -, l’hanno chiusa. Da un giorno all’altro – fischia il ragazzo in tuta che passa via sull’argine. Si ferma un attimo: “Morti siamo, senza discoteca”». Un po’ più meccanica e prevedibile risulta l’alternanza tra discorso diretto e discorso riportato stabilita da Montesano; mentre teatrale piuttosto che cinematografico – impostato com’è su a-soli spazializzati – risulta quello della Stancanelli; e con tendenze all’evasione onirico-velleitaria in Nesi (probabilmente non digiuno dell’American Psycho di Bret Ellis); ma anche puramente monologante e ossessivo come per Governi (per la prima persona) e Di Stefano (per la terza: ma non a caso depotenziante rispetto ai precedenti).
Gli autori di Azzurro, troppo azzurro e IL calciatore introducono a un’ulteriore componente del genere romanzo di emarginazione: quella psicopatologica, o della sonda esistenziale portata al confronto con la follia. Una componente non trascurabile, maneggiata con straordinaria e partecipata maestria da Giulio Mozzi in La felicità terrena. Non si tratta di un romanzo, ma di una raccolta di racconti alquanto atipica, che in testi come Il bambino morto, Roma, e particolarmente con Una vita felice, Vanessa, Tilli dà conto di una desolazione umana a vasto raggio. Siano psicopatici destinati al suicidio, siano fattorini assillati da riflessioni cimiteriali, validi educatori morti nell’angoscia e nel disprezzo per il mondo, sempre c’è un Io che lega queste storie volgendole in una dolente ricognizione personale: «Ho sperimentato questa sensazione», «Mio dio, quanto sono stato vicino a questo». Una silloge di testi brevi e lunghi, insomma, da cui traspaiono insistentemente bagliori di romanzo: all’interno della quale aggalla poco per volta un super-protagonista in veste di io narrante. «Un ragazzo di buona famiglia cattolica, studioso e perbene» che «di fallimento in fallimento», «cresciuto per sottrazioni successive» si trova a «non essere più nulla». Un individuo «senza nessuna contaminazione di socialità», che patisce di un profondo e sofferto smarrimento. «La mia natura è quella di una persona che appartiene» – scrive, intendendo una comunità, un’idea, una rete di affetti – «la mia storia mi ha fatto diventare inappartenente».
Come già per Barbaro in Casa con le luci, anche qui il contatto con un universo di emarginazione favorisce nel narratore la rottura dell’egocentrismo e l’affacciarsi su una più profonda percezione del dolore. Ma il punto è che in Mozzi le tante storie che si affollano sulla pagina valgono come altrettanti correlativi soggettivi (se così si può dire). Come documenti, cioè, di un malessere pericolosamente oscillante tra la condivisione pietosa e l’attrazione oscura provata dall’Io che le rievoca. A grandeggiare tra le righe è il fascino dell’isolamento, dell’annichilimento introvertito (il mito dell’uovo, della stanza, del campo cimiteriale) che solo pare garantire una forma autistica e però inattaccabile di sopravvivenza. Il titolo della raccolta – La felicità terrena – acquista uno spessore inedito proprio in ragione della duplicità vertiginosa di quest’intento. E ha il suo esito più alto nella figura di una misera addetta alle poste, Vanessa, «Una persona debole», angustiata dal sesso e in rapporto paranoide con il prossimo, ma che «all’interno del suo piccolo universo è forte come un dio».
C’è però un’ultima e insospettabile sfaccettatura che completa il prisma inquietante del romanzo dell’inetto contemporaneo, dello sconfitto nelle aspirazioni più intime: quella che potremmo definire dell’emarginazione per cultura, e di cui ci reca testimonianza Nel corpo di Napoli. Qui, Landrò e Tommaso, mantenuti e sgualdrappati studenti napoletani, con alle spalle altrettanti inferni domestici, si fanno emblema di una micro-borghesia meridionale imbevuta di un ribellismo velleitario di natura assolutamente libresca. «Credevo ciecamente alle parole di Rimbaud – asserisce Tommaso, il protagonista narratore – «Non lavorerò mai». E da questo asserto reciso, nell’intento esplicito di «evadere» da una realtà meschina e insopportabile, ecco per i due sodali l’elaborazione, parodicamente musiliana, di un «piano di approfondimento poetico, scientifico e filosofico» ripieno di letture e di citazioni mandate a memoria, in un capoluogo partenopeo in preda al malaffare e ai riti del rampantismo affarista. Un retaggio di formule maldigerite che da Hegel va agli onnipresenti Nietzsche e Heidegger, insieme a Spengler, Dostoevskij, e ancora Baudelaire, Rilke, Blake, Léon Bloy, per poi discendere in un parossismo delirante verso i territori dell’esoterismo occultista. E in modo tale che al primo, Landrò, erede di adeguate sostanze da parte di un padre disprezzato in vita, arrida infine un’ignominiosa integrazione nei meccanismi parassitari dell’intermediazione finanziaria. Mentre bruciati tutti i ponti alle spalle, a Tommaso non rimane che il senso rancoroso di una sconfitta, cui si accompagna una voglia generica di fuga all’ombra di una jeunesse rimbaudiana dissipata senza vera grandezza. In cui un’intraducibile delicatesse, strumento e prodotto di una vita mai iniziata, confina con l’impotenza e la confusione più ancora che con la vanagloria.
Forse al di là delle intenzioni stesse di Montesano, tutto preso dalla distruzione amara di un proprio mito giovanile e dalla rappresentazione oniricamente stravolta di un contesto sociale anomica e irredimibile, con tutti i vizi del cinismo nordista ma privo di opportunità e linee di fuga, Nel corpo di Napoli potrebbe valere come più generale autocritica per un tradizionalismo umanistico e idealista di cui il Meridione nostrano ama circondarsi con qualche eccesso di compiacimento. E nonostante taluni limiti costruttivi già indicati, in questo senso il romanzo risulta efficace, controcorrente. Soprattutto se pensato in rapporto a un altro scrittore meridionale, Vincenzo Consolo, che nello Spasimo di Palermo appare indirizzato per opposta via. Ciò che qui ci viene offerta è la raffinatissima requisitoria antisociale di un uomo di lusso, per usare i termini verghiani, un intellettuale, umanista e scrittore, inorridito dalla barbarie che avanza. Gravato dai sensi di colpa, orbato dell’affetto della moglie morta dopo lungo travaglio manicomiale, alle prese con un figlio emigrato perché ingiustamente accusato di terrorismo e però restio a concedersi agli affetti paterni, Gioacchino Martinez vorrebbe essere il testimone dolente (e alquanto ellittico, poeticamente allusivo) di un cinquantennio di vicende patrie: dallo sbarco degli eserciti alleati sino agli attentati contro i giudici di Palermo. Ma anziché la tessitura di un romanzo storico-contemporaneo, cresce pagina dopo pagina il senso di un rancoroso esilio interiore del protagonista: di una lunga e volontaria emarginazione senza possibilità di medicamento. Più che di reminiscenze eliotiane, Gioacchino vive di occasioni al modo di Montale, di «varchi», «nessi», «suture», «scarti» di una memoria sradicata. Né una Sicilia resa irriconoscibile dalla mafia, né una Milano scempiata dalla volgarità del profitto possono concedergli riparo. Milano, anzi, già luogo di lontananza speranzosa, è oggetto di una ripulsa viscerale. Le pagine che la tratteggiano restituiscono il sapore di una dura polemica antimanzoniana: «Città perduta, città irreale, d’ombre senz’ ombra che vanno e vanno sopra ponti, banchine della darsena, mattatoi e scali, sesto e cinisello disertate, tennologico ingranaggio, dallas dello svuotamento e del metallo. Addio».
Siamo all’opposto dell’amara ricognizione di Montesano, per cui la filosofia, la letteratura anche la più qualificata, possono trasfigurare insidiosamente in una forma devastante di bovarismo intellettuale. «Non scriverò più, nemmeno dediche!», inveisce il protagonista consoliano dal fondo della sua crisi di sconforto. Ma intanto c’è chi ne raccoglie il lamento spasimante, nel nome di un umanesimo eterno, unico valore da traghettare oltre la città infernale, giacché «là si trova, negli assoluti libri la verità umana». Libri per iniziati, va sottolineato: per quei pochi sopravvissuti al grande naufragio della cultura. Su questo, l’esule dell’interno, il disperato Gioacchino Martinez è inequivoco. Quanto resta da fare – e che Consolo non da ora propone – è forgiare una prosa poetica ritmicamente e lessicalmente arcaizzante che sappia porti al di fuori di ogni consuetudine democratica, concepita per assottigliare il senso selettivo anziché per allargare l’area della comunicazione. Anche a costo di rinchiudersi dolorante nella testimonianza postuma: «aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio». Ma siamo con ciò nel punto esatto in cui il romanzo di emarginazione, giunto all’apice della scala verghiana dei vinti dalla vita, degli abbandonati sulla spiaggia dalla marea del progresso, travasa nel metaromanzo.