«Il Mucchio Selvaggio», «Pulp», «Kult»: tre riviste che funzionano. Ovvero: come immergersi nella contemporaneità senza smarrire il senso critico. Un punto di forza è che non esiste gap generazionale tra redattori e collaboratori da una parte, e pubblico dall’altra.
Giovani, inclini agli stimoli culturali più aggiornati, con faziosi interessi in campo musicale, letterario e artistico. È il «target» ideale, per dirla con lo slang dei manuali di marketing, di certe riviste spesso relegate nella retrovetrina delle edicole – quella che il titolare deve aprire su richiesta, e che custodisce rarità per palati specializzati e non facili da soddisfare. Prendiamo «Il Mucchio Selvaggio». Benché si autodefinisca «Settimanale di musica rock, cinema, libri, video…», e malgrado il titolo cinematografico (dal film di Peckinpah), è essenzialmente una rivista specializzata di musica. Da più di vent’anni (nasce nel 1977) segue l’evoluzione multiforme del rock (categoria da intendersi in senso lato), fino alle sue tendenze più attuali e «contaminate». In sintesi, si occupa di musica pop non convenzionale, facendo leva sullo «spirito anticonformista» (n. 333 ) del suo pubblico: «ogni settimana su queste pagine si cercano di difendere artisti underground o di limitare quelli di massa che sono altrimenti venerati dal resto del mondo» (n. 351).
Formato maneggevole; copertina con fotografia a colori di un artista o di una band sparata a tutto campo, con sovraimpressi il titolo della testata e i nomi dei musicisti considerati all’interno: il «Mucchio» ostenta la sua ben riconoscibile fisionomia di rock magazine. La povertà della carta, le foto decisamente non fashion e la grafica un po’ improvvisata, tendente comunque a salvaguardare la leggibilità, tradiscono mancanza di soldi e abbondanza di entusiasmo. Mensile per gran parte della sua esistenza, diventa settimanale nel settembre del 1996 per contrastare la concorrenza spietata di «Musica!», l’inserto di «Repubblica» su cui scrivono anche molti critici del «Mucchio». La capostipite delle riviste di musica pop-rock oggi in circolazione («Buscadero», «Rockerilla», «Rock Star», «Rumore») può comunque contare su un seguito di circa 40.000 fedelissimi, al 70% maschi.
Un aspetto interessante del «Mucchio» (basti vedere la rubrica della posta) è il rapporto interattivo con i suoi lettori: ne sollecita la partecipazione invitandoli a compilare classifiche personali e varando referendum sugli artisti dell’anno. Sono lettori intransigenti, che pretendono la fedeltà a una linea di condotta critica non compromessa con i meccanismi di mercato e decisamente alternativa. Cosa non facile per una rivista che si basa in gran parte sulle recensioni (una trentina alla settimana, tra album e singoli) delle nuove uscite. Ma lo stesso Max Stèfani, direttore editoriale fin dall’inizio, può continuare a vantarsi del rapporto di stima reciproca che lo unisce alle case discografiche: «Loro sanno cosa non possono chiedermi e io cosa posso dare. Posso dire di non aver mai fatto “marchette”» (n. 287).
Il tono con cui il «Mucchio» si rivolge ai suoi aficionados è quello, medio, della conversazione tra amici, senza distanze ed esente da connotazioni troppo formali o da cultura «alta». Oltretutto gli interventi di mediazione tra parlato e scrittura, specialmente nelle interviste, non prevedono censure sul lessico: con le case discografiche non si hanno eufemistici rapporti problematici, ma realistici «scazzi»; e qualche giornalista che cura la parte musicale sui quotidiani non scrive cose talvolta discutibili, bensì delle «stronzate paurose» (n. 287). Critici, musicisti e lettori condividono lo stesso modo di esprimersi, diretto, senza ipocrisie né tabù linguistici: un po’ «selvaggio», appunto. D’altra parte, negli articoli di taglio più analitico e nelle recensioni, il lessico diventa necessariamente ipertecnico e specializzato; il codice comunicativo si fa criptico ed ermetico, difficilmente accessibile al profano ineducato al linguaggio della critica musicale, che oltre tutto ricorre massivamente all’inglese. Il «Mucchio», insomma, è fatto per chi abbia almeno una pallida idea di cosa siano drum’n’bass, jungle, stoner-rock, trip-hop, gothic-dark, acid-house, ambient, goa-trance, industria!, noise, indie-pop, skunk-rock, asian underground, big beat, lo-fi ecc.
Poi c’è «Pulp», il bimestrale tirato in ventimila copie che tratta delle «Letterature di fine millennio», come spiegava l’ormai abbandonato sottotitolo. Nasce nel 1996 nella fucina del mensile musicale alternativo «Rumore», di cui viene a costituire una sorta di pendant letterario: alcuni critici scrivono su tutte e due le riviste, entrambe dirette da Claudio Sorge. Due numeri zero di «Pulp» fecero la loro comparsa addirittura come allegati a «Rumore»: il sottotitolo allora suonava, significativamente, «Libri per un immaginario rock» (al rapporto tra «Parole e musica» «Pulp» del resto dedica una rubrica fissa).
Icasticamente, al titolo si accompagna l’immagine ironicomacabra di un bulbo oculare estrapolato dalla compagine in cui più ci si aspetterebbe di vederlo figurare. E così sistemato, già il titolo, dal sapore tarantiniano e prima ancora debitore dei pulp magazines americani, la dice lunga. L’editoriale del numero 001 aggiunge poi espliciti chiarimenti: «Pulp: polpa, sostanza. Carne alla brace viva e palpitante. Pulp: pasta di legno per fare la carta. Che serve ai libri come la fiamma al fuoco. Pulp: per azzerare i livelli letterari, A o B o Z. Chissenefrega?, se è buona scrittura basta e avanza. Pulp: che preferisce star dentro la contemporaneità. Dentro la serie B(assa) e il sottosuolo, piuttosto che sul binario morto dell’omologazione. Pulp: che è fiction e non fiction. Realtà possibile o da inventare e immaginare.»
Il punto di forza della rivista, dal taglio visceralmente antiaccademico e anti-istituzionale, coincide con l’esplorazione delle vaste lande della letteratura di genere, altrimenti troppo trascurate: nuovo noir, splatterpunk, cyberpunk (generi targati USA anni Ottanta), horror, steampunk e fumetto sono qui trattati col massimo rispetto, anche per la loro capacità di rappresentare, realisticamente o metaforicamente, le inquietudini e le ossessioni della sensibilità contemporanea. Il monitoraggio di questi generi narrativi è comunque orientato a rilevarne le attualizzazioni testuali più artisticamente qualificate. Un’attenzione del tutto particolare è riservata alla fantascienza (anche «radicale» e cyberpunk), genere che del resto sta suscitando sempre maggiore interesse tra i lettori, gli scrittori e gli editori italiani (anche mainstream). È il caso poi di sottolineare l’alleanza che «Pulp» ha progressivamente stretto con una casa editrice decisamente alternativa come la Shake (madre di «Decader» e specializzata nella pubblicazione di saggistica e narrativa underground), che alla Fiera del Libro torinese di quest’anno ha addirittura ospitato la rivista nel suo stand. Altrettanto connotante è l’interesse per una narrativa di grande qualità non automaticamente riconducibile a generi fortemente codificati, ma comunque ad alto grado di leggibilità, incentrata su un sensibile gusto affabulatorio e sull’ineccepibile padronanza delle tecniche narrative da parte dei suoi autori.
Gli scrittori stranieri (ma sono soprattutto anglofoni) passati in rassegna o intervistati non si contano. Sorprendentemente esiguo invece il numero degli italiani presi in considerazione, e con un prevedibile sbilanciamento verso i «giovani narratori» (tra gli altri, Aldo Nove, Tiziano Scarpa, Niccolò Ammaniti, Nicoletta Vallorani, Enrico Brizzi, Isabella Santacroce), dei quali in ogni numero viene pubblicato un racconto rigorosamente inedito. Degli autori istituzionali, quelli da canone, Renzo Paris fa invece una rilettura personale nella rubrica «Il tempo ritrovato».
Grazie al recente restyling grafico, ora la pagina è più pulita e più leggibile. Si gioca meno sul colore dei caratteri, ma soprattutto è sparito il vezzo di variarne gratuitamente il corpo all’interno dello stesso articolo. Ben pensata anche la mossa di rendere la densissima sezione delle recensioni un inserto autonomo staccabile. Di «Pulp» apprezziamo appunto la scrupolosità nel recensire in ogni numero decine e decine di nuove uscite; l’apertura internazionale, oltre che ai generi «bassi»; e soprattutto la tempestività con cui riesce ogni volta a intervistare autori di rilievo nel panorama letterario internazionale, non appena abbiano un libro fresco di stampa.
A «Kult», il mensile di «moda + design + arte + costume» fino a poco tempo fa sottotitolato più sinteticamente «avanguardie creative», è bastato un anno per diventare una rivista di «kulto». Tutto ciò che la riguarda è in continua crescita: il numero delle copie distribuite (ormai 110.000); il numero delle pagine; il numero degli inserzionisti; il numero delle mostre sponsorizzate e degli young talents presentati. L’idea propulsiva è appunto dare spazio e visibilità a quei giovani creativi operanti nell’ambito dell’arte, della moda, del design, sperimentatori di nuove linee d’avanguardia nei rispettivi settori. Sono artisti, anche multimediali ed elettronici, performers, fotografi, scrittori, musicisti, creatori di movimenti alternativi spesso soffocati o marginalizzati dalla cultura istituzionale italiana, al contrario invece di quanto accade nelle grandi capitali internazionali come Londra, New York o Tokyo. Cioè quei luoghi in cui spesso sono proprio i fermenti nati dal basso, dalla streetculture, a indicare la via alle prossime culture con la C maiuscola.
L’ispirazione arriva dal londinese «The Face», modello prestigioso di cui è stato importato lo spirito, oltre che il gusto della composizione grafica. Proprio l’impianto grafico è un punto di forza decisivo per «Kult»: belle foto, bei caratteri, bei colori, ma soprattutto ottimo gusto nel combinare visuals e testi, disposti nella pagina in soluzioni ricercate, innovative, sempre accattivanti. L’effetto finale, di pulizia e di eleganza anticonformistica, è giocato sulla ricerca di equilibri interessanti tra pieni e vuoti, cioè tra testi e immagini da una parte, e il bianco della pagina (spesso in primo piano) dall’altra. Degna di nota è l’estrema coerenza grafica dell’intera rivista, in cui sembra non esserci soluzione di continuità tra le pagine dei servizi e degli articoli, quelle dedicate alla pubblicità redazionale di alcuni prodotti di abbigliamento e di cosmetici, e quelle occupate da annunci pubblicitari veri e propri (di articoli glamour e legati a un gusto sensibilmente generazionale).
Anche l’Agenda Night & Day con il calendario degli eventi kult e l’agile City Guide dedicata ogni volta a una metropoli diversa sono studiate su misura per il lettore di «Kult», di cui si può tentare l’identikit senza paura di sbagliare: un venti-trentenne con tanti interessi, specialmente artistici e musicali; creativo a sua volta o aspirante tale; culturalmente cosmopolita; sensibile alle innovazioni e ai fermenti emergenti dalle sottoculture urbane; viaggiatore curioso; spericolato surfer tra i siti web; nottambulo e socievole frequentatore di clubs. E anche, diciamolo, un po’ modaiolo.
«Kult» ha successo perché sa valorizzare l’energia creativa dei suoi stessi lettori: moltissimi inviano opere, foto e racconti (spesso di notevole qualità) che trovano effettiva visibilità nella rivista. Ancora: non c’è gap generazionale tra redattori e collaboratori da una parte, e lettori dall’altra. Fanno riferimento allo stesso immaginario e parlano la stessa lingua, agile e sensibilmente contaminata dall’inglese di «The Face», di Internet e di MTV. La piccola tribù della redazione è infatti composta da giovani pieni di entusiasmo, a partire dal direttore appena trentaduenne, Enrico Cammarata. Ma «Kult» ha preso piede anche perché ha escogitato operazioni di autopromozione intelligenti: organizza feste e happenings nelle discoteche più trendy, promuove eventi e performances di artisti esordienti (anche grazie a sponsor del calibro di Pupa) nelle gallerie e negli istituti d’arte; si rende visibile attraverso strategiche locandine nei megastore e nei luoghi di aggregazione giovanile.