«Se è vero che il piccolo editore ha una funzione di “stanamento” visto che riesce a valorizzare autori e titoli sfuggiti al grande editore, è pure vero che sia grandi sia piccoli editori dovrebbero fare uno sforzo per ridurre il numero dei libri stampati e, soprattutto, per farli meglio curandone di più tutte le fasi produttive. Oggi, in un momento in cui tutti gli editori tendono ad assomigliarsi, proprio i piccoli editori devono cercare di allargare il pubblico e di valorizzare la lettura facendola diventare un’attività centrale di divertimento e riflessione».
Nel 1981 Marco Zapparoli fondava la Marcos y Marcos, una piccola casa editrice che oggi vanta un fatturato di 1,7 miliardi, al netto delle rese, pubblica venti novità all’anno e possiede un catalogo di 200 titoli.
Marco Zapparoli, a una quindicina d’anni di distanza, cosa resta del movimento dei «piccoli editori»?
Il bilancio mi sembra abbastanza positivo, visto che in Italia continua a esistere un numero sufficientemente ampio di piccoli editori davvero indipendenti, i quali oltretutto nel cuore dei lettori forti rappresentano molto di più della semplice somma dei loro esigui bilanci. Naturalmente in questi anni abbiamo pure assistito a decessi e a fenomeni di assorbimento, che però si sono soprattutto verificati laddove c’è stato un eccesso d’azzardo con crescite troppo spregiudicate o progetti editoriali troppo difficili da sostenere: è, ad esempio, il caso di Pratiche, il cui progetto era certo molto interessante ma economicamente molto rischioso. Altre volte a decretare la fine di un piccolo editore sono stati i problemi di successione familiare, come è accaduto per Serra & Riva, che ha rappresentato la prima delle acquisizioni significative in questo ambito. Va detto, comunque, che l’integrazione all’interno di gruppi più grandi è stata quasi sempre disintegrante per il piccolo editore, giacché è molto difficile rendere visibile un piccolo marchio all’interno di una grande azienda dove convive di tutto. Insomma, dei piccoli editori che nel 1987 hanno lanciato il cartello della piccola editoria, oggi restano Scheiwiller, Sellerio, E/O, Ubu, Iperborea e Marcos y Marcos. Theoria è in grande difficoltà, Serra & Riva e Pratiche sono state assorbite. In compenso però sono nati altri editori, e ciò è positivo.
I piccoli editori hanno una loro specificità o una qualche funzione particolare nel sistema editoriale?
È difficile generalizzare, anche perché le tipologie sono innumerevoli. Certamente il piccolo editore ha una funzione di “stanamento”, visto che riesce a valorizzare autori e titoli sfuggiti ai grandi. La grande editoria lavora sulla quantità ed è sempre costretta a fare troppe cose. Il piccolo editore invece, concentrandosi su pochi titoli, riesce a occuparsene meglio.
Significa che di fronte all’editoria di quantità la piccola editoria rappresenta un’editoria di qualità?
No, perché ciò non è sempre vero. E poi, un conto è la qualità dei titoli proposti, un altro la qualità del lavoro che l’editore riesce a fare sul libro. Se la qualità del catalogo è ottenibile abbastanza facilmente, la qualità editoriale – in termini di traduzione, editing, fabbricazione, promozione, ecc. – è molto più difficile da raggiungere. Noi, ad esempio, possiamo ancora migliorare la qualità dei nostri libri. Quello della qualità però è un problema generale che riguarda tutta la produzione libraria: tutti, piccoli e grandi, dovremmo fare uno sforzo per ridurre il numero di titoli e provare a farli meglio. Proprio per questo noi contiamo di ridurre la produzione, così in futuro faremo meno libri, ma lavorandoli meglio a ogni livello. Con ciò voglio dire che l’eccesso di titoli riguarda anche i piccoli editori; quindi mi sembra difficile sostenere che i piccoli rappresentano sempre la qualità. Si può dire invece che l’impegno passionale e volontaristico del piccolo editore consente di dare maggiore impulso ai titoli in cui si crede. Il piccolo editore, infatti, nei confronti di un libro ha sempre più motivazioni del grande editore, il quale di solito lavora sulla quantità, basandosi su motivazioni solo presuntamente più scientifiche. In generale, però, né i piccoli né i grandi lavorano veramente come si dovrebbe.
Lei dice che vuole ridurre i titoli. Ciò significa che la fuga in avanti tramite l’aumento delle novità non è un destino ineluttabile per il piccolo editore che vuole crescere …
Penso di no. Negli ultimi cinque anni, noi abbiamo aumentato il fatturato a una media del 15% all’anno; adesso però mi sembra importante consolidare e migliorare la qualità. Voglio impegnarmi di più per ogni libro, perché, se è vero che dire no è sempre molto duro, è ancora più duro deludere le aspettative. Ed è sempre un fatto negativo che in una casa editrice vi siano autori che si sentono trascurati o meno importanti. Gli autori – italiani o stranieri non fa differenza – si aspettano sempre qualcosa, soprattutto quando la casa editrice inizia a essere un minimo conosciuta. Così, un autore se ne va quando il suo libro è andato meno bene delle aspettative. Ma se ciò è avvenuto, è perché o il libro non era abbastanza buono oppure perché io non ho saputo lanciarlo bene: nei due casi, comunque, è un errore mio di editore, un errore di valutazione o di realizzazione.
I libri dunque non trovano da soli il loro pubblico …
Non è automatico, occorrono certe condizioni. In tutti questi anni, più mi sono concentrato sui libri in cui credevo, facendoli e promuovendoli il meglio possibile, più le cose sono andate bene. I nostri successi – da Peter Bichsel, che è stato il primo, a John Kennedy Toole, che è l’ultimo – sono nati sempre così. Per questo, nei prossimi due o tre anni, il mio obiettivo è ottenere migliori risultati con meno libri. Ciò significa limare i costi di produzione, garantire di più i miei autori e soprattutto scegliere meglio i libri, facendo solo quelli in cui credo veramente. Secondo me, quando un libro è buono, quando è ben tradotto e ben rivisto, quando il suo lancio è curato come si deve, se la casa editrice ha già un suo spazio in libreria, è molto difficile che questo libro non ce la faccia a trovare il suo pubblico.
Lo spazio in libreria, appunto. Alcuni editori dicono che se si aumentano i titoli, è proprio per occupare più spazi …
Ma questo per i piccoli editori non è assolutamente un problema, perché in proporzione noi occupiamo molto più spazio di un editore che fattura dieci volte tanto. Se un editore è di qualità, lo spazio a poco a poco se lo conquista; se poi continua a fare titoli di buon livello, lo conserva senza problemi. Non è necessario aumentare le novità. Insieme Iperborea, E/O e Marcos y Marcos raggiungono un fatturato di cinque miliardi, ma in libreria occupano più spazio di Baldini & Castaldi, che sicuramente ha un fatturato molto superiore. Insomma, il problema dello spazio esiste per i piccolissimi che devono ancora consolidarsi e per i grandissimi, che ne hanno bisogno per presentare tutti i loro titoli.
Per anni una larga parte dell’editoria – specie quella che si definiva «di cultura» – ha rivendicato il fatto di poter subordinare il problema dei costi a quello delle scelte culturali,- da qualche anno invece sembra che i libri si debbano fare solo “a scopo di lucro”. I piccoli editori rappresentano una terza via, dove rigore della gestione economica e qualità culturale sono necessari l’uno all’altra?
Forse sì. Il vero problema però è che è molto difficile lavorare con i libri, e non solo perché l’imprenditorialità degli editori è spesso di basso profilo, ma soprattutto perché strutturalmente questo settore merceologico è particolarmente debole: per quanto si lavori in economica, il margine tra costi e ricavi è sempre molto basso, senza contare poi che il mercato italiano è particolarmente esiguo. Detto ciò, resta la questione centrale del progetto culturale in anni nei quali è difficile mantenere una linearità di progetto. In passato Einaudi e Feltrinelli hanno costruito i loro cataloghi attorno a un progetto editoriale più o meno coerente e riconoscibile. Negli ultimi tempi, invece, tutti gli editori sono diventati mediamente “generalisti” e tendono ad assomigliarsi: in questa situazione, i piccoli editori cercano innanzitutto di salvare libri con forti qualità intrinseche, ma sempre scegliendoli singolarmente, uno per uno. Sono libri che hanno sempre un valore, letterario o politico, ma non necessariamente alla luce di un progetto complessivo. Si lavora quindi caso per caso, cercando tuttavia di mantenere una proposta abbastanza coerente.
Questa coerenza rappresenta l’identità della casa editrice?
A volte si tratta semplicemente di una scelta di campo, come la letteratura del Nord per Iperborea, che in seguito però è diventata per davvero l’identità della casa editrice. Il nostro catalogo è fatto di più filoni che si intrecciano, quindi è più difficile definire la nostra identità. In ogni caso, nel tempo si costruisce una specie di gioco di complicità tra libri e lettori, nel senso che un editore affina un gusto insieme ai suoi lettori. Questo gioco di scambio crea l’identità della casa editrice, anche perché un editore, più o meno razionalmente, vive di riflesso del rapporto con il suo pubblico. Di conseguenza, più un editore cresce e meno tradisce la propria famiglia.
Significa anche che più cresce, più diventa conformista e sperimenta di meno?
Certamente la tendenza ad adagiarsi è forte, si trova un’onda e la si segue. Però poi esistono la vita e la curiosità personali che spingono a cercare al di fuori dei territori già noti. Ciò almeno vale per un editore come me, che ha un rapporto molto forte con i libri pubblicati e che testimonia attraverso i libri la propria crescita, crescita che naturalmente è anche fatta di scarti e aperture d’ orizzonte imprevedibili. In fin dei conti, in una piccola casa editrice, l’individuo con i suoi gusti e le sue idiosincrasie conta molto. È per questo che i cambiamenti sono sempre possibili ed è possibile sottrarsi alle mode.
A proposito di mode, le sembra che ci sia una tendenza all’ omologazione dei prodotti editoriali?
Certo ci sono tendenze su cui tutti gli editori si accodano. Dopo la nostra riscoperta di John Fante, abbiamo assistito al ripescaggio di tutta una schiera di autori dimenticati apparentabili in vario modo a Fante. Noi adesso abbiamo comprato i diritti di altri tre americani, Walker Percy, William Saroyan e Richard Brautigan, opzionando però tutta l’opera, per evitare che, come nel caso di Fante, arrivino altri editori a cogliere i frutti del nostro lavoro. Tuttavia, al di là della tendenza degli editori a copiarsi negli ambiti di successo, in generale mi sembra che l’offerta editoriale italiana sia abbastanza ricca e varia. E globalmente il prodotto editoriale è di buona qualità.
Resta però il problema di allargare il pubblico italiano, mettendo in relazione nuovi lettori con prodotti mediamente di buona qualità.
È vero. Io penso che sia possibile allargare il pubblico italiano, ma si tratta di un lavoro enorme che richiederebbe un’azione concertata tra un numero significativo di editori. Lo scopo però, almeno all’inizio, non deve essere quello di vendere di più, ma solo quello di valorizzare la lettura, facendola diventare un’attività centrale di divertimento e riflessione. Non è impossibile, ma occorre mettersi d’accordo e lavorare bene. Purtroppo, mi sembra che in questo momento le associazioni di editori puntino più alla vendita che a rilanciare la lettura. Tuttavia le vendite di forza, a colpi di sconti e di promozioni martellanti, sono un errore, perché non si preoccupano del vero problema che è la scarsa abitudine alla lettura. E, anzi, direi addirittura che peggiorano la situazione, perché in realtà tolgono spazio alla lettura.
Significa che l’aggressività commerciale alla lunga non paga ...
Secondo me è così, anche se evidentemente i pubblici sono tanti e diversi, come pure sono tanti e diversi i libri, che quindi vanno trattati commercialmente con strategie diverse, giacché non si vende Luciano De Crescenza come John Fante. In generale però non bisogna mai spingere di forza la gente a comprare un libro.
Quali sono le difficoltà dei piccoli editori in libreria?
Al di là della questione dello spazio, restano altri due problemi. Innanzitutto la promozione presso i librai, che è fondamentale, perché se il libro è conosciuto e apprezzato dai librai, alla fine va bene. Per i libri e le tirature che facciamo noi il libraio è ancora assolutamente determinante. Ma anche per gli editori più grandi, visto che, in generale, il successo nasce sempre in libreria, solo dopo arriva – se arriva – la grande distribuzione. Ma far conoscere i libri ai librai non è facile, dato che sono sommersi dalle novità. Occorre quindi fare un lungo lavoro per conquistarseli, per garantirli e dare loro il tempo di scoprire i libri in uscita, e non limitarsi a mostrare loro le copertine.
Il secondo problema qual è?
Un problema finanziario, visto che il libraio chiede di fatto di essere finanziato dall’editore: più l’editore riesce a facilitare le condizioni di pagamento del libraio e meglio è per i suoi libri, ma per fare ciò occorre avere un cospicuo polmone finanziario. Quindi, secondo me, mano a mano che un editore cresce, dovrebbe riuscire a incrementare la sua capacità di finanziare la libreria, cosa per nulla facile per noi piccoli editori. Oggi il ciclo medio dei pagamenti infrasettore a livello europeo è di circa 50 giorni, il ciclo librario italiano è di 190-200 giorni. Lavorare con un prodotto a basso ricarico come il libro, per di più con condizioni di pagamento a così lungo termine, è evidentemente molto arduo, tanto che sempre più il problema finanziario diventa un fattore selettivo. Resiste chi lo sa affrontare bene o ha una disponibilità finanziaria importante. Il che dimostra ancora una volta quanto siano importanti i soldi nell’editoria, per la ricerca degli autori e per coprire i rischi naturali del prodotto, ma anche per la gestione del ciclo produttivo.
Insomma, anche per la piccola editoria la gestione economica, a meno di avere un mecenate, deve essere sana e rigorosa.
Certo. Per anni si è sottovalutato il problema dell’imprenditorialità dell’editore, che invece è fondamentale. Come lo è per il libraio, che dovrebbe avere l’umiltà di fare bene i conti e farsi carico dei prodotti che compra. Io infatti sono per l’abolizione del diritto di resa – che in fin dei conti diminuisce la responsabilità dei librai – e a favore della vendita in conto assoluto. Personalmente preferirei distribuire meno, ma eliminare le rese. Senza aspettare la nascita di nuovi accordi commerciali tra editori e librai, noi abbiamo già iniziato a ridurre le tirature e le prime uscite, senza forzare mai le prenotazioni delle novità. Non a caso abbiamo una percentuale di resa molto bassa, che si aggira attorno al 19%.
In conclusione, quand’è che un piccolo editore cessa di essere tale?
Non darei né un’indicazione di fatturato né una di tipo strutturale. Piuttosto penserei a una caratteristica di tipo aziendale: il piccolo editore cessa di essere tale quando l’editore non gestisce più tutto il processo di fabbricazione, quando può assentarsi perché c’è una struttura che lavora per lui, quando c’è un direttore editoriale diverso dall’editore. Insomma, una casa editrice diventa media nel momento in cui il management ha il sopravvento e l’azienda può vivere senza l’editore. Quindi, ad esempio, Bollati Boringhieri mi sembra una casa editrice media molto più di Sellerio, anche se i loro fatturati probabilmente non sono poi così distanti.