Nel regno fumettistico del Bene e del Male, l’esaltazione dell’Eroe è spesso complementare al brulicare megalomane dei pittoreschi Avversari. Ma l’evoluzione del cattivismo a fumetti, che sin dalle origini assume tinte variate al variare dei modelli di genere, rivela un amalgama fantastico dalle implicazioni morali nient’affatto binarie. Dalla simbiosi regressiva con i Supercattivi al fumetto nero anni ’60, dalle provocazioni underground sino alle sottigliezze psicosociali del graphic novel, il cattivismo a fumetti assicura spazi di elaborazione delle pulsioni e strumenti di comprensione ironica della brutalità reale.
Chi dubiterebbe mai che il fumetto sia stato a lungo, e magari sia in gran parte ancora, il regno bipartito di Ahura Mazdā e Ahriman, intenti a suonarsele di santa ragione? Se si presta orecchio alla gran cagnara di monelli pestiferi che rumoreggia ai primordi dei comics, i contorni del bene e del male si mostrano invero sin da allora tutt’altro che univoci: a offuscarli intervengono le ambiguità del divertimento umoristico, in virtù delle quali atroci beffe e scomposta spontaneità possono indurre nel lettore le emozioni del ribellismo compiaciuto così come quelle del compiaciuto pedagogismo. Né dapprima gli aspri Yellow Kid, Bibì e Bobò né più tardi i Peanuts o Calvin & Hobbes, con la loro astuta tenerezza, sembrano affatto i reggimoccolo di qualche suprema metafisica dei costumi.
La semplificazione dualistica del conflitto etico tra protagonista magnifico e antagonista esecrabile si viene delineando in modo drastico nelle più serie strisce avventurose, sin dalla prima metà del Novecento. La mitografia dei supereroi, che si prestano talora volentieri alla propaganda del potere costituito, è sostenuta dal moltiplicarsi variegato dei supercattivi. Spesso all’unicità solitaria del Campione si contrappone una genia pittoresca di malfattori: il godimento della serialità fumettistica si gioca così sulla riconferma dell’Eroe a fronte del pullulare di avversari sempre diversi, uno più cattivo e disgraziato dell’altro. La necessità e la terribilità del Nemico, d’altronde, appaiono consustanziali alla necessità e all’eccellenza dell’Eroe. Senza Lex Luthor, niente Superman; senza Magneto, niente X-Men; e dopotutto senza Xabaras, niente Dylan Dog.
È vero però che nel proliferare e perdurare della mitologia supereroica seriale, i ruoli si possono contaminare o addirittura invertire: i passaggi di campo dal bene al male e viceversa, le inopinate conversioni e agnizioni riconfermano quanto le parti contrapposte siano radicate l’una nell’altra e in fondo simbiotiche. Senza bisogno di addentrarsi nelle ramificazioni più lussureggianti della continuity supereroica duemillesca, già dal fondo del Novecento il dualismo esplosivo di Hulk-Bruce Banner e le traumatiche ossessioni del Batman-Dark Knight lasciano presagire che la chiamata a diventare campioni del Bene è tramata di grame insinuazioni. In ambito avventuroso, per lo meno dai tempi di Diabolik, Kriminal e Satanik la contrapposizione manichea tra buoni e cattivi è stata brutalmente revocata in dubbio. Da quando il fattore K ha orientato l’immaginario fumettistico verso brividi e fremiti postpuberali, oltre il confine del proibito, il fascino problematico della contraddizione morale ovvero dell’amoralismo autoaffermativo ha sostenuto al meglio la tensione della lettura. E lo riconferma da ultimo, sul piano della parodia di ritorno, il quintessenziale Cattivik di Bonvi e Silver.
Alle origini del graphic novel il manicheismo favolistico, che riecheggiava da alcune delle strisce periodiche dotate di maggior impatto sulla memoria collettiva, viene evocato giusto per essere sottoposto a più acuta disamina critica. Il Maus di Art Spiegelman, che racconta la Shoah nei termini di una caccia ai “topi” ebrei da parte dei “gatti” nazisti, è imperniato sulla provocazione di caratterizzare i suoi personaggi secondo una nitida tassonomia animalesca: perché di quella contrapposizione radicale, tra predatori felini e parassiti topeschi destinati al massacro, i responsabili primi sono proprio i nazisti, che la deducono dall’ideologia della superiorità razziale e del conflitto esiziale tra le razze. Non si tratta meramente di dare evidenza icastica al divario scavato tra vittime e carnefici dalle turpitudini della Storia: il regime di classificazione e uniformazione zoomorfica adottato da Spiegelman trasforma in principio di composizione, in criterio di orientamento prospettico il prevalere storico-politico della conculcazione razzista. Ne riesce permeata la visione non solo dei persecutori ma degli stessi perseguitati: e addirittura la visione dei lettori che sono chiamati, dal senno di poi, a calarsi nell’ottica infondata quanto cogente della segregazione e dello sterminio.
A dispetto della comune appartenenza umana, a dispetto della promiscuità culturale originaria di ogni nazione europea moderna, l’artificiosa spartizione tra topi e gatti messa in scena dal fumettista statunitense è emblematica di quanto disastrosa possa risultare qualunque rigida dicotomia etica quando sia sospinta a rivestire i connotati dell’unanimismo organico, di matrice identitaria, nazionalista o neotradizionalista. Dopo di che ogni eventuale vittimismo della vittima, come potrebbe ritrovarsi nei panni del “topo” Vladek Spiegelman, protagonista di Maus, è arginato e disconosciuto a causa della sua stessa psicologia spigolosa, a tratti sgradevole, e per via dei postumi ricavati dall’internamento concentrazionario. La mancanza di un vilain individuato entro il malefico schieramento gattesco, costituito non di un solo ma di tantissimi cattivi troppo simili gli uni agli altri, è simmetrica alla presenza di una vittima come Vladek, che non diventa certamente buono per il solo enorme fatto di essere vittima, anzi reca in sé paradossalmente un residuo di quella banale crudeltà da cui era stato travolto, senza che con essa si possa in alcun modo confondere o ritenere complice.
Nelle annate più recenti, quando il cattivismo pare divenuto opzione politico-ideologica reale e mordace, sostenuto da ambizioni maggioritarie sovrapponibili a quelle dei “gatti” spiegelmaniani, non bastano più i cattivi di una volta fatti di carta e inchiostro. Se le sbroccaggini esagerate del fumetto si sono proiettate nella quotidianità conflittuale e nella tattica politica dotata di maggior credito, al fumetto tocca rimboccarsi le maniche per ridefinire i confini dell’enormità fumettistica e ritrovare una norma di più attendibile realismo valida anche oltre i bordi della pagina stampata, nei rapporti tra gli uomini in carne e ossa. Accanto ai cattivi disegnati tutti d’un pezzo, che trovano oggigiorno concorrenza al massimo livello della comunità politica internazionale in irsuti figuri adusi a roteare la clava, si vengono distinguendo nel fumetto cattivi e supercattivi di malignità spudorata, contraddittoria e grottesca: sia che debbano affrontare missioni impossibili tra le lucertole del pianeta Callisto IV, sia che si barcamenino nel mezzo delle lordure di una socialità depauperata.
Tra i cattivi di una volta, semmai, possono essere ripescati quei supercattivi che, allora riservati per lo più a un pubblico di nicchia e destinati a circolare attraverso le intermittenze e la varietà antologica delle riviste specializzate, oggi possono assurgere alla relativa compattezza del veicolo librario e della riconosciuta legittimità autoriale. I tempi medio-lunghi delle fortune critiche e la ristrutturazione espansiva del sistema editoriale fumettistico permettono di riportare alla ribalta proposte creative che hanno precorso le misure e le tendenze realistiche del più recente graphic novel, o che nei formati editoriali imposti vieppiù dalla voga del graphic novel possono trovare nuova visibilità, anche se con il graphic novel come genere narrativo di ampio respiro e di coerente verisimiglianza hanno poco a che spartire.
Il caso più clamoroso in tal senso si è delineato nel corso del 2019 a proposito di Massimo Mattioli, giusto pochi mesi prima della sua morte. Dopo che per lunghi decenni le opere di Mattioli erano rimaste fuori dei cataloghi, ecco che i suoi titoli maggiori o nutrite raccolte dei suoi interventi più episodici, frastagliati e corsari vanno incontro a una ostensione del tutto incongrua con la riservatezza dell’autore. Nella virtuosa convergenza dei progetti editoriali, lungo il 2019 si sono allineati in libreria a stretto giro, sotto il nome di Mattioli, Bazooly Gazooly (Comicon Edizioni), Superwest (Panini Comics), Squeak the Mouse e Joe Galaxy (Coconino Press-Fandango). Al centro di queste storie ci sono i cattivi e i supercattivi, dediti dal principio alla fine a cattiverie di pensiero, di lingua e di mano, o almeno impegnati in trastulli assai poco raccomandabili, sullo sfondo imperterrito di gigionerie pargoleggianti. Il fatto è che gli stilemi figurativi e narrativi del fumetto umoristico e di quello avventuroso, dalla destinazione adolescenziale, sono qui incrociati fra loro alla maniera dei Warner Bros e degli Hanna & Barbera, e sono fatti cortocircuitare con l’innesto di elementi spuri, di elettrizzante traumaticità, appartenenti a tutt’altra plaga dell’universo massmediatico.
Gli ingredienti topici di amore e morte sono declinati da Mattioli secondo un’oltranza punkettara, all’insegna di sex & violence, come si confà alle sedi originarie delle sue pubblicazioni, soprattutto alle riviste dello sperimentalismo underground di origine settantasettesca, «Cannibale» e «Frigidaire». L’orrore e il porno, di ascendenza cinematografica e fotogiornalistica, nelle tavole di Mattioli tracimano a più non posso, con una desultorietà fitta e gratuita, nel tessuto della composizione fumettistica pupazzettata. Gli occasionali inserti di fotogrammi distonici nelle sequenze delle vignette stilizzate e coloratissime valgono da suggello dell’opera di ricercata commistione tra differenti filiere pop perseguita da Mattioli. Lo scarto stridente che si genera in tal modo nello svolgimento della striscia è una cifra dell’innesto strutturale tra l’agilità cartoonesca e la sfrenatezza erotico-sanguinaria della rappresentazione. La ridanciana coazione alla violenza di Tom & Jerry, nella fattispecie di Squeak the Mouse, perde ogni effetto di plastica ricreazione e di reiterazione consolatoria nel momento in cui tra il Gatto Gattivo e il topo s’instaura una reciproca dipendenza di natura sadica e persecutoria, che riesce a oltrepassare la barriera della morte e precipita nell’eterno ritorno del tormento. Se nemmeno l’annichilazione della materia corporale può consentire il riscatto dell’oblio, figurarsi quale conforto possa assicurare l’ebbrezza dell’orgia interrotta sul più bello dalla nemesi dello strazio efferato.
L’altra indispensabile riscoperta dell’annata trascorsa ci riporta a quella covata di enfants terribles da cui proviene lo stesso Massimo Mattioli: Lassù no (Coconino Press-Fandango) raccoglie tavole e storie brevi di Filippo Scòzzari apparse sparsamente sulle pagine di «Linus», «Alter Alter», «Cannibale», «Frigidaire» e altre testate ancora, fra gli anni settanta e i primi anni duemila. Si tratta di perle in buona misura mai più ripubblicate: la sciatteria pomposa, la dabbenaggine aggressiva e l’avidità paranoica sembrano i marchi di fabbrica dei cattivi congegnati e illustrati dall’autore bolognese. Se quelli di Mattioli sono cattivi coattivi slanciati verso la prestazione distruttrice e la saturazione emoglobinica, quelli di Scòzzari sono anticattivi che rispecchiano una mediocre antiumanità sopraffatta dallo squallore e dalla deboscia. Mentre i supercattivi di Mattioli coagulano intorno a un grumo di forme infarcite di americanismo sino a scoppiarne, gli anticattivi di Scòzzari, dietro la fenomenologia esotico-fantascientifica del costume e della fisiognomica, rimandano a un panorama sociologico di attendibile articolazione, per lo più ricalcato caricaturalmente sul becero tripudio degli anni ottanta.
Nella produzione recente non mancano coloro che hanno raccolto a proprio modo il testimone del cattivismo esasperato di Mattioli e Scòzzari, ma anche quello del bullismo truculento ordito da Andrea Pazienza nelle vicende di Zanardi, impegnandosi a sostenerlo con una tensione narrativa di ampia arcatura, più confacente alla stagione editoriale del graphic novel: come si era già provato a fare su «Linus» Altan in tempi non sospetti, intessendo una diagnosi dell’abiezione attraverso i suoi romanzi sociologici a fumetti, da Ada a Cuori pazzi a Macao. Tra i maggiori interpreti del cattivismo fumettistico attuale vi sono Stefano Antonucci, Daniele Fabbri, Mario Perrotta con Qvando c’era Lvi (Shockdom, 2017), Emiliano Pagani e Daniele Caluri con il ciclo di Don Zauker (Ego Te Dissolvo, Santo subito. Inferno e paradiso, Habemus papam. Venga il mio regno, Feltrinelli, 2019-2020), Marco Taddei e Simone Angelini con 4 vecchi di merda (Coconino Press-Fandango, 2019).
Il cattivo di Antonucci-Fabbri-Perrotta è proprio «Lvi», un redivivo Benito Mussolini in cui si condensa e si svergogna, attraverso una italianissima parodia di secondo grado, l’ondata nostalgico-reazionaria del sovranismo neofascista: perché l’esperimento genetico che riporta in auge il duce funziona solo a metà: il duce è di nuovo la nostra luce, ma è «negro»! Nel paese dei Don Camillo e Don Matteo non può mancare, poi, lo sbertucciamento dell’ottusità integralista di parte cattolica: se ne occupa il Don Zauker di Pagani e Caluri, proiettato ai fasti nazionali dall’incubatoio livornese del «Vernacoliere». Al contrario dell’ecumenismo mellifluo di cui si sostanzia la pervasività di tanto cattolicesimo militante, le parole e gli atti di Don Zauker sono recisi, protervi. Il suo sì è sì e il suo no è no, ma potrebbe essere anche il contrario perché la sostanza non cambia: tutte le capriole e i magheggi dogmatici sono ammessi, non meno delle soluzioni manesche più spicce e plateali, in base alla necessità di riaffermare il potere spirituale sul mondo della secolarizzazione contemporanea. L’esperimento distopico di Taddei e Angelini, infine, è sorretto dall’ambizioso tentativo di pronosticare gli esiti del giovanilismo no-future in un quadro di disgregazione sociale postconsumista e di generale senescenza demografica. Lo scontro fasullo tra generazioni nella competizione per le risorse è duramente illustrato dai tratti scavati nel bianco e nero, dai volti striati di rughe dei personaggi decrepiti e in via di disabilitazione. Il paradosso fruttuoso degli autori è che proprio in quella naturale decadenza delle carni, in quella detestabile grettezza che viene ostentata dai «4 vecchi di merda», nella loro estrema inesausta “voglia di suonare”, si annida una riserva di vitalità maggiore di quanto la massa dei giovani a loro artificiosamente contrapposta sia mai in grado di esprimere.