È l’italiano, bellezza!

Se «essere colti non significa ricordare tutte le nozioni, ma sapere dove andare a cercarle» (Umberto Eco dixit), hanno la strada spianata di briciole i Pollicini, a quanto pare molti, sperduti sulla via della lingua italiana. Da alcuni anni la pubblicistica sull’argomento ha infatti visto moltiplicarsi saggi e guide salva-italiano: continuando sul binario favolistico, se ne ricaverebbe che la nostra lingua sarà anche la più bella del reame, ma pure una Cenerentola piuttosto bistrattata.

 

Fra le grandi bellezze del nostro paese – dell’arte, della letteratura, della musica e della moda, per dirne alcune – vi è anche il patrimonio, benché intangibile, della lingua. Per valorizzarla e al caso difenderla, negli ultimissimi anni si è eretta una schiera di libri e libriccini che in copertina portano serenate all’italiano: Ama l’italiano. Segreti e meraviglie della lingua più bella; L’italiano è bello. Una passeggiata tra storia, regole e bizzarrie; La più bella del mondo. Perché amare la lingua italiana; L’italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua; Elogio dell’italiano. Amiamo e salviamo la nostra lingua e si potrebbe facilmente proseguire per qualche riga ricordando le più recenti pubblicazioni che hanno al centro la più bella, o presunta tale, fra le lingue del reame.

Naturalmente, come annota Giuseppe Patota aprendo La grande bellezza dell’italiano (Laterza, 2015) dedicato a Dante, Petrarca e Boccaccio, l’assunto dell’intrinseca bellezza di una lingua «è inaccettabile sul piano teorico», in quanto «Le lingue, in sé, non sono né belle né brutte […]: sono, e basta». Ma per la lingua italiana tale assunto possiede una sua validità storica, palesandosi nel valore della letteratura attraverso cui si è espressa e in cui si è via via forgiata o al coro dei pareri sull’italiano, stratificatisi nei secoli, dovuti soprattutto a osservatori stranieri. Sono stati specialmente loro, infatti, a conclamare l’italiano quale «lingua di cui si vanta Amore» (John Milton) o quale “lingua degli angeli” («non c’è dubbio che gli angeli nel cielo parlano italiano», fa sentenziare Thomas Mann al protagonista delle Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull).

Negli ultimi anni l’ammirazione per l’italiano ne ha rinfoltito l’hortus editoriale, sempre meno conclusus nel circuito tradizionale di grammatiche, dizionari, manuali scolastici e universitari. Per tracciarvi qualche sentiero si possono innanzitutto distinguere i libri sull’italiano da quelli per l’italiano.

Il primo fronte appare presidiato da linguisti e storici della lingua, che recuperano la dimensione diacronica dell’italiano e la saldano agli scrittori (Dante über alles), come non può non essere, considerando la tradizione prevalentemente scritta e letteraria della nostra lingua e come d’altra parte già faceva nel 1905 Edmondo De Amicis, precursore di tale pubblicistica con L’idioma gentile – e anche qui si badi alla specificazione aggettivale. Su questo fronte appaiono schierate le due collane allegate a «la Repubblica» (L’italiano. Conoscere e usare una lingua formidabile, 14 voll., 2016-2017) e al «Corriere della Sera» (Le parole dell’italiano, 25 voll., 2019-2020), affidate alle cure di specialisti; i libri-intervista ad autorevoli linguisti, come Luca Serianni (Il sentimento della lingua, il Mulino, 2019) e Claudio Marazzini (Elogio dell’italiano, allegato a «la Repubblica» nello stesso anno); e soprattutto la legione di Prontuari linguistici (per esempio il Prontuario di punteggiatura di Bice Mortara Garavelli), di Brevi storie (per esempio la Breve storia della lingua italiana di Silvia Morgana), di Prime o Brevi lezioni (per esempio la Prima lezione di grammatica di Luca Serianni). Tutti testi che, pur rispecchiando la predilezione per le forme brevi tipica dello spirito del nostro tempo e nonostante le aperture ecumeniche di alcune dichiarazioni programmatiche, appaiono però rivolti a un lettorato colto o, ancor meglio, a un mercato universitario sempre più orientato verso la manualistica in pillole.

Nei libri per l’italiano si sono parimenti cimentati alcuni accademici, fra cui la premiata ditta Valeria Della Valle-Giuseppe Patota, che con una nutrita saggistica da banco, inaugurata da Salvalingua (Sperling & Kupfer, 1995), ha non di rado scalato le classifiche di vendita. Ma a stabilizzare scrittoi che traballano, su questo fronte sono accorsi soprattutto esperti di comunicazione, scrittori e studiosi più raramente incardinati in accademia. Collocandosi al fianco del filone scolastico delle grammatiche, questi autori si dedicano alla trattazione puntuale, benché asistematica, di questioni grammaticali e di dubbi, per lo più di natura ortografica e relativi a tratti convenzionali, per i quali non c’è corrispondenza fra parlato e scritto: per esempio, noi sognamo o sogniamo? accelleriamo o acceleriamo? disfiamo le valige o disfacciamo le valigie? (La risposta, parafrasando il santone Quelo alias Corrado Guzzanti, dovrebbe essere dentro di te, ma se così non fosse è la seconda che hai… letto.) È infatti nel settore ortografico, che il linguista riconosce come marginale nella competenza linguistica, che si affollano le maggiori incertezze degli scriventi e su cui più si accaniscono i cosiddetti grammarnazi, cioè gli oltranzisti della penna rossa e blu. Ben lontani, nel tono e negli intenti, i libri salva-italiano, che viceversa si aprono alle ragioni del Signor Uso e alle molteplici possibilità previste dall’italiano, che dipendono sia dalle diverse occasioni d’impiego sia dalla nostra stratificata storia linguistica, fornendo, al caso, soluzioni preferenziali e non vincolanti: parlante, in tal senso, il titolo del libro di Silverio Novelli, Si dice? Non si dice? Dipende. L’italiano giusto per ogni situazione (Laterza, 2014).

Spesso gli autori di questo secondo fronte smanettano molto online, dove gestiscono seguitissime pagine, come nei casi di Vera Gheno e di Manolo Trinci. Nell’intestazione del suo profilo Instagram (@a_wandering_sociolinguist) Gheno dichiara: «Scrivo, soprattutto su FB [Facebook]», ma non scherza su carta, considerando i numerosi volumi e volumetti, quattro nel solo 2019, sfornati in pochi anni; fra questi Potere alle parole. Perché usarle meglio (Bompiani, 2019), dove allestisce «una piccola rassegna di informazioni di carattere linguistico che ritiene rilevanti per cavarsela nella vita di tutti i giorni, ma anche curiosità» e «aneddoti personali». Le basi proprio della grammatica. Manuale di italiano per italiani (ancora Bompiani, 2019) è invece l’opera prima di Trinci, che vi raccoglie, ampliandoli, i contenuti pubblicati quasi quotidianamente e con grande successo sulla sua pagina Facebook Gram-modi e sul profilo Instagram collegato (@manolo_trinci); «I dieci grammaticamenti» che si leggono nelle prime pagine (il secondo ingiunge di «Non nominare il nome di Luca Serianni invano») danno il tono all’intera pubblicazione: coerentemente con il non volersi, né potersi, sostituire alle grammatiche tradizionali, un tono che mira a mettersi su un livello paritario rispetto all’utente più sprovveduto e a «sciogliere i dubbi grammaticali con leggerezza», eventualmente anche con l’aiuto di vignette umoristiche, come quella in cui un accento acuto si lamenta con un accento grave che «È grave che mi scambino per te!», al che quest’ultimo risponde che «Non sono mica tutti acuti come te…».

 

Uguali e diversi

I libri sull’italiano, più vicini alla tipologia del testo espositivo, e quelli per l’italiano, dalla finalità più immediatamente pratica, convergono nella scrittura piana e nell’andamento discorsivo, rassomigliando più alla chiacchierata che alla lezione. Il piacere di condividere le proprie conoscenze induce a un ampio ricorso a curiosità (vanno alla grande quelle su etimologie e modi di dire), a esempi (meglio se reali, aneddotici e autobiografici, o se attinti dal serbatoio pop di cinema canzone pubblicità ecc.) e infine a strizzatine d’occhio umoristiche o pseudotali, con il rischio, sempre in agguato, di cadere nel corrivo, nella battuta stucchevole o nel gioco di parole floscio. Se tutti si sforzano e se molti riescono a essere piacevoli, le incursioni nei registri informali o, come si dice, user-friendly sono soprattutto delle guide salva-italiano, rivolte a un lettorato più basso, mentre i saggi presentano uno stile sobrio, consono all’alta divulgazione.

In ogni caso vengono attuate strategie di avvicinamento fra specialista e profano, cercando di arginare la complessità del linguaggio della scienza linguistica (la terminologia grammaticale è per esempio ridotta all’osso o chiosata) e sacrificando alcuni indici della forma saggio, come le note a fondo pagina o, con il rischio di apparire ingenerosi, la citazione degli studi specialistici che vengono divulgati.

Di entrambi i fronti è anche la forma breve, ardua in sé e in modo particolare per il linguista, dall’habitus certamente più portato all’analisi che alla sintesi. La brevità è sia dell’insieme, che di norma assesta i volumetti sulle 100-150 pagine, ché altrimenti risulterebbero respingenti, sia delle parti, cioè dei capitoli, agili e fruibili in modo non necessariamente consecutivo, anche grazie all’organizzazione degli argomenti secondo l’ordine alfabetico o ad indici ben confezionati. Pure frequente, come nei prodotti paraletterari, il ricorso a schemi, infografiche e immagini, al cui potere evocativo si somma la possibilità di rendere “visibile” o “visitabile” la lingua: non a caso in questi libri ricorre come Leitmotiv la metafora del viaggio o del percorso guidato attraverso l’italiano.

Se la lingua italiana ha imbarcato anche scrittori di rango – per esempio Gianrico Carofiglio e, da ultimo, Marco Balzano, che con Le parole sono importanti (Einaudi, 2019) accompagna in un personalissimo itinerario fra le storie di dieci parole – e se di italiano si discorre anche sui giornali, alla radio e alla televisione, i maggiori fermenti si trovano in Rete. Qui si può cadere bene, approdando nelle pagine delle più accreditate consulenze linguistiche dell’Accademia della Crusca o della Treccani, ma anche male e peggio, se invece ci si imbatte nella vox populi di Yahoo Answers o nell’espertone di turno che pontifica sul social network di turno. Sui social network, in particolare, divampano le polemiche linguistiche più gratuite, accese da episodi tutto sommato trascurabili. Appartengono alla storia recente la rivolta popolare del 2016 contro il petaloso e quella del 2019 contro le espressioni del tipo scendi il cane, dove la grande accusata era però niente di meno che l’Accademia della Crusca, considerata (erroneamente) rea di averli accreditati. Ma di simili eroici furori, fieramente cavalcati nella Rete, ce ne sono a bizzeffe: basti pensare al battage scatenato da Un cappello pieno di ciliege (Rizzoli, 2008) della Fallaci o all’insofferenza per l’apericena e per i suoi numerosi figli (aperipizza, aperisushi, aperiyoga… fino al neonato aperivirus, cioè l’aperitivo che, come da coprifuoco imposto in tempi di Coronavirus, va consumato entro le ore 18); l’apericena, che dai primi anni duemila aveva scalzato gli allora correnti e se possibile più brutti aperitivi cenati o mangiati, si è persino conquistato una pagina su Facebook, il Movimento di resistenza contro gli “apericena” e altre espressioni odiose, seguita da oltre 10mila persone.

 

Italiano superstar

Le attenzioni da più parti convenute sull’italiano e la correlata, variamente preoccupata pubblicistica portano a interrogarsi, spinazzolianamente, sulle ragioni di tanto successo. La principale risiede nella turbinosa trasformazione in atto nell’italiano, che nella sua ultramillenaria storia mai è cambiato così repentinamente come negli ultimi decenni. Appare così piuttosto naturale che autori e editori abbiano intercettato, volta a volta, un’esigenza di norma linguistica o l’appassionato interesse per una lingua che muta sotto gli occhi di tutti. La lingua italiana, strappata alle mani gentili di letterati e intellettuali, è corsa e continua a correre più o meno sbrigliata su bocche, penne e tastiere di milioni di persone, che possono trovarsi nella necessità, o semplicemente sviluppare la curiosità, di saperne di più; verso usi normativamente eccepibili poco può la grammatica, tanto meno quella insegnata nelle scuole, spesso attardata in rigide regole insensibili alle ragioni dell’uso e semmai capace di evocare, al solo sentirla nominare, sonnacchiosi pomeriggi di compiti a casa cullati dall’analisi logica.

L’italiano è oggi disponibile all’uso e consumo della comunità nella sua quasi interezza e in una grande varietà di impieghi, sia parlati che scritti: nel parlato continua ad avanzare sui dialetti e sulle varietà regionali, sempre più spodestati anche in contesti informali, mentre nello scritto, benché soprattutto nelle sue manifestazioni “digitate”, si attentano strati sociali che fino a pochi anni fa avrebbero avuto minime o nulle occasioni sia di leggere sia di scrivere. Proprio sul terreno del cosiddetto italiano digitato o e-taliano – che enfatizza la commistione fra i tratti tipicamente standard dello scritto e quelli tipicamente substandard (o presunti tali) del parlato e che favorisce la deproblematizzazione della scrittura – verso l’inizio degli anni duemila si sono scontrati gli opposti schieramenti dei catastrofisti, che prospettavano lo scenario apocalittico di un italiano snaturato dalle abbreviazioni e dagli amalgama alfanumerici da sms, e dei giustificazionisti o whateveristi (dalla teoria del linguistic whateverism di Naomi S. Baron), portati ad avvalorare l’efficacia comunicativa del messaggio anche a discapito della sua forma.

A disorientare l’italiano e dunque a favorire la diffusione di bussole linguistiche si sono aggiunti altri stimoli esterni, come la forte immigrazione che incentiva un neo-plurilinguismo a base straniera e che accelera fenomeni di semplificazione già in corso da decenni, o come la stretta del «morbus anglicus», come Arrigo Castellani lo definì più di trent’anni fa, che per semplice moda, per pigrizia intellettuale o per provincialismo travestito da internazionalismo abbranca un italiano prono a un’«anglicizzazione stupida» (Claudio Marazzini). Sollevando più di una polemica e aizzando mai sopiti istinti puristici, il morbo inglese ha contagiato anche il discorso (in) pubblico di politica, pubblica amministrazione e media, che per esempio prescelgono jobs act e spending review rispetto a legge sul lavoro e taglio della spesa, anche se sono soprattutto i politici che con le loro invettive e sgrammaticature immiseriscono e mortificano l’italiano su registri rasoterra, al contempo abbassando, per via del prestigio di cui comunque godono, la soglia dell’accettabilità linguistica.

Senza potere indugiare oltre nell’incartamento dei fenomeni linguistici in corso, peraltro spesso concomitanti e inestricabili l’uno dall’altro, rispetto alla pubblicistica di cui abbiamo parlato ce n’è d’avanzo per giustificare da un lato la richiesta di utenti spaesati o infastiditi, dall’altro l’offerta che si sforza di tendere corde linguistiche pericolosamente allascate. Se neanche trincerati dietro questa pila di libri c’è garanzia di schivare l’errore (tutti sbagliano, anche i laureati in lettere), la stessa pila pare testimoniare quanto alto sia l’interesse per l’italiano e quanto forte sia il sentimento di lealtà linguistica della comunità, ivi compresi i “nuovi italiani” arrivati con le ondate migratorie: tutti loro, tutti noi ravvisiamo nella lingua italiana un imprescindibile vincolo identitario, mostrando nei suoi confronti un attaccamento affettivo che la rassomiglia, più che a una lingua madre, a una lingua mamma.