Elena Ferrante, la scrittrice italiana contemporanea più nota al mondo, ritorna con un nuovo romanzo. La vita bugiarda degli adulti riusa abbondantemente soluzioni già impiegate nell’Amica geniale, ma con minore fantasia inventiva ed esiti nel complesso deludenti. A una generazione di distanza, la storia di emancipazione di Lila e Lenù si risolve in un racconto di formazione irrisolto e stantio: la ricerca di sé di una protagonista nata negli anni settanta trova rappresentazione narrativa nel fisiologico allontanamento dai genitori e nella tensione sempre delusa verso l’orizzonte maschile.
Annunciato un paio di mesi prima dell’uscita, per mobilitare l’attesa di una platea ormai vasta di lettrici e lettori, La vita bugiarda degli adulti è apparso in libreria e sui nostri e-reader il 7 novembre scorso. Dall’exploit globale dell’Amica geniale, tempo sufficiente è ormai trascorso perché si riconosca che la #Ferrantefever ha contribuito in misura significativa a incrementare gli interessi editoriali per l’offerta letteraria italiana fuori dai patri confini, con ricadute tangibili, tra l’altro, sulle nuove traduzioni di classici novecenteschi; il fenomeno ha soprattutto accresciuto, in senso più largo, l’attenzione culturale nei confronti del nostro paese. Non stupisce che un successo di massa di queste proporzioni potenziasse il richiamo del titolo seguente, orientandone la ricezione in senso comparativo: se non per la critica nazionale, questa volta puntualmente assidua nell’occuparsi del libro ma spesso restia a prendere sul serio il fenomeno ferrantiano, certo per una buona fetta di pubblico.
In effetti, La vita bugiarda degli adulti esibisce senza complessi, fin da subito, marche autoriali molto riconoscibili. Lo fa a partire dalla copertina, progettata da Emanuele Ragnisco, storico grafico delle Edizioni e/o e dei partner Europa Editions-UK Editions e soprattutto ideatore delle immagini dei quattro volumi dell’Amica geniale: effigi che hanno fatto il giro del mondo e dell’infosfera, prima dei restyling indotti dalla proliferazione di traduzioni e ristampe e infine dalla concomitante serie televisiva, i cui fotogrammi hanno presto occupato le nuove copertine della quadrilogia. L’ultimo romanzo si presenta anch’esso con una fotografia a soggetto femminile, ma questa volta in bianco e nero e scorciata a un solo dettaglio somatico: un paio di braccia e mani, ombreggiate, sembrano toccare il titolo del libro, enfatizzandolo, mentre l’unica nota di colore è lo pseudonimo d’autrice; il risultato è che il lettering “Ferrante” spicca solitario, in rosso acceso su un uniforme sfondo grigio. Un caso da manuale di sfruttamento della notorietà del nome, certo, ma anche un deciso posizionamento editoriale in una zona più alta dell’offerta libraria, distinta dalle cromie squillanti che di norma contraddistinguono i paratesti della produzione d’intrattenimento.
I richiami più significativi all’opera pregressa della scrittrice, e in particolare alla saga di Lenù e Lila, riguardano però, com’è ovvio, il romanzo e la sua fattura. L’incipit è di quelli forti: «Due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta. […] Tutto – gli spazi di Napoli, la luce blu di un febbraio gelido, quelle parole – è rimasto fermo». Come di consueto in Ferrante, ci troviamo di fronte a una voce femminile che racconta in prima persona, con il tipico piglio, un po’ sentenzioso, un po’ ipnotico, capace di catturare l’attenzione di chi legge.
Il gioco funziona fino a circa metà del romanzo, poi si guasta: per mancanza di inventiva, povertà degli ingredienti assemblati e infine per ingorgo dell’intreccio, che inizia a girare a vuoto verso un approdo al tempo stesso irrisolto e stantio.
Napoli è di nuovo lo scenario elettivo, ma questa volta i confini della città, gli spazi umani e l’estensione sociotemporale della vicenda appaiono notevolmente ristretti. La protagonista Giovanna è figlia di due insegnanti convenzionalmente progressisti: papà è un intellettuale impegnato, sempre intento a leggere, scrivere e discutere delle sorti del mondo; mamma, più modestamente, sgobba sulla redazione di romanzi rosa ed è in tutto e per tutto succube del marito. La storia copre gli anni iniziali di un’adolescenza borghese, e si dipana lungo un processo molto canonico di svelamento delle figure parentali, secondo i modi statuiti del romanzo di formazione quando nulla vuol dirci di più del fatto che l’uscita dall’infanzia è affare traumatico: il titolo del libro diventa tautologia, perché Giovanna scoprirà che la vita degli adulti è bugiarda, sì, e ben poco esemplare. La menzione della data di nascita di chi racconta – anno 1979 – è peraltro l’unico elemento che permette di situare la narrazione negli anni novanta: l’orizzonte chiuso dell’intimità familiare occupa l’intera scena, a dimostrazione che l’affresco storico ad ampie campate tentato nell’Amica geniale era sì l’elemento più spettacolare, ma forse anche il più debole nell’immaginario d’autrice.
A smuovere acque così calme, letteralmente trascinando la dinamica di intreccio, è un personaggio estraneo al milieu della narratrice protagonista, ma pur sempre appartenente alla compagine della famiglia: si tratta della tremenda zia Vittoria, sorella rinnegata del padre. Su questa figura vengono caricate tutte le micce destinate a far esplodere il terzetto composto da Giovanna e dai suoi genitori: Vittoria è rimasta nei paraggi mitologici della città plebea – «giù, nel fondo del fondo di Napoli» –, è sguaiata, diretta e sanguigna, ma soprattutto ce l’ha a morte col filisteismo ipocrita di fratello e cognata, a cui riserva ogni sorta d’improperio, alludendo a oscuri e vergognosi trascorsi. Per un buon tratto del racconto, Giovanna ne rimane irrimediabilmente affascinata, e così pure chi legge: ciò accade perché uno degli indiscutibili pregi della scrittura di Ferrante, a dispetto delle molte pedanti accuse di sciatteria e convenzionalismo, continua a essere la non comune tessitura polifonica della pagina. La voce narrante della ragazza, interrogante, querula e dubbiosa, si sovrappone e si mescola a quella discorde, intermittente e imperativa della zia. Nella sua dinamica basilare, il procedimento è il medesimo adottato, con ben altri esiti, nell’edificare la saga di Elena e Lila: se non dal dosaggio di prospettive e vocalità, qualunque lettore di Ferrante lo riconosce d’acchito dalla vistosa somiglianza dei personaggi, così che la silhouette di zia Vittoria, nella sua veemenza irragionevole, appare subito un calco di Lila, la magnetica “protagonista in ombra” dell’Amica geniale.
Il punto è però che l’universo immaginativo della Vita bugiarda degli adulti è troppo spento e fragile per reggere lungo le oltre quattrocento pagine del racconto. Il primo elemento di debolezza si rivela proprio il personaggio di Vittoria, che presto tradisce le sue promesse: all’inizio appare, a noi e alla narratrice, l’enigmatica sacerdotessa di un mondo altro, e migliore, ma poi gradualmente trascolora nell’assai più scontato profilo di una donnetta un po’ svitata, molesta e priva di mistero. Il secondo, più importante, motivo di inceppamento della macchina narrativa risiede invece nello stesso percorso di formazione della protagonista: la confusissima ribellione di Giovanna alle bugie degli adulti si arena per assenza di condivisibili risposte alla domanda decisiva, la stessa che risuona, squillante, sulla quarta di copertina del volume: «Crescere per diventare cosa? Per assomigliare a chi?».
Ma quali modelli potrebbe mai seguire, la povera Giovanna? La zia, che poteva forse indicare una strada, si rivela stravolta e schiacciata dalla memoria di un breve amore perduto: morto il suo amante, le resta solo il tempo «del cattivo sangue» che già marchiava in un epilogo senza luce la vecchiezza di Elena e Lila, al termine della quadrilogia. La mamma, dal canto suo, offre un esempio ancora più disastroso: abbandonata dal marito, che la lascia per la sua amica più altolocata e danarosa, mai dismette un’attitudine oblativa nei confronti degli uomini. Allo stesso modo, quando Giovanna ha ormai compiuto il fisiologico allontanamento dai genitori e si innamora di un noioso accademico in erba, si ritrova a dover consolare la fidanzata di lui, una coetanea che si strugge di gelosia e angoscia fino quasi a impazzirne. L’andirivieni delle due tra Napoli e Milano, all’inseguimento del ragazzo, sarà pure ritmato dai passaggi di mano di un braccialetto di famiglia, ma si risolve infine in uggiose paturnie. Il libro si chiude su una scena anch’essa nota alla lettrice di Ferrante: come già aveva voluto Elena in Storia del nuovo cognome, per sconforto e disinganno Giovanna sceglie di perdere la verginità con il più ripugnante dei giovani che le girano attorno. Vero è che ci viene annunciato un viaggio imminente in compagnia della più intelligente delle amiche, forse in preparazione di un secondo volume della storia. Per adesso, aver provato a rappresentare la generazione successiva a quella di Lila e Lenù entro gli orizzonti chiusi e anacronistici della conquista del maschio, be’, non può che lasciarci deluse.