Molte, moltissime oramai le donne di origine straniera che con esiti più e meno felici adottano l’italiano come lingua di espressione letteraria. Sono, secondo l’ironico titolo di un’antologia a loro dedicata, Pecore nere che valicano frontiere e che, raccontandosi e raccontandoci, posano nuovi semi nel recinto della nostra lingua e della nostra letteratura.
Nel 2018 a vincere il premio Strega è stato il romanzo La ragazza con la Leica di Helena Janeczek. Un riconoscimento in cui vi sarebbero, giornalisticamente parlando, almeno due elementi notiziabili: il fatto che ad aggiudicarsi il nostro più prestigioso premio letterario sia stata una scrittrice (dal 1947, anno di nascita dello Strega, lo hanno vinto solo 11 donne, di contro ai 71 uomini) e il fatto che questa scrittrice sia di madrelingua tedesca, benché naturalizzata italiana (originaria di Monaco di Baviera, classe 1964, Janeczek vive nel nostro paese dal 1983). Ma forse la vera notizia è piuttosto una terza, e cioè che le prime due siano passate pressoché sotto silenzio: da un lato, dunque, l’oziosa questione delle quote rosa in letteratura sembra passata in giudicato; dall’altro, l’accettazione che un’italofona di origine straniera sia giunta alle vette delle patrie lettere suggerisce il superamento di un paradigma critico duale che vedeva la letteratura italofona in posizione subalterna – dal punto di vista estetico-valoriale, ma anche editoriale e commerciale – rispetto alla letteratura italiana tout court.
Se a monte vi è indubbiamente una maturazione della cosiddetta letteratura italiana della migrazione, che nei suoi esiti migliori può dunque perdere l’ultima specificazione e considerarsi senz’altro italiana, è pur vero che Janeczek rientra nella casistica di una migrazione privilegiata, colta ed episodica, precedente l’ondata che tra la fine degli anni ottanta e i primi novanta ha visto l’ingresso in Italia di estese comunità immigrate ben presto cimentatesi nella scrittura. Si tratta di un fenomeno complesso e articolato, attorno a cui si attorciglia più di un nodo, a partire dalle definizioni che di queste eterogenee produzioni sono state date (“letteratura italofona”, “migrante”, “creola”, “transculturale”, “nascente” e molte altre), rispetto alle quali, per dar conto degli aspetti specifici, si può tener valida quella di “letteratura italiana della migrazione”, a patto di considerare la migrazione sia in senso stretto (cioè geografico, propria di coloro che si sono spostati nello spazio), sia in senso lato, culturale e diremmo psicologico, di chi porta impresso nel proprio dna un passato, più o meno recente, vissuto altrove.
A differenza che sulla questione terminologica – non scontata, spesso sottendendo visioni e approcci sostanzialmente e anche ideologicamente disuguali –, la critica è concorde nel fissare la nascita di questa letteratura al 1990, anno di pubblicazione delle due opere seminali Immigrato, del tunisino Salah Methnani, e Io venditore di elefanti. Una vita per forza fra Dakar, Parigi e Milano, del senegalese Pap Khouma. Scritti direttamente in italiano, anche se, per via delle competenze linguistiche ancora pericolanti, con l’aiuto di un coautore madrelingua, entrambi i testi vengono pubblicati da case editrici nazionali che ne fiutano la novità e l’attualità del tema. In un’Italia per la prima volta trasfigurata da paese di emigrazione a paese di immigrazione, questi libri-testimonianza attirano un interesse di tipo culturale e sociologico piuttosto che letterario, come non si mancava di sottolineare in un saggio apparso a caldo su Tirature ’91 (Il libro in nero. Storie di immigrati di Remo Cacciatori), peraltro considerato, fa piacere ricordarlo, il primo intervento italiano di critica letteraria sul tema.
Donne alla ribalta
Se le opere fondative di questa letteratura si devono a scrittori uomini, le scrittrici partono in lieve ritardo, ma secondando un diagramma di crescita che le spinge fino a una consistenza quantitativa predominante, affermandone la presenza come distintiva della letteratura italiana della migrazione. Ponendo l’occhio alla Banca dati degli Scrittori Immigrati in Lingua Italiana (Basili), che dal 1997 tiene il registro degli scrittori stranieri in lingua italiana, al 1° gennaio 2019 le scrittrici censite vi appaiono nel numero di 317 su un totale di 565. Cifre davvero considerevoli, ma in certo senso fisiologiche poiché riflettono il tessuto etnico italiano in cui gli stranieri sfiorano i 6 milioni; e cifre che per di più appaiono sottostimate per via della marginalità e della frammentarietà editoriale di questo tipo di scritture. Oltre a essere in maggioranza prese in carico da editori piccoli e minimi, queste scritture sono tipicamente incentivate, protette o, per alcuni, ghettizzate all’interno di forme concorsuali “riservate”, promosse da enti locali o da associazioni private: si pensi per esempio che il concorso “Lingua Madre” – nato nel 2005 e riservato a donne straniere o di origine straniera, ma da poco aperto anche alle italiane, purché trattino temi relativi all’intercultura – in tredici edizioni ha visto la partecipazione di più di 6.000 autrici.
Per cercare di tendere alcune corde di ancoraggio in questo caleidoscopio di vicende autoriali, si possono individuare, pur con qualche forzatura, due macroraggruppamenti. Da un canto vi sarebbero le scrittrici che in Italia sono sbarcate, talvolta letteralmente, con le ondate migratorie di massa, ma anche le seconde generazioni di immigrate e le scrittrici nate da coppie miste; sono donne dai livelli culturali molto disomogenei e spesso medio-bassi, così come malcerte possono essere le loro competenze nell’italiano (ciò vale, naturalmente, per le prime generazioni che hanno per lo più imparato l’italiano solo una volta giunte in Italia e che in italiano hanno incominciato a scrivere pochi anni dopo il loro arrivo). D’altronde si possono annoverare le scrittrici di estrazione tendenzialmente più colta, emigrate nel nostro paese prima o indipendentemente dalle suddette ondate, in genere per motivi politici o familiari: fra queste spicca l’enclave delle scrittrici germanofone, le cui narrazioni sono ancorate alle vicende abissalmente tragiche del nazismo, e quella delle scrittrici cosiddette postcoloniali, provenienti dalle ex colonie italiane nel Corno d’Africa.
Identità e racconto
In tanta varietà di protagoniste e di esiti, appare trasversale il tema dell’identità. Presente anche sulla sponda maschile e più in generale nel corpus migrante, il tema acquista particolare rilievo proprio in riferimento alle donne. Sono infatti loro che, una volta migrate, si trovano a doversi non solo riacclimatare nel nuovo habitat culturale e linguistico, ma anche a ridefinirsi, ben più degli uomini, dal punto di vista sociale e comportamentale, come appare evidente nei casi di donne catapultate in Italia da paesi geograficamente e culturalmente lontani, spesso caratterizzati da sistemi patriarcali e maschilisti quando non proprio arcaici e semitribali. Il processo di continua evoluzione e di ricostruzione del sé non è esente da forti contraddizioni, le quali, mai completamente risolvibili, possono tuttavia attutirsi grazie all’ironia. Questo dono salvifico è più spesso mostrato dalle 2G (le seconde generazioni: figlie di immigrati, nate o arrivate in Italia in tenerissima età), fra cui si possono ricordare Sumaya Abdel Qader, di genitori palestinesi, autrice di uno scanzonato diario di bordo dal titolo parlante Porto il velo, adoro i Queen. Nuove italiane crescono (2008), o le giovani e anche stilisticamente puntute autrici dell’antologia Pecore nere (2005): Igiaba Scego, Laila Wadia, Gabriella Kuruvilla e Ingy Mubiayi Kakese. In particolare la prolifica Scego, le cui origini somale sono tradite dalla pelle «del colore della notte» (così nel racconto Salsicce), pur ammettendosi «dismatriata», orfana cioè della terra madre (Dismatria), finisce per accettarsi in un’appartenenza non univoca ovvero in un’identità plurima (La mia casa è dove sono, 2010).
In queste autrici il vivere sul crinale fra culture diverse può tradursi nell’orgogliosa rivendicazione di un punto di vista “terzo”, non riconducibile né alla cultura di partenza né a quella di arrivo, e approdare all’autoconsapevolezza di una «condizione di chi appartiene a varie culture, che ha dunque memorie diverse, preziose per la costruzione di uno “stato di multiculturalità”, nel quale sentirsi parte di un tutto, ma anche essere liber[e] di posizionarsi in un luogo ben preciso, non ambiguo», secondo le parole dell’antropologa camerunense Geneviève Makaping nel diario-racconto Traiettorie di sguardi. E se gli altri foste voi? (2001), in un capitolo significativamente intitolato Chiamatemi negra, a rivendicazione di un diritto centrale in tutte le categorie marginalizzate, quello ad autodefinirsi.
Il bilicamento fra culture è però raramente pacifico, configurandosi più spesso come scontro con la cultura di arrivo e come strappo da quella di origine, lo sradicamento dalla quale può creare un senso di malessere e di disappartenenza. Il dissidio appare lampante nelle scrittrici di prima ondata, le quali prediligono il racconto-verità in prima persona, finalizzato all’affermazione della propria esistenza e al tentativo di gettare un ponte fra culture diverse. Chiamano così a dar conto di sé le narrazioni di Racordai: vengo da un’isola di Capo Verde (1996) di Maria de Lourdes Jesus, che riflette l’ondata migratoria di donne provenienti da Capo Verde, per lo più impiegate in Italia come collaboratrici domestiche, e quelle raccolte, dapprima in inglese, nel volumetto In casa d’altri. Sedici immigrate filippine si raccontano (1991), che aprono uno spaccato sulla comunità filippina romana. Impiegate come domestiche anche quando nel paese d’origine svolgevano lavori culturalmente elevati, queste donne si raccontano per denunciare le frustrazioni in ambito lavorativo, le ingiustizie, le discriminazioni, la povertà di denaro e di affetti, per richiamare alla memoria il proprio paese e i propri cari, ma soprattutto per riappropriarsi di una pienezza identitaria in un paese che le considera più come “servizi” che come persone.
Buona parte delle opere della fase “esotica” o “testimoniale”, che va dal 1990 alla metà degli anni novanta, appare affiatata sullo stigma della diversità biologica, cui si correlano i problemi legati alla razza, le disparità di trattamento lavorativo, le difficoltà di integrazione, la frustrazione per l’incomprensione linguistica. Nel comparto femminile il caso più paradigmatico è quello di Volevo diventare bianca (1993), scritto da Nassera Chohra con l’aiuto prima del marito e poi della giornalista Alessandra Atti di Sarro. In questa autobiografia Naci, musulmana, figlia di algerini emigrati in Francia, narra dei suoi caparbi tentativi di superare fattori di emarginazione derivanti dall’etnia, dalla religione, dalla classe e, non ultimo, dal genere. Anche a costo di forti contrasti, Naci opta per scelte autonome rispetto alla famiglia, attraverso un percorso di formazione che la porta a emanciparsi e infine a trasferirsi nel nostro paese, dove sposa un italiano e dove dà alla luce un figlio a cui, promette, insegnerà l’arabo, il francese e l’italiano. Quell’italiano, non a caso prescelto per la narrazione, che rappresenta per Naci la lingua della liberazione sia rispetto al francese, dolorosamente associato a un passato di discriminazioni, sia all’arabo, che in qualche modo di quelle discriminazioni era concausa.
In queste autrici il peso del vissuto contraddistingue soprattutto i primi testi, più legati al trauma migratorio, ma è tale da far gravitare a sé tutte le scritture migranti, declinandosi anche in senso più ampio, ovvero come vissuto storico e come percorso memoriale nei paesi d’origine. Talvolta questo percorso può innestarsi di venature nostalgiche per persone, tradizioni, luoghi e tempi lontani (la famosa saudade spesso cantata, non a caso, dalla brasiliana Christiana de Caldas Brito), ma senza che mai questa nostalgia si trasformi in cieco attaccamento: come accennato, a prevalere in queste scrittrici è la consapevolezza di appartenere contemporaneamente a diverse culture. Fra le prime prove femminili dalla più spiccata vague storico-documentaristica vi sono Con il vento nei capelli. Vita di una donna palestinese (1993) di Salwa Salem e Lontana da Mogadiscio (1994) di Shirin Ramzanali Fazel, sorta di romanzi-reportage in verità piuttosto manchevoli sul versante letterario, ma a radicarsi nelle storie dei paesi d’origine sono forse soprattutto le scrittrici tedesche e quelle postcoloniali. A riecheggiare nelle prime è un passato nazionalsocialista in cui appaiono fatalmente impantanate, sia che lo abbiano vissuto in prima persona (Edith Bruck, Helga Schneider, Elisa Springer), sia che lo abbiano conosciuto per memoria tramandata, come nel caso di Lezioni di tenebra, in cui Janeczek, esordendo nel 1997, narra degli avi sopravvissuti allo sterminio nazista. Le scrittrici postcoloniali invece più spesso inscenano vere e proprie contronarrazioni, gettando luce su di un periodo storico ancora poco conosciuto. Corrono sul crinale fra storiografia e letteratura opere come Asmara addio (1988), dove Erminia Dell’Oro tratteggia, attraverso la saga della propria famiglia, il passato coloniale italiano in Eritrea, o come più recentemente Madre piccola (2007), opera prima in cui Cristina Ubax Ali Farah ripercorre la diaspora somala. In Regina di fiori e di perle (2007) di Gabriella Ghermandi riaffiorano invece le vicende dell’occupazione italiana in Etiopia; la storia viene raccontata da più voci a una bambina, dietro cui naturalmente si cela l’autrice, che dovrà poi farsi «cantora» e trasmettercene memoria, secondo il suggerimento di un vecchio che così le sussurra all’orecchio: «Raccogli tutte le storie che puoi. Un giorno sarai la nostra voce che racconta. Attraverserai il mare che hanno attraversato Pietro e Paolo e porterai le nostre storie nella terra degli italiani. Sarai la voce della nostra storia che non vuole essere dimenticata».
In Regina di fiori e di perle l’alternarsi dei narratori e l’espediente per cui ogni narratore può diventare narrato elevano la narrazione e la capacità di narrare, da mezzo, a tema del racconto, conferendo loro un’autonomia e una centralità caratterizzanti. Passandosi il testimone della narrazione, i personaggi pongono in essere un senso di coralità, che pure appare come tratto d’unione fra le scrittrici migranti. Dalla moltiplicazione delle voci e dei punti di vista può scaturire una visione incerta e talvolta per nulla rassicurante del reale, d’altro canto sintomatica di un disponibilità specifica, cioè specificamente femminile, nel fornire una lettura plurivoca del reale. I romanzi e i racconti di queste scrittrici pullulano di personaggi, ognuno dei quali è portatore di una proprio punto di vista, e pullulano soprattutto di personaggi femminili. Anche quando non si tratti di autobiografie, le donne insomma, ancora una volta, preferiscono raccontare le donne. Se su questa fattispecie vi sarebbe conforto d’esempi pressoché sterminato, forse è più interessante notare come il senso di disunità e di diffrazione del reale – portato della coralità e più o meno consciamente trasmesso dalle scrittrici migranti – concorra anche una decisa predilezione per una misura narrativa di raggio minimo, per lo più concretata in racconti e in capitoli di romanzo brevi e brevissimi. Ciò si verifica, per limitarci a un paio di esempi, in 500 temporali (2006) di Christiana de Caldas Brito, i cui capitoli sono carnei dedicati a vari personaggi, oppure in Dove mi trovo (2018) della scrittrice americana di origini bengalesi Jhumpa Lahiri, monologo frantumato in quarantasei raffinati capitoletti cui si legano luoghi che rappresentano le tessere di un puzzle che non toma, anche perché nessun luogo può chiamarsi casa («Esiste un posto dove non siamo di passaggio?» ci si chiede retoricamente verso il finale); il tutto in un clima sospeso e in un vagare erratico, fisico e memoriale, alla ricerca di un’epifania sempre sfuggente.
Nonostante il protagonismo femminile di cui s’è detto, rimane semideserta la sponda tipicamente rosa dei temi amorosi e sentimentali. Nell’eventualità in cui vengano affrontate simili tematiche, esse si stagliano e come compenetrano nel contesto ambientale e storico di provenienza, come nel caso di Anilda Ibrahimi – con Ornela Vorpsi ed Elvira Dones fra le principali romanziere di migrazione albanese – e in particolare del suo recente Il tuo nome è una promessa (2017), i cui intrecci amorosi rimangono ben piantati nella storia dell’Albania. Se comunque si tratta di amori narrati con una certa reticenza e con senso del pudore (il pudore vero, quello dei sentimenti), una maggiore schiettezza espressiva può riscontrarsi nei pur sporadici testi in cui si affronti il tema della sessualità. Nelle narrazioni delle scrittrici migranti il sesso per lo più riaffiora nelle sue manifestazioni di devianza, ovvero nei racconti degli sfruttamenti e dei soprusi subiti da ragazze che giungono in Italia allettate da false promesse di benessere, cui, sventurate, rispondono. Una di loro è la nigeriana Isoke Aikpitanyi, che insieme a Laura Maragnani scrive Le ragazze di Lenin City (2007 ; del 2011 è invece 500 storie vere. Sulla tratta delle ragazze africane in Italia) : il racconto di temi tragici quali lo sfruttamento della prostituzione, la tratta e la violenza sulle donne si svolge senza patetismi, quasi un referto clinico; d’altra parte la gravità dei fatti non richiede che si calchi la mano: basta la registrazione. Diversi anni prima lo stesso linguaggio senza infingimenti aveva caratterizzato Princesa (1994), scritta, con Maurizio Jannelli, da Fernanda (all’anagrafe Fernandinho) Farias de Albuquerque. E l’autobiografia di un transessuale brasiliano, in “arte” Princesa, che cerca di superare una doppia dualità: di chi deve ridefinirsi in una terra straniera e di chi è nato in un corpo sbagliato e deve perciò «corr[ere] all’incanto dei desideri» per «correggere la fortuna» (così De André in una canzone intitolata proprio a Princesa); in una dinamica tetramente picaresca, per diventare chi è Fernanda deve affrontare un percorso di emancipazione doloroso e a tratti avvilente fatto di vita di strada, tossicodipendenza, razzismo e infine carcere, dove viene rinchiusa per tentato omicidio e dove scopre di aver contratto il virus dell’hiv.
Anche a prescindere da storie così acutamente nefaste, in ogni caso i calamai delle scrittrici migranti sono sprovvisti di inchiostri rosa. Senza colature retoriche e lontane anni luce dall’autolesionismo sentimentale tipico della letteratura femminile di genere, queste scrittrici migranti raccontano di donne che nell’affrontare difficoltà di vario spessore – nel migliore dei casi l’indifferenza – si dimostrano pugnaci e mai arrendevoli. Sono spesso donne che devono ricostruirsi dalle macerie del dolore, un dolore da cui scaturiscono tanto le esperienze raccontate quanto la tenacia necessaria a sconfiggerlo, come in un principio fisico per cui all’esercizio di una forza ne corrisponde una uguale e contraria.