L’ultima produzione narrativa a firma femminile ripropone una galassia policroma di figure materne. Le opere più interessanti, lungi dal tratteggiare il profilo unico e insostituibile della genitrice o rilanciare il personaggio tradizionale della matrigna, pongono al centro l’esperienza della maternità, come fa Cattiva di Rossella Milone: una storia che intreccia, in un montaggio franto, la rievocazione scontrosa del parto con la conquista faticosa di un nuovo equilibrio soggettivo e interpersonale.
Di mamme nella nostra narrativa ce ne sono sempre state tante, forse troppe: l’amore materno, possessivo e irrevocabile, ha dilagato con mille sfumature, dalle più sentimentalmente sdolcinate alle più subdolamente viscerali.
Nelle opere tardonovecentesche a firma femminile, il segno si è ribaltato, bruciando le note di melensaggine a vantaggio di una relazione matrilineare forte, capace di rompere i vincoli di dipendenza stretta dal patriarcato. Poi, nel paesaggio di millennio, quando le autrici del postfemminismo hanno cominciato a espugnare la “città proibita”, le protagoniste di una fortunata antologia di Stile Libero, Ragazze che dovresti conoscere, sono entrate con spavalda baldanza nell’universo della sessualità, liberando le pulsioni della libido, più o meno trasgressiva: poco importa se, nelle loro storie, a dominare fosse l’esuberanza sensuale o il senso frustrante di perdita, dietro le scorribande spudorate dell’eros l’ombra perversamente amorevole delle madri tendeva a dileguare.
Sono passati quasi tre lustri dalla Sex Anthology einaudiana, e nell’ultima stagione letteraria la maternità negata torna a rivendicare un ruolo centrale: a fine 2018 Garzanti pubblica Tu sei parte di me. Sin dal titolo, la raccolta di sette racconti con protagoniste donne «amiche, complici, nemiche o rivali, ma sempre madri e figlie» – come recita il sottotitolo – suona replica alle voci femminili di chi voleva affrancarsi dai legami di una mammità onnipossente e ultrapossessiva, per ribadire, nelle diverse scelte espressive, che nulla può recidere il cordone ombelicale. Non sorprende allora che le autrici italiane, affiancate dalla più celebre Clara Sànchez, disegnino un quadro di relazioni famigliari convenzionale, senza guizzi d’estro immaginoso. Le narrazioni, di lunghezza media e distesa, sono per lo più affidate alla prima persona – cinque su sette – e oscillano fra i poli opposti di focalizzazione: ora prescelgono il punto di vista della figlia che recupera il rapporto con la figura materna, dopo anni di separazione e traversie varie; ora il focus si concentra sulla genitrice e sulle sue distorte percezioni di ordinaria quotidianità. Nei testi più interessanti, l’esperienza della maternità segna l’incontro ravvicinato con l’altro da sé, che matura un senso diverso dell’io muliebre: può essere la protagonista che, in attesa della secondogenita, entra in sintonia con la prima figlia (Siamo noi la nostra casa); o una madre stanca e assonnata a cui una sconosciuta ruba, in un centro commerciale, la neonata in carrozzina (Il Giorno Zeta); o infine una single in carriera, incinta di due gemelle, aiutata da altre puerpere a superare l’orgoglio dell’autonomia autosufficiente (La donna di ghiaccio). E grazie a questo groppo di emozioni e sentimenti che il «Vecchio Me» (Simona Sparaco) scompare per lasciare il posto all’euforia contagiosa della condivisione d’affetti. Accomunati da una scrittura piana, talvolta appesantita da manierismi retorici – in Adua di Carmela Scotti le similitudini si sprecano – i racconti di Tu sei parte di me hanno soprattutto il merito, se così si può dire, di sottolineare il cambiamento culturale che, in questo decennio, ha investito le pratiche di scrittura femminile, sancendo il ritorno trionfante delle madri.
Aveva cominciato Silvia Avallone con Da dove la vita è perfetta (Rizzoli, 2017), un romanzo ambiziosamente corale, in cui il garbuglio della trama è solo apparente: la reiterazione di temi e relazioni congela il sistema dei personaggi in schemi fissi e ridondanti, sviluppando in analessi la vicenda di una ragazzetta diciassettenne che abbandonata da tutti, compreso il compagno Manuel, decide di dare in affido la piccola Bianca, salvo poi ripensarci, in extremis. A una struttura circolarmente compatta, che poco spazio lascia all’ariosità delle dinamiche d’intreccio, corrisponde una scrittura affabulante, spesso melodrammatica, non dissimile dalle scelte stilistiche d’esordio. Ma qui lo squallore della periferia bolognese, la tipologia sfigata del gruppo dei giovani e soprattutto l’omaggio all’amor materno totalizzante e risolutore fanno rimpiangere l’energia rappresentativa con cui Avallone aveva schizzato, sullo sfondo dell’altoforno di Piombino, il profilo spiazzante di due adolescenti, “amiche del cuore”, in rotta di collisione con il mondo adulto.
Diversa ma analoga l’intonazione di Donatella Di Pietrantonio che, lungo un percorso narrativo a dominanza femminile, giunge, dopo Mia madre è un fiume, al successo conclamato con L’Arminuta. Il libro vincitore del Campiello 2017, oggi riproposto in tascabile (ET 2019), evoca, sullo sfondo opposto e complementare della miseria contadina e dell’ipocrisia provinciale piccoloborghese, la Bildung di una tredicenne, di cui non viene mai pronunciato il nome: vale solo l’appellativo che ne racchiude la vicenda, l’arminuta, ovvero la ritornata. Nell’andirivieni fra due case e due madri, non c’è molto da scoprire o imparare, anzi: a salvarla, alla fine, più che la complicità sororale, è un sano istinto di fuga davanti al pianto di un fratello neonato, conosciuto in una nuova famiglia, la terza, in cui il perbenismo domestico poggia sulla severità di un padre ottuso e di una madre desolantemente succube che è meglio perdere che ritrovare.
Quasi in replica, anche Margherita Oggero racconta la storia di una doppia maternità: riversate in televisione le avventure investigative della prof Baudino, in Non fa niente la scrittrice torinese sceneggia, dapprima sullo sfondo cupo del nazismo – uno scenario ormai inflazionato – la vicenda di Esther, giovane donna di spirito energico e intelligenza affinata. Abbandonata dalla madre e poi osteggiata da una suocera veterosabauda, riscatta l’istinto oblativo della propria maternità impossibile, chiedendo a Rosanna, una contadina ignorante, bella e sensuale, di concepire un figlio per esaudire il desiderio di paternità del marito, l’ingegner Riccardo. A confortare una simile scelta, il modello esemplare del testo sacro: «Come nella Bibbia fece Agar per Abramo e Sara». Così nasce Andrea, un maschio «bello e in carne, tre chili e due etti di carne e ossa, braccia e gambe pienotte, un bambino che appagava le più ottimistiche aspettative» della famiglia allargata; e tutto fila al meglio. E vero che l’uomo sconta il tradimento biblicamente concordato, morendo pochi anni dopo di cancro, ma il figlio di due madri cresce all’insegna di un sentimento pacificato di cura, che dissolve ogni contraddizione pubblica e privata. A governare la progressione d’intreccio, che si distende lungo un cinquantennio di storia italiana ed europea, è il ritornello che dà il titolo all’opera, “non fa niente”: può succedere di tutto, sull’orizzonte collettivo o dentro l’intimità più riposta, ma, appunto, nulla può rompere il legame di complicità rassicurante fra queste due figure femminili che, pur nell’antagonismo sociale e culturale, si corrispondono a tal punto da vanificare nelle lettrici ogni moto di empatia o anche di dubbio inquieto.
A corroborare, in controcanto, il dilagante ritorno della mammità sono due libri editi nel 2018, Matrigna di Teresa Ciabatti e Cattiva di Rossella Milone.
Dal titolo solo apparentemente consonante, le due opere pongono al centro del racconto la relazione matrilineare fra genitrice e figlia, ma la dispiegano in senso opposto, a partire dalla scelta dell’omodiegesi, a cui entrambe s’affidano. In Cattiva a narrare è una giovane donna che rievoca il parto e i primi mesi di difficile convivenza con la neonata; in Matrigna al contrario, la voce narrante appartiene a Noemi, traduttrice indipendente, chiamata ad assistere la madre vedova e un po’ fuori di testa.
Ciabatti replica il paradigma compositivo che aveva sancito il successo di La più amata: là il confronto con una figura paterna, tanto più adorata quanto più imperiosa e opprimente, era cadenzato sulle note morbose dell’autofiction filiale e la narrazione abile e spregiudicata funzionava grazie all’ironia corrosiva di una memoria infantile, narcisistica e feroce. Nel passaggio di editore, da Mondadori a Solferino, il meccanismo si inceppa: non cala la «voluttà di rendersi antipatica» (Petruzzi, Tirature ’18), semmai si rafforza nell’esasperazione acida dei toni con cui è rappresentato il conflitto matrilineare. Troppo facile e scontata la dinamica antagonistica fra le due protagoniste per reggere l’intelaiatura del racconto: alla fine, chi legge poco cura le paturnie della narratrice, devastata dai soliti e banali sensi di colpa, e parteggia per la madre, capace di rispondere al lutto per la scomparsa dell’adorato figlio maschio con il desiderio vitalistico del delirio compensativo.
Più intrigante Cattiva, che solo alla fine scioglie l’equivoco del titolo: dapprima riferito alla figura materna, come suggerisce la voce narrante, «io sono una persona buona quando l’allatto, sono cattiva quando voglio fuggire», trova autentica rifrangenza di senso nella conclusiva attribuzione alla bimba appena nata: «Allora sarà una figlia cattiva». In realtà, quell’aggettivo funziona in antifrasi a suggerire l’inevitabile distacco fra genitrice e creatura: solo l’abrasione dell’idea deleteria che «tu sei parte di me» consente di riplasmare lo spazio quotidiano di crescita in pienezza di libertà e d’affetti.
Rossella Milone narra, sui ritmi di un montaggio a sequenze alterne, l’esperienza di diventare madre, intrecciando i tempi in diretta del parto al racconto dei primi mesi dello svezzamento, entro un reticolo famigliare composto da un marito intelligente, mai banalmente comprensivo, cui si affiancano una «mamma lontra un po’ cecata», un papà dal sorriso buono, un fratello lontano ma vicinissimo. La scrittura, a volte sintetica e brusca, a volte cadenzata sulle visioni rammemoranti, capaci di riscattare anche lo scontato scenario partenopeo, accompagna il percorso di autodisvelamento dell’io femminile, nella conquista faticosa dell’autonomia che brucia l’istinto di onnipotenza protettiva connaturato alle specie animali: «Quando mia figlia piange io so di essere un animale e corro. Quando mia figlia piange io la devo salvare». Nello scioglimento della vicenda solo dopo una fuga liberatoria sarà possibile dare, finalmente, un nome alla piccola: e Lucia si appresta a crescere, pronta a diventare una figlia “cattiva”, non troppo dissimile da chi la sta allattando e ogni tanto scappa nelle ville diroccate vicine al mare.