Quattro libri pubblicati tra il 2017 e il 2018, quattro analisi diverse eppure convergenti che raccontano la canzone italiana dell’ultimo secolo. Usando bisturi e pinze, gli autori ne dissezionano la lingua e la metrica, ne analizzano le figure retoriche, definiscono un possibile canone novecentesco, perché la canzone va presa sul serio e collocata nel posto che le spetta all’interno della cultura italiana, tenendo sempre presente che «non è poesia messa in musica».
Li conosco, i vostri pregiudizi sulla canzone. Voi la prendete sottogamba. E se vi informassi che in certi testi di Mogol, tanto per dire, è presente l’aposiòpesi? Ah, non sapete cosa rispondere! C’è l’aposiòpesi, cari miei. Una figura retorica coi fiocchi. Come faccio a saperlo? L’ho letto in un libro scritto da due eminenti linguisti, Vittorio Coletti e Lorenzo Coveri, Da San Francesco al rap: l’italiano in musica, Gedi (nona uscita della serie «L’Italiano, conoscere e usare una lingua formidabile», in abbinamento con «la Repubblica» e altri quotidiani, 2017).
Il libro è costituito da tre capitoli principali. Il primo, dovuto a Coletti, è una disamina del rapporto tra parole e musica nella cultura italiana dalle origini a oggi, e non riserva particolari sorprese: anche qui si sottolinea tra l’altro che «la poesia nasce […] in stretta correlazione con la musica» (affermazione molto ripetuta, utilizzata da qualcuno per concludere che un testo cantato è di per sé più “poetico” di un testo scritto).
Nei capitoli successivi, dovuti a Coveri, dopo una rapida analisi di tre canzoni «ancien régime» (questo il termine usato dallo studioso), Addio mia bella addio, O’ sole mio e Parlami d’amore Mariù, si passa subito al 1958, al «folle volo» di Modugno a Sanremo, prevedibilmente individuato come uno spartiacque epocale; la novità è che invece di definire il testo di Franco Migliacci «surrealista», come d’uso, Coveri (avrà bene le sue ragioni) lo definisce «futurista». Il rituale richiamo a Marc Chagall, invece, viene puntualmente rispettato. Futurista, surrealista o divisionista che sia, per Coveri Volare «resta la testimonianza indelebile di un desiderio di riscatto (dall’arretratezza, dalla povertà, in una parola dalla storia)». Nei paragrafi seguenti si allineano analisi di testi più o meno celebri della canzone italiana (mai riportati, purtroppo, immagino per problemi di copyright), da Il cielo in una stanza di Gino Paoli (1962) a Parole di burro (2000) di Carmen Consoli, la cui scrittura «letteraria e ricercata» annota Coveri «nel tempo diventerà sempre più erudita. ..». Un paragrafo a parte è dedicato alla canzone in dialetto; poche pagine, rimpolpate però (a differenza delle altre) da un lungo elenco di artisti in dialetto che mi ha fatto pensare a quello delle navi dell’Iliade. Dopo un percorso zigzagante tra esegesi di testi rap e informazioni sui termini più ricorrenti nelle canzoni di Sanremo, il libro si conclude a sorpresa con un capitolo intitolato «Giocare con l’italiano»: il lettore deve rispondere a una serie di domande imperniate su testi cantati di vario genere. Mi viene in mente Renzo Arbore: «Sì, la vita è tutto un quiz…». La canzonologia non è da meno.
*Simone Lenzi (Livorno, 1968) non è un accademico: canta e scrive canzoni nel gruppo Virginiana Miller. Il suo libro uscito da Marsilio nel 2017, Per il verso giusto. Piccola anatomia della canzone, ha il carattere di un agile trattatello didascalico, che si propone di illustrare al pubblico la natura di questo prodotto popolare. «Una canzone è fatta di parole e musica, certo. Ma non è poesia messa in musica. E non è musica con l’aggiunta di qualche orpello di parole» dichiara l’autore nell’Introduzione. Seguono due affermazioni perentorie: «Tutte le canzoni sono canzoni d’amore» e «Tutte le canzoni sono orecchiabili». Tesi eterodosse e provocatorie, che non hanno però un seguito nel corso del libro (o forse mi è sfuggito).
A differenza del lavoro di Coletti e Coveri appena citato, in quello di Lenzi si dà spazio agli aspetti musicali e anzi musicologici, con corredo di spartiti. Parlando di «cinetica della melodia», Lenzi cita la celebre Smoke Gets in Your Eyes, e – analizzandone la melodia riportata sul pentagramma – parla di «ricciolo di fumo», anzi di «due spirali di fumo che, attorcigliandosi, si inseguono nell’aria». E se il titolo fosse stato Rain Gets in Your Shoes, o Wind Gets in Your Coat? Nessun problema: quel fumo non avrebbe avuto difficoltà a trasformarsi in scroscio o in folata, riscontrabili nota per nota.
Musicologia a parte, il libro di Lenzi presenta i caratteri tipici del suo genere: da una parte il tono “scanzonato”, arguto, spiritoso, che ricorda quello di certi documentari sugli animali, dall’altra – per contrasto – una raffica di citazioni “colte”, che vanno da Platone a Athanasius Kircher ad Agostino d’Ippona. Sdrammatizzata e coturnata, alleggerita di qua, appesantita di là, la canzone si barcamena come può sotto i ferri dell’anatomista.
*Nell’Appendice a Il romanzo della canzone italiana (Einaudi, 2018) Gino Castaldo, decano dei giornalisti musicali italiani, dopo averci ricordato che «in passato musica e poesia non erano affatto disgiunte» e dopo aver sottolineato la specificità della canzone, conclude che «non ci sarebbe nulla di scandaloso nell’affermare che i maggiori poeti della seconda metà del Novecento in Italia sono stati De André, Lucio Dalla, De Gregori e Battiato».
Cosa succederebbe, mi chiedo, se Castaldo scrivesse sulla «Gazzetta dello Sport» che le più grandi squadre di calcio del secondo Novecento sono state la Pro Patria, la Spal e la Reggina? Ma la canzone non è il calcio: il giornalista musicale può ergersi a critico letterario, senza che i suoi lettori facciano una piega.
Critico, d’altra parte, è un termine improprio quando si parla di canzoni: l’attività critica, infatti, implica un giudizio – possibilmente argomentato – su ciò di cui si occupa. Ma nel Paese dei Cantautori, nel «romanzo della canzone italiana», il Quartetto Cetra e Natalino Otto sono «giganti» (anche Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci sono «due giganti»); Gorni Kramer è «geniale»; il juke-box un «geniale strumento inventato in America»; Umberto Bindi un «genio innovatore»; Guccini è «un genio» e basta; Mi sono innamorato di te di Luigi Tenco è «geniale»; Vecchio frack di Domenico Modugno è invece «mirabile», «una delle più belle canzoni di sempre»; Il poeta di Bruno Lauzi è un «capolavoro assoluto»; Io che amo solo te di Sergio Endrigo è «uno dei capolavori assoluti della canzone italiana». Nella sua veste di critico letterario, Castaldo dichiara che Se telefonando inizia con «due versi straordinari»: «Lo stupore della notte / spalancata sul mar» (per poi «zoomare su un incontro da brividi, istantaneo e tellurico»).
Peccato che l’autore del testo, Maurizio Costanzo, abbia tralasciato la poesia e si sia dedicato ad altro: ancora due o tre versi straordinari, e avrebbe potuto risultare uno dei più grandi poeti del Novecento.
*Ne L’italiano della canzone (Carocci, 2018) Luca Zuliani, docente di Linguistica nell’università di Padova e autore, tra l’altro, di un precedente Poesia e versi per musica. L’evoluzione dei metri italiani (il Mulino, 2009), si occupa soprattutto degli aspetti metrici della canzone, e in particolare delle rime. L’argomento non è nuovo: il fatto che gli autori italiani di versi per musica debbano affrontare problemi tecnici come la scarsità di parole tronche nella nostra lingua ricorre tanto nelle interviste agli artisti quanto nell’ormai abbondante letteratura sulla canzone. Zuliani analizza a fondo la questione e mette in rilievo – tra l’altro – il sempre più frequente ricorso alla riaccentazione delle sdrucciole (musica) come rimedio alla penuria di ossìtone. Suo merito è la capacità di approfondire il problema per così dire “dall’interno”, assumendo il punto di vista del paroliere, e di storicizzarlo evitando i cliché della critica (giornalistica e accademica). Il rapporto tra canzonetta e tradizione melodrammatica, per esempio, che spesso viene semplificato e banalizzato, emerge qui in tutta la sua complessità: il lavoro del moderno paroliere non è meccanicamente “figlio” di quello del librettista ottocentesco. Analogie e differenze vengono sottolineate, argomentate e opportunamente illustrate con esempi, senza che mai il discorso si appesantisca. Del “divorzio” tra poesia e musica nella nostra letteratura – argomento su cui in genere si sorvola – l’autore dà puntualmente conto fornendo esempi e motivazioni; anche quando mette in campo accostamenti da brivido come quello tra una poesia di Petrarca, una di Montale, il libretto del Nabucco di Verdi e il testo di Quando quando quando di Tony Renis, riesce a mantenere un distacco scientifico che è merce rara nella saggistica sulla canzone, e a dare la sensazione che quei raffronti siano necessari e opportuni non per cercare provocazioni o per dimostrare una certa tesi, ma per comprendere spassionatamente le differenze oggettive, tecniche e insieme culturali, tra due modi di far versi in italiano.
Un altro punto tra i molti a favore di questo libro è la cura con cui i testi vengono riportati. In genere, nella letteratura critica degli ultimi anni, quelli delle canzoni vengono trascritti, da giornalisti e studiosi, senza un criterio preciso, spesso con interventi arbitrari (e non dichiarati) sulla divisione in versi e su altri aspetti testuali, o addirittura con errori marchiani. Zuliani – da serio filologo – precisa opportunamente, nell’Introduzione, i criteri che orientano le citazioni.
Questo piccolo libretto è un contributo importante – mi pare – verso una riflessione sulla canzone capace di “prenderla sul serio” senza “nobilitarla” inutilmente, capace di prospettare i suoi problemi “dall’interno”, riconoscendole il posto che le spetta, né più ne meno, nel quadro della cultura di oggi.