Secondo King, lo Shining di Kubrick era fondamentalmente sbagliato, Burgess temeva che Arancia meccanica creasse un fraintendimento che lo avrebbe perseguitato fino alla morte, e la prima versione di Blade Runner aveva provocato in Dick reazioni bellicose, quasi fisiche. Il rapporto tra letteratura e cinema è sempre stato burrascoso, e se è vero che una delle parti più manipolate dai produttori è il finale, l’esito di questi amori contrastati e di queste manipolazioni ci regala emozioni sempre nuove lasciandoci, nel finale, meno tristi e meno solitari.
Quando un’opera letteraria vede la luce, all’interno del suo dna è già presente il gene del tradimento che segna – immanente – il suo destino. Il primo tradimento, il più ordinario, è quello che si compie nel momento della sua trasposizione in un’altra lingua, perché ogni traduzione è già in sé un tradimento. Poi abbiamo quello contenuto nel rifacimento dell’opera in altri contesti artistici, siano essi il teatro, il fumetto, il fotoromanzo, la televisione o, ancora meglio, il cinema. Mentre il primo tradimento è ammantato comunque da un alone di cura e rispetto (da parte del traduttore) ma spesso anche di ineludibile violenza (semplicemente dovuta alla complessità di esprimere un concetto assente, o molto differente, in un’altra lingua), la trasposizione cinematografica, talvolta migliorativa, è molto più frequentemente irrispettosa e brutale. L’opera originale è anche alla mercé di registi o produttori senza scrupoli che, quanto più il budget investito è cospicuo, la dilaniano e la rivoltano come un calzino usato per il soddisfacimento del pubblico pagante. In queste operazioni si evidenzia in modo particolare la fragilità del finale di un testo letterario, la parte molle su cui spesso si avventano gli utilizzatori finali delle altre arti invasi da raptus creativi.
Metafora perfetta di questi tradimenti è il romanzo Triste, solitario y final di Osvaldo Soriano. Il suo racconto prende vita da Il lungo addio di Raymond Chandler. Soriano infatti immagina di intervistare il detective Philip Marlowe, ormai anziano, e di incalzarlo nella ricostruzione della vita e della caduta nell’oblio di Stan Laurei, inoltrandosi nel mondo della Hollywood cinematografica dei decenni precedenti. E il titolo di questa sua versione di quegli anni, Soriano Io estorce da un passaggio famoso del libro di Chandler. Facendo ciò, egli ne compie un involontario tradimento che risale all’intervento di Flora W. De Setaro, autrice della traduzione in spagnolo del testo originale fatta nel 1956. «I said it when it was sad and lonely and final» diventa nella traduzione «Se lo dije cuando era triste, solitario y final», con il “final” inglese che avrebbe dovuto essere tradotto come “definitivo” e non come “finale”, come nota Simona Micali nel suo saggio Parodie dell’hard-boiled nel romanzo postmoderno («Between», n. 12, novembre 2016). Dettagli, forse, ma il testo di Soriano ci conduce direttamente nell’immenso mondo di mezzo che esiste tra letteratura e cinema, e che si nutre di questi contributi originando ibridi indefiniti e talvolta meravigliosi.
In modo particolare è il cinema che, fin dalle origini, si alimenta in modo sistematico e cannibalesco di apporti provenienti dalla letteratura, sebbene le due arti siano drasticamente differenti, strutturalmente e soprattutto nella fruizione da parte del lettore/ spettatore. Una prima differenza tra i due media, individuata da Giorgio Bertone (The end. Il finale dei film, il melangolo 2014), si riscontra sul ricordo che l’opera lascia nella memoria del fruitore. Se per il lettore gli inizi sono ciò che ricorda con più nitidezza, per lo spettatore cinematografico – di converso – il ricordo si concentra sul finale. Probabilmente, incide in modo predominante la differente modalità di fruizione. Il lettore può decidere in completa autonomia quando intraprendere o interrompere la lettura e il momento in cui la inizia è ragionevolmente quello che ricorda meglio. La fruizione dello spettatore in sala è circoscritta e continuativa, vincolata a un arco di tempo ben definito, e l’essere trascinato dello spettatore nel climax della storia aumenta istante dopo istante raggiungendo necessariamente l’apice con lo scioglimento finale della storia. Quindi, un finale riuscito è obiettivo necessario più per il cinema che per la letteratura. Nella realizzazione di un film interviene indiscutibilmente un numero maggiore di artefici rispetto all’autore del libro. Soggettisti, sceneggiatori, registi ma soprattutto i produttori, e ognuna di queste figure professionali ha un suo diritto di parola sull’argomento. La conclusione di un film è materia assai delicata e spesso le produzioni organizzano segrete proiezioni di finali alternativi per un pubblico selezionato e chiamato a esprimere la propria valutazione, le cosiddette sneak previews, per cercare di individuare quale tra essi sia il più convincente e coinvolgente. Versioni alternative che talvolta compaiono come golosi contributi extra nelle versioni home video, ma più spesso restano ammantate nel mondo opaco della mitologia cinematografica. Rispetto al libro, il cinema predilige il finale a lieto fine e, di conseguenza, l’adattamento cinematografico di un romanzo non si fa scrupolo nel modificarlo energicamente se esso non ottempera a questo auspicio radicato da parte del pubblico. I finali del cinema sono quindi una questione delicata e complicata in relazione alle modificazioni apportate ai testi di partenza e necessiterebbero di una vasta analisi, perciò ricorderemo solo alcuni casi in un certo senso paradigmatici.
Un maestro del cinema come Stanley Kubrick non ha mai lesinato nel trarre ispirazione da testi letterari e, al tempo stesso, è anche uno dei più fulgidi esempi del tradimento del testo di partenza, tanto da attirarsi frequentemente le ire degli autori coinvolti, in particolare per Shining (1980) e Arancia meccanica (1971). Secondo Stephen King, ciò che «è fondamentalmente sbagliato nella versione del suo racconto realizzata da Kubrick è il fatto che è un film di un uomo che pensa troppo e sente troppo poco; ed è per questo che, nonostante tutti i suoi virtuosismi, non ti prende mai alla gola nel modo in cui un vero horror dovrebbe». Lo scrittore disdegnava a tal punto la versione kubrickiana del suo romanzo da produrre nel 1997 una miniserie televisiva, fedelissima all’originale ma tanto prolissa e noiosa da non avere successo e cadere presto nel dimenticatoio.
Non da meno Anthony Burgess mostrò la sua insoddisfazione affermando che «il film crea nei lettori del libro un fraintendimento sul tema che tratta, un malinteso che mi perseguiterà finché vivrò». A questi due film e alle rimostranze feroci dei due scrittori sono ovviamente legati indissolubilmente i cambiamenti kubrickiani dei finali. Stephen King nel suo libro raccontava che il piccolo Danny affrontava il padre Jack, riuscendo a sopravvivere insieme a sua madre, mentre l’hotel esplodeva per la mancata manutenzione del boiler, causando la morte di Jack. Una sorta di finale tranquillizzante che Kubrick mantiene facendo morire Jack in modo differente, non prima di aver immaginato numerose conclusioni tra cui scegliere e aver immortalato in un raccapricciante fermo immagine il ghigno congelato di Jack Nicholson. Anche se la sua vera risoluzione è una suggestione visiva non contenuta nel romanzo, la vecchia fotografia in bianco e nero datata 1921 di un ballo avvenuto all’Overlook Hotel in cui, a mano a mano che la cinepresa zooma sui partecipanti, a sorpresa riconosciamo il nostro satanico protagonista, come se la sua presenza aleggiasse da sempre tra quelle mura.
Per Arancia meccanica è accaduto qualcosa di curiosamente differente, non così frequente in letteratura. Infatti Burgess, in una prefazione del 1987, aveva accusato l’editore americano di averlo costretto a eliminare un capitolo, presente invece nella versione inglese. Anche il regista si è così trovato ad affrontare il tema del doppio finale, optando infine per la versione più tronca che pone l’accento sulla natura dell’uomo e il suo rapporto con il bene e il male.
Un altro caso famoso di manipolazione del testo che ci ricollega a quanto detto precedentemente sulla necessità dell’happy end nel cinema, arriva da Colazione da Tiffany (1961). La scena finale del bacio sotto la pioggia tra Holly e il suo amato in un vicolo di New York, che fa presagire un futuro insieme, nel libro non c’era proprio, anzi esso terminava con la partenza della donna per il Sud America. Inoltre, Capote aveva richiesto alla Paramount che il personaggio venisse interpretato da Marilyn Monroe e invece divenne il ruolo che consacrò Audrey Hepburn al grande cinema.
Saltando dalla commedia a un genere molto particolare come la fantascienza, ci piace ricordare due grandi film che hanno rimestato a piene mani nella letteratura. Il primo è Blade Runner, in cui il regista Ridley Scott e i suoi sceneggiatori hanno creato uno straordinario mondo futuribile partendo dal breve racconto Il cacciatore di androidi di Philip K. Dick del 1968. Prima ancora dell’ingresso nel progetto di Scott, il produttore aveva commissionato una sceneggiatura che provocò nello scrittore istinti molto bellicosi tanto da arrivare a minacciarlo fisicamente. Comunque, nonostante il grande successo di pubblico, il film è uscito nel tempo in diverse versioni nelle quali il finale subiva sempre una qualche modificazione. Curioso anche il destino di Who Goes There?, un semisconosciuto racconto di fantascienza del 1938 ambientato sulla banchisa polare e confezionato dal maestro del genere John W. Campbell, per anni direttore della miliare fanzine «Astounding Science Fiction» per gli appassionati della science fiction. Il libro ha generato diverse pellicole cinematografiche; la prima realizzata nel 1951 col titolo La cosa da un altro mondo da Christian Nyby, meglio conosciuto come il montatore dei film di Howard Hawks che comunque in questo lavoro ci ha messo mano, seppur non accreditato. Questo film ha ammorbidito il tono horror e nerissimo del racconto originale in cui “la cosa” aliena assumeva le fattezze delle persone con le quali veniva a contatto, generando un’incredibile inquietudine. Nel film, invece, essa assumeva una forma antropomorfa ma con un corpo assimilabile a un vegetale, che gli è valsa la definizione di “carotene”. Nel 1982 John Carpenter firma un remake fedele al testo d’origine, La cosa, che recuperava l’ambiguità della creatura che modificava incessantemente la sua forma e il finale aperto del testo di Campbell, operando simultaneamente un tradimento rispetto al precedente filmico.
Un altro curioso e corposo esempio d’interazione tra cinema e letteratura, che spesso viene sottovalutato o proprio dimenticato, è quello che coinvolge i più famosi capolavori animati della Disney. Gli sceneggiatori della casa del topo hanno – fin dai primordi – saccheggiato la letteratura favolistica. Nessuno tra i nerissimi racconti partoriti dai fratelli Grimm, da Hans Christian Andersen, da Victor Hugo, da Giambattista Basile, o lo stesso Pinocchio di Collodi, si è salvato da un sostanzioso taglia e cuci. Le sorelle di Cenerentola nella fine dell’originale letterario venivano punite da uno stormo di colombe che cavavano loro gli occhi e la Sirenetta non riusciva a far innamorare di sé il principe. In Biancaneve e i sette nani la morte della malvagia regina era rapida e indolore, mentre nella versione dei Grimm arrivava dopo che la regina aveva indossato un paio di scarpe di ferro rovente e aveva ballato alla festa fino a stramazzare esanime. Ancora più radicale l’intervento sul racconto del 1634 Sole, Luna e Talia di Basile che ha prodotto La bella addormentata nel bosco. Nel racconto di Basile, Talia, la principessa addormentata, veniva di fatto stuprata da un re, e da questa violenza nascevano Sole e Luna, ma il “lieto fine” arrivava in modo decisamente più complicato.
In sostanza, tra Cinema e Letteratura c’è un’ininterrotta danza tra tradimento e fedeltà che dura da oltre un secolo. Un andamento talvolta armonico e fluido, molto più spesso faticoso e conflittuale, ma sempre fecondo e che ci regala emozioni sempre nuove lasciandoci, nel finale, meno tristi e meno solitari…