Teresa Ciabatti, la voluttà di rendersi antipatica

L’ironia graffante sembra la cifra stilistica peculiare dei libri della Ciabatti. Il nodo problematico è quasi sempre la relazione padre-figlia, una condizione che affonda le radici nel vissuto autobiografico della scrittrice. Nel mimare il punto di vista della figlia “più amata” arrogante e capricciosa, la Ciabatti non ricerca l’empatia del lettore, anzi ne sollecita il disappunto irritato. Sullo sfondo, tuttavia, si profila una vena labile di denuncia civile nel tratteggio delle trame oscure che attraversano la storia italiana degli ultimi decenni del Novecento.
 
Storie familiari e geografia della memoria sembrano le chiavi di lettura più appropriate dei cinque romanzi finalisti al premio Strega 2017. Una geografia dai confini dilatati, che abbraccia mezza Italia, da Napoli a Milano passando per la capitale, dai monti al mare, dalla Val d’Aosta alle coste della Maremma. E proprio in Maremma è ambientato il libro che, tra polemiche e delusioni, ha sfiorato il premio ed è arrivato al secondo posto, La più amata di Teresa Ciabatti (Mondadori 2017), il romanzo che, tra fiction e autobiografia, intende ricostruire l’esperienza di formazione nonché la storia familiare dell’autrice. La vicenda si sviluppa, infatti, sullo sfondo dello scenario preferito delle storie della Ciabatti, lungo la tratta da Roma a Grosseto, dalla capitale alle coste maremmane, località turistiche frequentate dall’alta società romana, ma anche provincia velenosa, terra d’origine di una borghesia ambiziosa e arrivista, convinta di partecipare da una posizione defilata agli intrighi di potere.
Certo è, tuttavia, che nella Ciabatti la geografìa della memoria scarta ogni concessione al rimpianto elegiaco del passato e, punta, piuttosto, con coraggio sulla demistificazione ironica del proprio vissuto. Un taglio, peraltro, che ha sempre contraddistinto i romanzi e gli scritti dell’autrice toscana: ne è testimonianza persino l’articolo recentemente apparso sul «Corriere della Sera» in cui la Ciabatti fa il verso a se stessa e, in barba al fair play d’obbligo in ogni competizione, ironizza sulla frustrazione provata per la sconfitta al premio Strega e non ha pudore a sfogare l’astio invidioso nei confronti del “nemico” vincitore. Anche i titoli della sua produzione narrativa oscillano tra l’ironia nei confronti del melodramma adolescenziale (Adelmo, torna da me) e il sarcasmo sottile che ispira revocazione di un’età felice e privilegiata, sistematicamente rinnegata dallo sviluppo delle storie (I giorni felici, La più amata). Infatti, è proprio l’adozione di una prospettiva ironica e graffiarne, con punte di autolesionismo ardito, a costituire la cifra stilistica originale e insieme l’aspetto più intrigante della narrativa della Ciabatti, in cui elementi di fiction e sostrato autobiografico si compenetrano in un gioco ambiguo. Forse sarebbe ingeneroso affermare che la scrittrice ha in fondo scritto sempre lo stesso libro, ma è anche innegabile il riscontro di alcune tematiche ricorrenti, in vario modo radicate nell’esperienza personale: la rappresentazione di giovani protagoniste arroganti e viziate, alla cui ottica, spesso impietosa verso se stesse e il mondo che le circonda, è affidata la narrazione, la raffigurazione di scenari familiari borghesi, lacerati da tensioni interne, la mitizzazione destinata a crollare della figura paterna e la focalizzazione sulla relazione privilegiata padre-figlia.
Fa in parte eccezione rispetto a tale contesto il romanzo d’esordio, per certi versi il più fresco e spigliato della scrittrice maremmana, il già citato Adelmo, torna da me (Einaudi 2002), edito non per nulla da Einaudi Stile Libero. Storia di un’estate al mare e nello stesso tempo di un percorso di crescita, tra primi amori e malumori adolescenziali, il racconto è affidato a un io narrante, la quattordicenne Camilla, figlia unica di una famiglia dell’alta borghesia romana, proprietaria di una villa con piscina – guarda caso – a Orbetello. Di scena, insomma, il paesaggio che farà da sfondo all’ultimo romanzo, su cui si muove, tuttavia, un’umanità quanto mai varia: borghesi ridicoli e superficiali per la loro dabbenaggine sciocca e presuntuosa, ragazze del paese dalla sessualità disinvolta e famiglie modeste alle prese con le miserie e le difficoltà della vita quotidiana nel contesto grigio e squallido dei caseggiati popolari. Un universo variegato, rappresentato attraverso lo sguardo spregiudicatamente ironico della giovanissima protagonista, che sa farsi beffe dei borghesi adulti del suo mondo, ma anche prendere in giro le ubbie dell’età, tra fantasie melodrammatiche e vittimismo esibizionista, con tanto di suicidi inscenati, racconti falsi di genitori prossimi alla morte e denunce menzognere di presunte violenze subite. Ne risulta una prospettiva “cattiva” che disincentiva l’immedesimazione empatia del lettore, anzi ne sollecita il distacco critico sino a spingerlo all’irritazione infastidita.
Su Camilla non incombe, però, minacciosa nessuna figura di padre invadente, anzi le ruota attorno un universo familistico quasi esclusivamente femminile, per nulla idealizzato, per la verità, composto di madre svampita, nonna troppo accondiscendente, governante ghiottona, amiche idiote della mamma e ragazzine sciocche. I personaggi maschili, dal padre architetto della protagonista allo psichiatra illustre, genitore della sua amichetta, sono figure deboli e inette, sottoposte alla satira beffarda dell’io narrante. Non che i personaggi femminili facciano una figura migliore, tanto più che la narratrice li osserva da una prospettiva tutt’altro che complice e solidale, anzi incline al disincanto lucido. L’alternativa per Camilla potrebbe essere l’umanità semplice e genuina delle case popolari, dove abita Adelmo, il suo primo amore, nei confronti del quale, tuttavia, l’attrazione curiosa e affettuosa si trasforma facilmente, al minimo disappunto, in spirito irritante di ripulsa. Anche in questo caso la Ciabatti riesce a immedesimarsi nei panni della ragazzina volubile e capricciosa e, lungi dall’idealizzarne l’innocenza ingenua, ne mette a nudo piuttosto l’ipocrisia meschina.
Se la dimensione della paternità risulta marginale nel romanzo d’esordio, diviene, invece, passaggio ineludibile, nodo centrale difficile da sciogliere nelle tappe successive della narrativa della scrittrice, da I giorni felici (Mondadori 2008) a Il mio paradiso è deserto (Rizzoli 2013). Ecco che, la figura paterna, ingombrante e invasiva sul piano affettivo, mitizzata nell’infanzia e progressivamente demistificata lungo il processo di crescita, condiziona il percorso di formazione delle protagoniste femminili, trasformandone la presunzione arrogante in consapevolezza del proprio sostanziale fallimento. Sullo sfondo la crisi della famiglia italiana tradizionale, emblematizzata dall’indebolimento progressivo del ruolo di capofamiglia, indiscutibilmente incarnato ancora dalla figura paterna.
Una vicenda vista dagli occhi della figlia prediletta, che, dopo aver giocato sporco sulla propria condizione di privilegio, manifesta inevitabilmente la delusione conseguente. Ne risulta segnato irrimediabilmente il percorso in cui la solita ragazzina capricciosa e arrogante si trasforma in una donna anaffettiva e malevola. La narrazione in terza persona de I giorni felici, per esempio, è condotta dalla prospettiva della protagonista femminile, Sabrina, figlia prediletta di Riccardo Mannucci, funzionario Rai in carriera, ambizioso e mediocre. Di nuovo la Ciabatti non fa sconti al personaggio femminile, ne riporta l’ottica antipatica e proterva, ne rivela la compromissione complice con l’universo borghese da cui pure cerca di prendere le distanze, non ne nasconde la cattiveria cinica. Sabrina è l’amante del cognato, fa litigare suo fratello e la moglie, odia i nipotini viziati e capricciosi: nella sua vicenda l’anaffettività trionfa nel denunciare senza remore l’inesorabile tramonto della famiglia italiana anni settanta, quella che certi sceneggiati televisivi dell’epoca si sono sforzati di rappresentare. Del resto l’esperienza di sceneggiatrice televisiva dell’autrice lascia più di una traccia nella tecnica di raffigurazione di ambienti e personaggi. Dall’archivio Rai sono attinte, inoltre, le note biografiche relative ai personaggi del mondo dello spettacolo e della cronaca che compaiono in appendice ai capitoli della storia della famiglia Mannucci: biografie brevi di personaggi che, vissuto un breve periodo di celebrità, o si adattano alla normalità dimessa, o finiscono male, quasi a replicare il destino della protagonista Sabrina. Sullo sfondo la storia d’Italia negli ultimi decenni del XX secolo, considerata attraverso un’angolatura tutto sommato originale: la rassegna dei programmi televisivi più seguiti, dallo Zecchino d’oro a Chi l’ha visto.
Il passo successivo per la Ciabatti appare scontato e già implicito nelle premesse: ricucire i pezzi di racconto autobiografico sommersi nei romanzi e optare dichiaratamente per una sorta di “autofiction”, come è stata definita, che rielabora in chiave romanzesca elementi e dati del vissuto personale e li contestualizza nella cronaca familiare. A far da collante e insieme a imporsi come attrattiva intrigante del libro è la scelta di sovrapporre il modello dell’autobiografia a quello dell’inchiesta. La ricostruzione della vita dell’autrice nel contesto della storia familiare non ha semplice funzione documentaria o di scavo intimistico: l’idea chiave che ispira la ricerca autobiografica di Teresa è quella di far luce e chiarezza sui misteri che avvolgono la figura paterna, di sciogliere i nodi emblematici che avviluppano l’archetipo di tutte le figure di padri ingombranti e invadenti che popolano la sua narrativa. Risolvere il mistero del padre benefattore o malfattore, amato da tutti eppure temuto, ricchissimo ma finito in rovina, è anche fare i conti con se stessa: «Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho sette anni, e ho appena scoperto che mia nonna porta la parrucca», «Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho undici anni e oggi è il mio primo giorno di scuola media», «Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni, mio padre è morto da ventisei, mia madre da quattro. Mio fratello mi evita, tu per me non sei mia sorella, dice, hai sempre pensato solo a te stessa. Mi considera una squilibrata e forse lo sono: agitata, sospettosa, inquieta, anaffettiva». Il motivo dell’autopresentazione è proposto con variazioni dosate lungo l’intero sviluppo del racconto e segue la linea di un climax discendente, disegnando di volta in volta un ritratto peggiorativo della protagonista. Prende corpo quasi un personalissimo stile formulare, piegato efficacemente a suggerire il percorso difficile della ricerca identitaria.
Ancora una volta, tuttavia, la Ciabatti scarta la soluzione facile, stabilisce un patto complesso con il lettore e non ne ricerca l’empatia complice, anzi sembra sollecitarne piuttosto il disappunto irritato: eccola mimare il punto di vista dell’insopportabile figlia prediletta, capricciosa e prepotente, che approfitta del prestigio paterno in paese per estorcere piccoli privilegi, come quello del ruolo di prima ballerina nel saggio di danza di fine anno: «E noi sedute per terra, a gambe incrociate, palpitiamo, palpitano i nostri cuoricini […]. Il cuoricino di tutte tranne il mio, io già so, ragazze cerchiamo di non essere ipocrite. Chiudete gli occhi e guardatemi volteggiare sopra la testa del ballerino, rimiratemi candida e leggiadra a scrutare il mondo dall’alto». La prospettiva autoironica della protagonista “più amata” si trasforma secondo le tappe del processo di crescita; così ritroviamo, all’ingresso nella scuola media, Teresa preadolescente ribelle e rabbiosa, costretta a ridimensionarsi nel confronto con i coetanei più smaliziati e cresciuti più in fretta di lei: «Qualcuno venga a dirmi perché in questa scuola irraggiungibile dal mondo civilizzato, in questo paesino insignificante, perché proprio qui c’è un affollamento di esemplari adolescenti meravigliosi, chi sono queste creature altissime, questi esseri dalle gambe lunghe e le chiome fluenti». E infine la ritroviamo adolescente smarrita, obesa e frustrata, giovane donna scontenta e incapace di amare: l’esercizio costante dell’autoironia si accompagna alla satira feroce nei confronti della società provinciale ipocrita e servile («Lo dico a papà e ai suoi sottoposti che fanno quello che dice lui, chi si precipita a ripararci il lavandino, chi a tinteggiare il cancello, chi a rimbiancarci le pareti di casa. Noi non abbiamo idraulici, elettricisti, imbianchini, noi abbiamo dottori e infermieri, uno stuolo di medici e paramedici a nostra disposizione»). Lo sguardo sull’impero modesto e meschino del padre, primario di paese, è impietoso, ma costantemente sorretto dallo sforzo di risolvere i misteri che ne avvolgono la figura. Lorenzo Ciabatti, per alcuni benefattore disinteressato e generoso, per altri fascista, massone, legato ad amicizie politiche imbarazzanti, è un personaggio dai tratti sinistri che non ha mai a che fare, peraltro, con antagonisti in grado di tenergli testa: la moglie del dottore, Francesca Fabiani, ribelle e decisa all’inizio del racconto, si lascia progressivamente manipolare dal marito, che la costringe ad abbandonare il lavoro, la narcotizza per un anno, ne spegne ogni iniziativa, la tradisce forse con un’amica di famiglia. La prospettiva apparentemente più indulgente con cui la narratrice ricostruisce la storia della figura materna non basta a riscattarla, anzi ne sottolinea il ribellismo sterile e la fragilità affettiva. Nel finale, tuttavia, il dramma familiare, lungi dallo scoppiare, viene riassorbito e l’inchiesta non giunge ad alcuna soluzione. Il mistero da svelare si rivela un esercizio di retorica romanzesca che glissa sullo scioglimento: l’ellissi allusiva sembra essere la tecnica privilegiata della Ciabatti, che elude in questo modo ogni ipotesi di epilogo tragico (si accenna alla morte dei genitori, ma l’evento ferale non è narrato) nonché di svelamento dell’enigma. Nessun interrogativo è davvero sciolto nel finale, né sugli intrighi politici di cui il padre sarebbe complice, né sul giro di affari sporco che lo avrebbe portato alla rovina (ma è davvero così? O il dottore ha spostato i soldi su conti esteri protetti?) e neppure sul presunto rapimento lampo; nessuna chiarezza è davvero fatta sulla sua vita privata, dal rapporto con i figli ai tradimenti, alla separazione e poi rappacificazione con la moglie. L’inchiesta ha un esito ambiguo, giacché, come recita l’epigrafe iniziale, «capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male». Come dire che l’ambivalenza dei legami affettivi arretra dinanzi alla denuncia esplicita, preferisce rimescolare ambiguamente le carte, giocare tra invenzione romanzesca e resoconto autobiografico. Come dire che l’ironia lascia spazio anche al pathos dei sentimenti.
Eppure una vena, per quanto labile, di impegno civile percorre, comunque, i libri della Ciabatti, che disegnano con coraggio uno spaccato della storia d’Italia dagli anni settanta alla fine degli anni novanta, tra golpismo di destra, corruzione e speculazioni finanziarie: trame oscure che collegano ambiguamente la capitale alle province limitrofe, passando attraverso la spartizione della Rai, la loggia P2, la corruzione politica. L’ironia della Ciabatti rischia almeno di far emergere la cattiva coscienza della borghesia italiana di quegli anni, di cui sono rappresentanti emblematici i padri dispotici e falliti dei suoi romanzi, da Riccardo Mannucci de I giorni felici a Lorenzo Ciabatti, vero e proprio eroe “noir”, amico di Fanfani, di Licio Gelli e di Giorgio Almirante. Le figlie predilette ne sono forse complici ambigue, ma sanno almeno ammettere senza sconti la propria connivenza, anche a costo di rendersi antipatiche.