Lei “non” è in arresto!

Da tempo i gialli hanno smesso di puntare tutto sull’identità del criminale, per privilegiare le esigenze della suspense, ben distribuita lungo il corso della storia, e puntellata dal ricorso massiccio ai sentimenti e alla violenza. La gestione della giustizia è totalmente in capo al detective, che in ultimo può fulminare con una pallottola il colpevole, o lasciarlo andare impunito. La dilagante sfiducia verso le istituzioni ha reso il fatidico arresto un evento sempre più raro.
 
Per ragionare sull’evoluzione dei finali, nel campo della detection, è opportuno muovere dalla contrapposizione – semplificante ma pur sempre utile – fra i tradizionali gialli a enigma e il multiforme universo dei noir. Da una parte, dunque, storie sigillate dal successo cognitivo dell’investigatore, che dissipa le tenebre e ristabilisce l’ordine, assicurando il criminale alla giustizia; dall’altra un’estrema varietà degli esiti, chiamati a testimoniare l’ambiguità di un mondo nel quale si è perduto il coltello in grado di separare con un taglio netto il male dal bene.
Ora, se guardiamo al Novecento italiano è facile accorgersi di come i meccanismi della struttura chiusa tradizionale, ai piani alti del sistema letterario, siano stati più volte messi in discussione sin dal secondo dopoguerra. Si possono individuare al riguardo almeno tre tipiche direttrici d’attacco, indicando per ciascuna un romanzo esemplare e di notevole fortuna. In primo luogo l’instillazione di uno scetticismo gnoseologico nei confronti dell’indagine, come avviene in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, di Carlo Emilio Gadda. In secondo luogo l’esasperazione della componente logica, che conduce a un pari e patta fra i sospettati, perciò assolti, come nei Giovedì della signora Giulia di Piero Chiara, ispirato al celebre caso Bebawi. In terzo luogo, il disvelamento delle magagne dell’apparato repressivo: una giustizia timorosa o collusa con i malviventi, che vanifica lo zelo di irreprensibili tutori della legge, come il capitano Bellodi del Giorno della civetta.
Di queste tre vie, la più sfruttata dai tanti abili professionisti italiani del genere emersi nell’ultimo ventennio è stata senz’altro quella indicata dal romanzo di Sciascia, arricchita dalle suggestioni del néo-polar francese e degli hard-boiled ambrosiani di Giorgio Scerbanenco. La sfiducia verso le istituzioni securitarie, nella paranoica cultura del dubbio che tutto pervade, si è saldata a una teoria del complotto che non trova ormai seri avversari in alcun campo, politica inclusa. Se la società è marcia e la corruzione sistematica, il tintinnare delle manette acquista un’eco beffarda. Un giallo in cui un geniale ispettore di polizia arresti il malvagio di turno senza torcergli un capello, per consegnarlo nelle mani di un giudice incorruttibile pronto a condannarlo alla giusta pena, al giorno d’oggi non rassicura: turba. E infatti la nouvelle vague nostrana si guarda bene dal proporre narrazioni simili a un pubblico incline a diffidare dell’ambiente, prima ancora che dei singoli personaggi.
Gli stessi detective, del resto, da molto tempo hanno perso l’innocenza, e a volte anche l’onestà. Quando non somiglino a simpatici cialtroni, come Salvo Montalbano, o il Rocco Schiavone di Antonio Manzini, corrispondono all’identikit del bel tenebroso, dal passato più o meno ambiguo: è il caso fra gli altri dell’avvocato Guerrieri di Gianrico Carofiglio, del Balistreri di Roberto Costantini, dell’Alligatore di Massimo Carlotto, del Ricciardi di Maurizio De Giovanni, preceduti negli anni novanta dal commissario repubblichino De Luca di Carlo Lucarelli. Non si tratta di eroi che volano alti sopra il delitto e le brutture degli uomini, quanto di aspiranti Marlowe che rischiano continuamente la pelle, ma finiscono sempre col cavarsela. Non foss’altro perché la nuova generazione di giallisti italiani ha puntato senza esitazione sulla serialità.
Una simile riconfigurazione dell’investigatore, immerso in una società infida e complessa, ha comportato in effetti le medesime conseguenze rintracciabili nei creatori del noir, Hammett e Chandler, che demolirono le pareti in cui era costretto il giallo della stanza chiusa. Ecco dunque che, in barba alla regola n. 3 della detective story formulata da S.S. Van Dine («Non ci dev’essere una storia d’amore troppo interessante»), si alza la temperatura sentimentale della vicenda, spesso nel segno dell’amarezza: dicono parecchio al riguardo il titolo dell’ultima avventura dell’Alligatore, Blues per cuori fuorilegge e vecchie puttane, e i reiterati struggimenti del commissario Ricciardi per la giovane vicina di casa. E oltretutto significativo come De Giovanni in più occasioni scelga di calare il sipario su un cuore che si spezza, o un bacio fremente, come avviene in Per mano mia e In fondo al tuo cuore.
Il caso di Ricciardi giova anche a mettere in luce un secondo effetto generato dalle dinamiche descritte, ovvero l’irruzione in scena della violenza, che nel giallo classico è un a priori confinato dietro le quinte. Per mano mia invece si apre con un rallentamento che distende in cinque pagine i due secondi in cui si consuma la caduta di un uomo dalla finestra, prima dell’impatto devastante col suolo. Ricciardi com’è noto possiede un dono paradigmatico, quello di vedere l’ultimo gesto, di sentire le ultime parole delle vittime, in flash che forniscono preziosi indizi, ma gli infestano la psiche riportando in primo piano l’empatia verso chi soffre.
Né crimini, ferimenti e omicidi si fermano alle soglie dei primi capitoli: anzi dilagano nell’intreccio, depotenziando il tradizionale schema del whodunit. Si è così indotti a riflettere, più che sull’identità del colpevole, sul perché delle sue azioni, mentre il narratore spiattella il come, insistendo con puntiglio sui dettagli di ogni efferatezza. I classici moventi – passione, lucro, potere – cedono il posto ora a oscuri maneggi, ora ai calcoli imperscrutabili della follia. Troppo facile, o troppo difficile per il lettore, al quale non si chiede più di ingaggiare una lotta indizio per indizio con l’autore. Indagare, in questi casi, risulta persino velleitario, come lascia capire una scena clou dell’ultima avventura di De Luca, Intrigo italiano, in cui un commendatore dei servizi segreti quasi ride in faccia al commissario: «Non ci interessa sapere chi ha ammazzato il professor Cresca, non ce ne frega proprio niente. Vuoi sapere perché, ragazzo mio? Perché lo sappiamo. Siamo stati noi». Di lì a poco, altri due cadaveri provvederanno a tenere viva l’attenzione del lettore.
Il punto è che il giallista, più che a depistare, oggi mira a coinvolgere emotivamente: il trionfo della suspense comporta la continua accensione di focolai drammatici. Con buona pace di Van Dine una sola vittima, un solo colpevole, un solo detective non bastano più alla costruzione di un telaio avvincente. Il montaggio alternato è ormai una procedura standard, sfruttata anche per valorizzare un’altra caratteristica molto apprezzata nei Kriminalroman, ovvero il surfing fra ambienti sociali distanti. Se prendiamo Torto marcio, il titolo più recente di Alessandro Robecchi, vediamo questa strategia perseguita con evidente impegno: i due investigatori, un misero poliziotto e Carlo Monterossi, agiato autore televisivo, si muovono fra magnifici appartamenti del centro e scalcinate case popolari, incontrando l’uno dame in vestaglia e gioiellieri, l’altro disperati del collettivo e malavitosi calabresi disposti a tutto. Anche in questo caso, gli omicidi non precedono ma accompagnano la narrazione, disposti a intervalli regolari.
Stando così le cose, non sorprende che nei finali si raggrumino sempre più spesso ulteriori esplosioni di brutalità, come avviene in 7-7-2007, quando Rocco Schiavone (non un private eye, si badi, ma un poliziotto) spara in faccia all’avversario, che gli ha ammazzato la moglie, e poi lo seppellisce di nascosto, con l’aiuto di un complice. Manzini sceglie la soluzione più facile per scaricare la molla compressa dalle infamie del malvagio. Anche il castigo entra così nello spazio della storia: ma in una forma ben lontana dalla scontata sequenza arresto-processo-condanna. Chi si accontenta di una pena inflitta dallo Stato? Chi ci crede? Il lettore brama soddisfazioni più intense, il male va vendicato con maggior prontezza (ma va comunque vendicato: ben pochi hanno il coraggio di lasciare l’amaro in bocca al modo di Sciascia).
Anche quando veste un’uniforme, il detective si incarica di fare personalmente giustizia, soccorrendo là dove le istituzioni non vogliono o non possono arrivare. Non sempre, d’altronde, si trova dinanzi figure pacificamente inquadrabili nel ruolo del colpevole. In Torto marcio, per esempio, il primo assassino è un disadattato, che ammazza un pugno di ex rivoluzionari arricchiti e una volta individuato recita a due poliziotti, che un po’ lo comprendono, un’omelia sulle vessazioni del capitalismo avanzato. Anche stavolta, niente arresto: un provvidenziale suicidio leva gli agenti dall’imbarazzo. Allo stesso modo la seconda assassina, una donna facoltosa, quando viene scoperta ammannisce una serie di alte considerazioni sul concetto di giustizia a Monterossi, prima di andarsene indisturbata.
Unico giudice in un mondo in cui tutti hanno torto marcio, per l’appunto, l’investigatore può farsi carnefice, ma anche scegliere di graziare chi a rigor di legge meriterebbe la galera. Così il commissario De Luca, in Intrigo italiano, rinuncia a perseguire Claudia, nella convinzione che in prigione qualcuno la impiccherebbe alle sbarre nel giro di qualche giorno. E persino a Montalbano, in genere meno disinvolto, può capitare di lasciare libero un reo confesso: come avviene nella Pazienza del ragno, quando comprende che due estorsori hanno agito per punire un infame e devoluto a organizzazioni umanitarie i soldi ottenuti. La giustizia splende nei cuori delle persone, s’abbuia nei codici penali e nelle aule dei tribunali. Quanti italiani ne sono convinti?