Lettere, filosofia, più in generale le scienze umane, sempre più appaiono come cursus studiorum da guardare con sospetto rispetto all’attrezzatura ritenuta necessaria a un ingresso consapevole nel mondo del lavoro. Invece proprio la capacità di innovazione del curricolo umanistico è al cuore della possibilità di creare un ceto competente e consapevole di produttori di cultura.
È moneta piuttosto corrente, nel nostro paese, accusare il percorso di studi universitario italiano di essere poco formativo dal punto di vista della dotazione necessaria a cimentarsi nel mondo professionale. Enciclopedismo, erudizione spesso minuziosa e mancanza di concrete relazioni con l’ambiente lavorativo: questo il cuore delle critiche tradizionalmente mosse alla formazione accademica nostrana. Tale valutazione può diventare poi particolarmente severa quando a essere sotto disamina sono le facoltà umanistiche. Lettere, filosofia, più in generale le scienze umane sempre più appaiono come cursus studiorum da guardare, se non con sospetto, perlomeno con condiscendenza da parte dell’addetto delle risorse umane di turno il quale, se particolarmente benevolo, potrà tutt’al più riconoscere in questo o quel candidato un qualche talento, seppur maldestramente impiegato ad acquisire conoscenze dalla dubbia se non nulla utilità.
Non ho strumenti o informazioni particolari per dire come stiano oggi esattamente le cose sotto questo aspetto, anche se sono al corrente delle spesso coraggiose innovazioni in seno al curricolo intraprese da questo o quell’ateneo, in parte anche allo scopo di correggere tale visione. Posso tuttavia dire con certezza che la mia diretta e personale esperienza di studio, nel corso degli ormai lontani anni ottanta presso l’Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Filologia Moderna, testimonia in realtà l’esatto contrario, ossia l’aver avuto la possibilità di approntare, fin dagli anni della formazione universitaria, una personale attrezzatura con la quale muovere i primi passi verso l’acquisizione di una professionalità certa in campo editoriale.
Tutto in realtà ebbe inizio con quello che a suo tempo mi apparve come un vero e proprio rovesciamento copernicano, peraltro non immediatamente ovvio da accettare, in merito al mio stesso oggetto di studio, ossia la letteratura. Il dato per me infatti più decisivo da un punto di vista dell’imprinting professionale, e questo ben prima di sapere che l’editoria sarebbe diventata per me un’occupazione, fu in primo luogo lo studio, o meglio il considerare oggetto di studio l’atto della lettura, nella sua consustanzialità all’operazione di scrittura che la precede, senza la quale qualunque creatività autoriale resta di fatto incompiuta. Va da sé che indissolubilmente legato all’approfondimento dell’atto del leggere nelle sue implicazioni teoriche ed estetiche non poteva che esserci poi lo studio attento e problematico dell’altro negletto contraente il patto che qualunque autore sa di dover sottoscrivere nel momento in cui si cimenta nello scrivere, ossia il pubblico. E altrettanto inedita e arricchente fu per me la scoperta del pubblico non come accidentale, per quanto interessante, ricaduta sociologica o, peggio, necessario e sgradevole pedaggio imposto al genio artistico, ma come dinamico e compartecipe soggetto dell’esperienza creativa della scrittura, esplorata pertanto nei suoi significati profondamente sociali. L’idea, da qui, che la storia della letteratura possa leggersi come la storia delle diverse attualizzazioni che lettori diversi nei secoli hanno operato della medesima opera; il concetto secondo cui il significato stesso di un testo letterario risieda nel rapporto che esso instaura con il soggetto che tale testo legge; queste e mille altre suggestioni, oggi so con retroattiva certezza, trovavano strada in me sotto forma di ben più di una salutare lezione di democrazia culturale, bensì di vera e propria propedeutica a quel peculiare ruolo di intermediazione tra chi scrive e chi legge che è il cuore stesso della funzione editoriale.
Avendo condotto successivamente studi post laurea in ambienti accademici statunitensi, ai tempi profondamente impregnati di postmodernismo e di suggestioni decostruttiviste, mi resi rapidamente conto che l’armamentario teorico con cui ero partito non mi rendeva particolarmente “attuale” in una società culturale e accademica che, forse perché non obbligata a confrontarsi con i perduranti spettri dell’idealismo, era comprensibilmente attratta da altro genere di considerazioni in seno all’oggetto letterario. Tale strumentazione tuttavia faceva di me perlomeno un curioso osservatore dei fenomeni culturali che mi circondavano, proprio sotto la prospettiva per me nuova e feconda della ricezione. E si trattava di una prospettiva particolarmente interessante da adottare in un paese che, dall’editoria al cinema per arrivare al teatro e all’arte contemporanea, mi sembrava godere di una per me inedita libertà di poter far a meno della sterile, a volte sin comica distinzione tutta europea tra intrattenimento e cultura, e che perciò, quando si serviva di termini come High Brow e Low Brow o Literary e Commercial, pareva farlo partendo immancabilmente da una sorta di precondizione teorica che trovava puntualmente traduzione nella prassi creativa: l’accertamento cioè dell’esistenza di un pubblico, grande o piccolo che fosse.
Tutti questi strumenti, arricchiti com’è ovvio dall’esperienza specifica, hanno via via contribuito a formare quella che per me è stata ed è tutt’ora la chiave metodologica, se non addirittura deontologica, del lavoro editoriale e che consiste, di fronte a un testo, nel porsi non con la corazza difensiva della domanda: “mi piacerà?”, ma con la vulnerabile responsabilità dell’interrogativo: “a chi piacerà?”. Si tratta a mio parere di una posizione che da un lato marca senza ambiguità la costitutiva ma non sempre chiara differenza tra lettore comune e editore, al di là delle semplificazioni che talora vorrebbero vedere negli editori degli arbitri capricciosi dotati di superpoteri decisionali in merito a ciò che si dovrebbe o non dovrebbe leggere. Dall’altro credo rilanci, attualizzandola, la specificità del lavoro editoriale rispetto a sin troppo romanticizzati protagonismi che, se potevano forse avere un senso in un’editoria novecentesca che lavorava su un territorio di alfabetizzazione ancora relativamente recente, risultano io credo inservibili nell’esplosione contemporanea dei codici linguistici e simbolici. Ultima ma non ultima notazione, tale prospettiva ha io credo il non trascurabile pregio di ricordare all’operatore editoriale il fatto di lavorare in un’industria culturale che, proprio in quanto industria, ambisce legittimamente a dei profitti, nel rispetto della pluralità dei gusti, degli strumenti, delle aspirazioni di una rete di pubblici diversi che è giusto auspicare la più ampia possibile. In definitiva perciò la cognizione teorica, divenuta poi pratica e potrei forse dire anche civile, dell’imprescindibilità del pubblico rispetto non direi neppure al testo ma all’“oggetto editoriale”, ha spostato in me io credo una volta per tutte la percezione della figura dell’editore tanto dal ruolo di capriccioso e privilegiato censore, quanto da quello di mercante che si aggira nel tempio della cultura. Ritengo certo si sia trattato di un lascito culturalmente trasformativo per me, ma che può forse anche offrire risposta alle odierne diffidenze verso i curricola umanistici, in specie in merito alla creazione di operatori culturali contemporanei aggiornati, sempre più spesso auspicati di formazione tecnico-manageriale, dei quali si tralascia perciò secondo me il ruolo più importante e delicato, ossia di responsabile e competente mediatore di contenuti sui quali sarebbe bene disporre di una competenza non accessoria. E si tratta di un ruolo che occorrerebbe peraltro rivendicare con convinzione e difendere con energia tanto più in un tempo come quello che stiamo vivendo, in cui pratiche sempre più evolute e aggressive di disintermediazione di stampo eminentemente commerciale tendono a suggerire al pubblico una sovrapposizione concettuale, fin troppo facile per non essere sospetta, tra rapidità di accesso al consumo di contenuti e libertà nello sceglierli.