La biblioteca non è più il luogo in cui si va a studiare e a cercare informazioni, ma sempre più un luogo della comunità, di “conversazione partecipativa”, al cui centro non è la collezione libraria, ma gli utenti. Questo nuovo modello, diffuso nei paesi anglosassoni e del Nordeuropa, inizia a farsi strada anche in Italia; ma accanto a realtà virtuose che hanno prodotto risultati significativi, ce ne sono altre che guardano alle nuove attività come a un mezzo per rifare il lifting a un istituto dall’immagine logora, senza modificarne in profondità le logiche di funzionamento.
La parola d’ordine che circola fra gli addetti ai lavori di un settore, quello bibliotecario, frustrato da decenni di incuria istituzionale e alla spasmodica ricerca di visioni e strumenti che consentano di riposizionarsi un po’ più in alto nella scala dell’utilità percepita da cittadini e decisori politici, è da qualche anno la seguente: la biblioteca non è più solo il luogo in cui studiare in un ambiente che favorisce la concentrazione o dove è possibile scegliere le proprie letture all’interno di una proposta ampia e ragionata ma una piazza del sapere aperta alla comunità, un luogo di incontro e partecipazione che valorizza l’attivismo civico, sviluppa la creatività individuale, favorisce l’integrazione e la conoscenza del diverso, un laboratorio polivalente di apprendimento, condivisione e integrazione.
Questo modello, in Italia ancora troppo poco diffuso, guarda a esempi stranieri, in prevalenza anglosassoni e nordeuropei, ma si nutre anche delle suggestioni (e delle realizzazioni) provenienti ormai in numero significativo dall’Estremo Oriente, in particolare dalla Cina.
Esso si basa su due pilastri speculari, a cui abbiamo già accennato in altre edizioni del presente annuario: la nuova biblioteconomia di David Lankes, che concepisce la creazione di nuova conoscenza come una “conversazione” partecipativa più che una trasmissione lineare da un emittente a un destinatario, e l’idea che al centro delle attenzioni della biblioteca non debba esserci la collezione libraria ma la comunità degli utenti con i loro bisogni informativi. In sostanza, gli utenti rappresentano il centro della biblioteca mentre i libri, le risorse elettroniche, i fondi antichi e rari sono lì per ispirare, educare e provocare conversazioni e apprendimento.
La biblioteca si propone quindi come luogo della comunità, centro attivo delle sue relazioni, spazio multifunzionale in grado di connettere domanda e offerta di conoscenza, ma anche di socialità e di partecipazione. In una parola, essa aspira al ruolo di “hub della comunità”, secondo una formula (o, se preferite, uno slogan) che sta prendendo sempre più piede.
Va detto, a scanso di equivoci, che alcune biblioteche italiane hanno preso molto sul serio tale modello, declinandolo in una fisionomia di servizio multiforme e orientata alla relazione con la comunità circostante che sta producendo significativi risultati, contribuendo a rafforzare il ruolo e l’immagine di quegli istituti nel territorio in cui operano.
Accanto alle buone pratiche, però, c’è un universo che si arrabatta procedendo per tentativi, recependo acriticamente formule che richiederebbero – per essere compiutamente implementate – un approccio sistemico e un cambiamento radicale di mentalità, oltre a competenze almeno in parte differenti da quelle normalmente presenti nelle biblioteche italiane. E qui che “hub di comunità” diventa la formula magica per riscaldare una minestra già cucinata: si guarda a nuove attività come a un mezzo per rifare il lifting a un istituto dall’immagine logora, senza modificarne in profondità le logiche di funzionamento. La biblioteca si avventura così su terreni vergini nel tentativo di rifarsi una verginità, provando a scrollarsi di dosso la memoria (e il peso) dei suoi fallimenti (indici di impatto ridotti, incapacità di attrarre fasce di popolazione diverse da anziani e studenti… ) ma senza mostrare di voler fare realmente i conti con il proprio vissuto e la propria storia recente. Il che significa, almeno, riconoscere che la presenza in Italia di oltre 14.000 biblioteche di varia tipologia e appartenenza istituzionale non ha impedito la stagnazione degli indici di lettura, segno che la loro attività sul campo non è in grado – al pari di quella di editori, librerie e del sistema scolastico nel suo complesso – di incidere sulla scarsa propensione degli italiani verso una pratica centrale per colmare il ritardo culturale del nostro paese.
La pretesa centralità della biblioteca nelle pratiche di promozione della lettura, al di là dell’innegabile impegno profuso almeno a partire dal passaggio di competenze fra Stato e Regioni avvenuto nel 1972, appare alla luce dei risultati quanto meno contro-intuitiva, poiché le biblioteche, secondo Alberto Petrucciani «non sono mai state né l’unico né il principale, né il primo luogo a cui le persone si sono rivolte per leggere, e men che meno, secondo una favola ideologica diffusa a partire dagli anni settanta del secolo scorso, per un generico “cercare informazioni”».
L’idea che la biblioteca possa essere considerata un “hub di comunità”, quindi, partecipa di questa incongruenza per ragioni (almeno) lessicali. Il termine in inglese ha letteralmente il significato di “fulcro, mozzo (della ruota)” e fa riferimento a un’idea di centralità: il mozzo sta al centro della ruota ed è la parte meccanica che la collega con l’asse. La sua posizione all’interno della ruota rappresenta, in tutta evidenza, una condizione (affinché il mozzo, ovvero l’hub, possa considerarsi tale, è necessario che si trovi al centro) non uno stato (che rimanda a una posizione da conquistare e da rinegoziare nel tempo, in quanto in divenire e mai data a priori, come avviene per qualsiasi ruolo sociale).
Se una biblioteca ambisce al ruolo di “hub di comunità” non deve soltanto dichiararlo ma deve in primo luogo decidere quale sia il suo campo di gioco, i suoi riferimenti operativi, le sue colonne d’Ercole. Esattamente come il mozzo è inscritto all’interno del cerchione, che delimita la superficie della ruota (e il suo campo d’azione), non è detto che la ricerca di un nuovo ruolo sociale e culturale debba necessariamente risolversi in un ampliamento illimitato delle funzioni e delle attività svolte. Un fattore decisivo in questo senso è rappresentato dalle connessioni che si stabiliscono con l’ambiente di riferimento, dal numero e dalla qualità delle relazioni che si è in grado di attivare, dalla loro persistenza: le ruote funzionano sia se il mozzo è collegato al cerchione da pochi e robusti raggi in lega di carbonio, come avviene nella maggior parte delle auto sportive, sia se si struttura in una molteplicità di raggi sottili ma egualmente funzionali, come nel caso della bicicletta. Non c’è un modello di riferimento unico, o una soluzione migliore di un’altra: il design (dei servizi, nel caso della biblioteca) è funzionale al contesto di riferimento e ai risultati che si vogliono ottenere.
L’accentuazione del profilo “sociale” dell’attività bibliotecaria se non vuole ridursi a mera concessione alle mode del presente deve dunque essere il frutto di una progettazione strategica. Per rimanere alla metafora della ruota, ciò che serve senz’altro a qualsiasi progetto di ripensamento è il moto rettilineo che caratterizza la traiettoria del mozzo, che fa da contraltare al rotolamento (termine tecnico), ovvero alla rotazione della ruota attorno all’asse: serve, in altre parole, lucidità d’analisi, capacità progettuale e soprattutto continuità e coerenza nel perseguire i propri fini, che dovrebbero essere pre-stabiliti per non rischiare che l’esigenza di cambiamento, di evoluzione delle modalità con cui la biblioteca attualizza la propria missione istituzionale (quale che sia) assomigli più a uno scivolamento verso modelli di richiamo che a un movimento con una direzione prestabilita.
La metafora meccanica, infine, viene utilmente in soccorso per sottolineare una qualità che la biblioteca dovrebbe tenere sempre presente, a prescindere dalla connotazione data al suo profilo di servizio. Più che coltivare il mito di una supposta centralità nella comunità di riferimento, sarebbe molto più utile ricordarsi che la posizione dell’hub nella struttura della ruota è equidistante da ogni punto della sua circonferenza: essere il centro geometrico della comunità significa mantenere l’equidistanza da tutti i suoi membri, fungere da spazio neutro perché aperto a tutti e lavorare affinché all’interno di un ecosistema delicato e complesso come quello bibliotecario l’accesso alla produzione culturale (e alla sua memoria registrata) funzioni per tutti secondo un modello perequativo in grado di restituire di più a chi dalla vita e dalla società ha avuto di meno. In questo processo è certamente più utile la qualità relazionale della propria attività, la capacità di intessere alleanze con il proprio ambiente di riferimento, la capacità simbiotica di trarre vantaggio dalle competenze, dalle capacità e dalle specializzazioni che altri hanno sviluppato in specifici àmbiti.
Meglio concepirsi come nodi di una rete diffusa piuttosto che come il centro di gravità della comunità locale. Un cambiamento di prospettiva – sorpresa! – che può giovarsi della polisemicità del linguaggio: nel lessico dell’informatica “hub” significa anche “nodo di una rete” e si riferisce a un dispositivo che ha il compito di concentrare e distribuire i dati in una rete di comunicazione. Un dispositivo permeabile nei due sensi, in grado di raccogliere e di convogliare i dati verso i punti della rete che li richiedono. Un dispositivo che funziona grazie alla sua versatilità, alla sua disponibilità allo scambio e alla relazione. È la metafora che meglio descrive la biblioteca che vorremmo, un organismo aperto all’interazione, che opera in senso orizzontale condividendo la propria attività e modulando il suo ruolo nel quadro delle priorità dettate dal suo ambiente di riferimento: una biblioteca di comunità, che possiamo anche chiamare “hub”, purché l’orizzonte di senso preso a riferimento, fra i possibili, sia quello giusto.