Marcolongo, Mastrocola, D’Avenia e Gardini hanno molto in comune. Forse non si frequentano, ma scrivono più o meno le stesse cose: e cioè che la letteratura è bellezza, e le versioni di greco o latino fanno bene al cervello, mentre in passato erano un tonico per la coscienza di classe.
Il liceo classico, come è noto, rischia seriamente di finire tra i “beni” protetti dal FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano), luoghi visitabili una volta all’anno durante le Giornate di Primavera: lo scelgono in media soltanto sei studenti su cento, contro i venticinque del rivale scientifico.
Le polemiche sui giornali e gli appelli in sua difesa ormai non si contano, così come proliferano le testimonianze di matematici, fisici e ingegneri, tutti pronti a giurare che senza greco e latino non le risolvi, le equazioni. E però nel campo della saggistica che, a partire dal 2015, si sono visti i risultati più sorprendenti: La passione ribelle di Paola Mastrocola, La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco di Andrea Marcolongo, L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita di Alessandro D’Avenia e Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile di Nicola Gardini hanno scalato le classifiche di vendita, superando la soglia delle centomila copie (Marcolongo, D’Avenia) e allungando a dismisura le liste d’attesa in biblioteca.
Un successo di tali proporzioni non si spiega solo con l’interesse che sempre suscitano le storie e le inchieste su studenti e insegnanti. Mi limito a ricordare i temi dei bambini napoletani raccolti da Marcello D’Orta (Io speriamo che me la cavo, 1990); le cronache scolastiche di Domenico Starnone (da cui nel 1995 Daniele Luchetti ha tratto il film La scuola, che i supplenti conoscono a memoria); e il Diario di scuola di Daniel Pennac (2007); per tacere del sempiterno, e pernicioso, Attimo fuggente di Peter Weir (1989).
Oggi i Quattro godono di largo seguito nel mondo dell’istruzione (l’autrice del pamphlet filellenico, la più giovane del gruppo, ha girato in tour i licei classici di mezza Italia), ma per tre di loro la campanella non suona più. Mastrocola è pensionata e scrittrice; Gardini insegna a Oxford; Marcolongo, diplomata e laureata con lode, «ha molto viaggiato e ha vissuto in dieci città diverse» (viva l’understatement, oltre che le lingue morte); lo stesso D’Avenia, che tuttora insegna in un liceo privato milanese, si presenta come romanziere, dottore di ricerca e sceneggiatore. Poco spazio, nei rispettivi libri, è dunque concesso all’umanità varia che affolla aule e corridoi, alle macchiette cioè che hanno fatto la fortuna delle storie narrate da Starnone e molti altri: colleghi ruspanti, studenti teppisti, braccia rubate all’agricoltura e via dicendo. Il denominatore che li unisce è piuttosto una riflessione sulla figura e sul ruolo dell’insegnante, in una fase storica segnata da un rimescolamento delle discipline che sono alla base della formazione dei ceti colti.
Ciò che sopravvive delle comiche ambientate tra i banchi, semmai, è la domanda che nel film di Luchetti si poneva il prof Mortillaro (sì, quello che interrompeva gli scrutini con l’allarme bomba): «Perché la classe dirigente non viene a studiare da me? Ma che c’ho fatto io alla classe dirigente?!?». L’interrogativo, che risuonava in origine tra le mura di un malandato istituto di periferia, lambisce le sacre porte del liceo più prestigioso: al Classico non viene più riconosciuto il compito di educare i futuri detentori del potere. E vero che in passato non sono mancate le operazioni, più o meno radicali, di svecchiamento metodologico – quei simpaticoni dei Ragazzi della 3a C (1988) proponevano di «studiare Dante con il compact disc» – ma ora siamo alle prese con un terremoto a tutti gli effetti, perché a esser messa in discussione è la centralità stessa della cultura umanistica.
La scuola gentiliana accordava agli studi giuridici una posizione apicale, coerente con l’importanza attribuita alla conoscenza del latino. E finché il mondo era piccolo, per quanto non più antico, si poteva essere umanisti e al tempo stesso professionisti, alla stregua di Raffaele Mattioli, banchiere e mecenate, o dell’avvocato che lavorava con Solmi alla Comit, «traduttore di Lucrezio e autore di una storia della letteratura latina» (Sergio Solmi, Ricordi su Raffaele Mattioli).
Ai giorni nostri, la pretesa di trasmettere un fondamento di cultura modellato sul passato greco-latino, o sui grandi nomi della letteratura, garanti dello spirito nazionale, fa a pugni con le esigenze di un sistema produttivo che richiede conoscenze specifiche, se non addirittura microspecialistiche: o lavori in banca, insomma, o traduci il De rerum natura.
Intendiamoci, non è che questi cambiamenti siano avvenuti all’improvviso: si tratta di tendenze di lungo periodo, a cui però è stata data un’accelerazione inattesa dall’ultimo governo Berlusconi. Con un pizzico di macelleria sociale, la riforma Gelmini ha posto fine all’ambiguità che minava la figura dell’insegnante di lettere: storicamente più vicina, nella scuola superiore, al prof di greco o latino che all’italianista, nonostante i programmi suggerissero di spaziare dalle poesie di Petrarca ai racconti di Piumini.
La riduzione del monte ore di latino nei licei non classici, se ha ridato lustro alla cattedra di italiano, ha tuttavia allargato il solco, già prossimo alla voragine, tra i requisiti di accesso all’insegnamento e gli incarichi effettivi. Molti docenti di ruolo, molti precari o, come chi scrive, semplici tieffini (ossia abilitati con il Tirocinio Formativo Attivo), cresciuti declinando rose al ginnasio, si sono ritrovati di colpo privi di un’identità professionale («Insegnerò mai latino?») e di strumenti didattici adeguati (è più facile correggere una versione che un tema). Non pochi, di conseguenza, avvertono un senso di perdita e di smarrimento, a cui lo sforzo teoretico di Mastrocola & Co. intende fornire risposte e rassicurazioni.
I Quattro, va subito precisato, si espongono in prima persona: offrono cioè le loro vite di successo a garanzia delle tesi sostenute. La strategia funziona solo in parte, perché le esperienze descritte sono vertiginose, nonché un filino ritoccate dal filtro della memoria: a una prima lettura, la definizione di genere oscilla tra il saggio e il romanzo di formazione condotto da un io narrante inattendibile.
La riscoperta dell’adolescenza ben poco concede, infatti, al rigore di un’argomentazione analitica: tutti e quattro vi scorgono i segni della predestinazione, le prove di una vocazione precocissima. Alex D’Avenia, folgorato a suo tempo dal professor Keating alias Robin Williams e da un suo emulo italiano («il professore ci aveva recitato, fino alla commozione, tutto il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia»), «vive ancora del fuoco di quei rapimenti di diciassettenne»; «del greco antico» spiega Marcolongo «mi sono innamorata da ragazza: l’amore più lungo della mia vita»; «Chi studia si ferma e sta: così, si rende eversivo e contrario», le fa eco Mastrocola; «Io mi sono appassionato al latino fin da bambino» confessa Gardini. «Non so esattamente perché. Se cerco di capirlo, finisco per trovare tutt’al più qualche ricordo, che non coincide necessariamente con una causa», bensì con le pulsioni regressive che trasformano la passione per l’antico in un portato biologico («Sulla mia fantasia agì […] l’esempio della mamma») o, in alternativa, con la rivalità edipica: «Il latino l’ho imparato al ginnasio, dove alla fine riuscii a iscrivermi, dopo un’accanita lotta contro i divieti di mio padre».
Se alla ricerca di un posto al mondo subentra il segno messianico (in hoc signo vinces), l’esperienza si fa mitologia: «Io appresi la prima e la seconda declinazione da solo, esclusivamente per amore» (Gardini); «Studiavamo [alle medie] passi della Gerusalemme liberata, della Divina Commedia, e dei poemi omerici» (Mastrocola); «Al solo sentire la parola “greco” il mio amico perse di colpo il buonumore, invaso dal senso di colpa e dal bisogno irrefrenabile di confessarmi di aver saltato un’interrogazione sulla terza declinazione; solo trent’anni prima» (Marcolongo).
La rilettura in chiave mitica del vissuto porta a curiose incongruenze, che riflettono, nell’ordine, l’assillo di non apparire secchioni, i cul de sac esistenziali e la fama, tipica del Classico, di scuola inutile eppure utilissima. La palma della contraddizione spetta alla pasionaria del greco, che dice di essere «l’ultima della classe» e poi festeggia a champagne con gli amici i «successi delle rispettive vite». Mastrocola, dal canto suo, confida con eleganza ai lettori il rammarico di non esser diventata professore universitario, ma la sincerità dura poco. Al momento clou, ecco di nuovo l’autocensura: «non studio più: scrivo romanzi. Non riesco a spiegare perché». Ancora una volta il più adamantino, dietro il paravento del ricordo infantile, è Gardini, che da piccolo sognava una domus tutta per sé e per la «magnifica mamma»: «studiare il latino venne a identificarsi, per me, con una smania di – chiamiamolo imperfettamente così – progresso socioeconomico; con il sogno di una casa magnifica […] che avrei costruito con le semplici parole di Vitruvio».
Chiamiamolo perfettamente così, invece. L’ascesa poteva fermarsi al diploma, la villa poteva restare un sogno, ma la certezza o l’illusione di possedere una cultura condivisa con il medico, il notaio e il farmacista dava un senso tangibile di appartenenza sociale: «Nelle case degli amici ricchi non sfiguravo proprio perché si sapeva che ero bravo in latino» (Gardini). Inutile negarlo: motivo non ultimo del successo di questi libri presso un pubblico colto ma vario, non limitato ai docenti, è l’ebbrezza inconfessabile di confessare di “avercela fatta”, riesumando in compagnia dei Quattro un rito identitario dei bei tempi che furono.
Senonché più passano gli anni, più si moltiplicano le strade per “farcela” al di fuori dalla retta via degli studi classici, che devono così trovare una nuova ragion d’essere. È qui cominciano i dolori, perché i nostri saggisti alzano la posta in gioco, ignorando i condizionamenti storici e ideologici che influiscono sulla stesura dei programmi scolastici. Piuttosto che rivendicare una coabitazione rispettosa delle inclinazioni di ognuno – unico argine al mobbing delle scienze dure e al cannibalismo reciproco di quelle umane – i Quattro rinnovano la fede nel primato educativo della tradizione letteraria, in nome di valori astorici e razionali (Mastrocola e Marcolongo) o assoluti e metafisici (Gardini e D’Avenia), pervenendo nel complesso a conclusioni molto simili.
Mastrocola e Marcolongo, per prima cosa, chiudono le porte del tempio ormai vuoto: «Nella poesia greca è contenuto tutto ciò che c’è da sapere sull’intensità del vivere umano» (Andrea); «Penso alla sublimità di idee e opere che abbiamo raggiunto in Grecia: siamo mai più arrivati a tali vette?» (Paola). Non può sfuggire la rassicurante comodità di tali premesse: nel momento in cui l’idea stessa di cultura generale si fa aleatoria e controversa, la soluzione al problema pare a entrambe quella di riportare indietro le lancette dell’orologio. Fino a fermarle del tutto, come fa Marcolongo quando parla dell’aspetto del verbo: «Il greco antico al tempo badava poco, o punto. I Greci […], liberi, si chiedevano sempre come. Noi, prigionieri, ci chiediamo sempre quando». Noi, perplessi, ci chiediamo se Atene sia effettivamente così lontana da Torino, dove sono di casa la prof “ribelle” e il suo ribellismo anti-massa: «studiare permette di accedere a piaceri speculativi che appartengono alle più alte sfere dello spirito» (Paola); «ogni parola greca [esprime, grazie al sistema dei casi,] una volontà tutta individuale e una scelta tutta irripetibile» (Andrea).
La grammatica, per le due polemiste, è una bacchetta magica che assorbe al suo interno le forze del bene e del male, l’ordine e il disordine, gli elementi del testo e le funzioni della sociologia, rendendo così superfluo qualsiasi aggiornamento. Ciò che a loro importa, del resto, non è lo studio della letteratura come forma analogica di conoscenza, ma un esercizio “geniale” delle facoltà mentali (in soldoni: la versione dal latino o dal greco) che possa surrogare le materie scientifiche e garantire alla borghesia delle professioni un po’ di snobistica distinzione: «La perdita dell’ottativo – scrive Marcolongo citando Meillet – è la perdita di un’eleganza da aristocratici».
L’espulsione della Storia, soppiantata dai tesori della lingua, rischia di fare danni incalcolabili: della Grecia non conosciamo nulla, a parte forse la faccia onesta di Alexis Tsipras (che però è figlio di una classe politica fallimentare) o lo yogurt Fage. La stessa Marcolongo ci presenta la katharevousa, il greco candeggiato nell’Ottocento («la lingua puristica che sfiora l’idioma attico di Atene»), come lingua “partigiana” e di “resistenza”, quando in realtà, per il regime dei colonnelli (1967-1974), fu uno strumento di propaganda nazionalista e di oppressione socioculturale.
Per fortuna Gardini ci mette una pezza, smontando per noi la tesi secondo cui il latino servirebbe a “formare la mente” (ma il verbo “aprire”, più splatter, è di gran lunga più gettonato): «se il latino fosse solo questo, una palestra, allora tanto varrebbe studiare altre lingue complesse, come il tedesco, il russo, l’arabo, il cinese». E più valida ancora è l’obiezione anti-scientista: «qualcuno si accontenta di attribuire [al latino] i meriti di altri saperi, le cosiddette scienze, non vedendone i meriti propri». Perfetto, se solo Gardini avesse cura di non legittimare le pretese di autonomia dei ceti intellettuali: «il latino è bello» aggiunge spavaldo «[e] la bellezza è il volto stesso della libertà».
Il presupposto del culto della bellezza è una metafisica laica, un Somnium Gardinis che certo riserva, sulla falsariga del ciceroniano Somnium Scipionis, un posto nelle sfere celesti a quanti siano in grado di cogliere, grazie alla «lingua del rapporto tra l’uno e il tutto», «bordine stesso del cosmo», perché «il creato è scrittura, e la scrittura è creato». E chi si è visto si è visto: nell’utopia dell’Oxfordiano, i docenti proletarizzati si riqualificano professionalmente come sacerdoti del bello, lasciando ai comuni mortali le miserie o le nevrosi della scepsi.
La situazione precipita se dalla metafora passiamo alla lettera: per il ciellino D’Avenia, la tensione verso l’assoluto diventa professione di fede. Chi avrà il coraggio di apprendere L’arte di essere fragili scoprirà che Leopardi era un «cacciatore di bellezza», e che L’infinito, ma guarda!, se non è sintomo di una conversione religiosa poco ci manca.
Già da alcuni anni, ormai, lo stile mèlo di D’Avenia fa strage di cuori presso gli adolescenti. Adesso però, ahinoi, strapazza un grande autore della letteratura italiana, scelto per la sua contiguità con la tradizione classica o meglio ancora perché è un poeta: con i versi tutto fa brodo, e una solenne incazzatura può anche passare per pugna spiritualis.
La mia opinione è che questi libri, per quanto appassionati e contagiosi, facciano male alla scuola e agli insegnanti, a cui suggeriscono modelli irrealistici e metodi desueti. Se la letteratura torna a essere un’oasi di pace, dove «tutto ha una spiegazione, tutto è scomponibile in parti ed elementi primi» (Gardini), non resta che auscultare i palpiti di un poeta nell’altro, secondo un gioco di scatole cinesi che rende i docenti insicuri, schiavi delle note a fondo pagina. Tanto più che l’intertestualità funziona finché vale il principio di imitazione, poi le cose si complicano: si spiega così la prassi di fare storia della letteratura con il freno a mano inserito, un andazzo a cui il Ministero risponde con il ricatto dell’Esame di Stato («Ti fermi a Montale? Beccati Caproni, allora»).
Le nuove generazioni di insegnanti, comprensibilmente a disagio con lo strabismo Petrarca-Piumini o con la compressione dei programmi in poche ore, non trovano nei Quattro alcun sostegno: e se per volontà del fato lavorano negli istituti tecnici o professionali, si accomodino pure sul lettino dello psicanalista.
Nemmeno una parola è spesa per il biennio, durante il quale la sfasatura tra formazione individuale e didattica si fa di solito più acuta, con ripercussioni potenzialmente gravi: l’educazione alla lettura, che non disdegna i «libri di vampiri» deprecati da Mastrocola ma presenti da tempo nelle antologie, è spesso e volentieri negletta in favore dell’insegnamento di epica, degli esercizi di analisi logica e dello studio anticipato dei Promessi Sposi, ridotti magari a role playing (una sorta di teatrino in classe) non perché non siano comprensibili, ma perché, dopo tutti i discorsi sulla poesia e sui classici greco-latini, non ricordiamo più il motivo per cui li leggiamo.
Che non si possa andare avanti così lo confermano le statistiche deprimenti sulle letture degli adulti, nonché i sondaggi su piattaforme come Amazon, Anobii e Goodreads, dove sembra che le recensioni dei lettori italiani facciano una ben magra figura, se poste a confronto con quelle in lingua inglese. Stupirebbe il contrario, dopo cinque anni trascorsi in massima parte su testi poetici: per far lezione sulla prosa ci vogliono competenze precise, che diventano zavorra quando l’obiettivo è mettere in luce «il rapporto tra antico e moderno in un’aura di continuità» (Gardini). La coazione al verso è talmente forte che Mastrocola, D’Avenia e Gardini, tutti e tre narratori di successo, non si accorgono della proverbiale zappa sui piedi: chi mai leggerà i romanzi che loro stessi scrivono?
Il futuro, a ogni modo, non sembra essere un problema urgente: paghi dei rispettivi traguardi, i Quattro si accontentano di allarmi, denunce e rievocazioni nostalgiche. Di qui l’assenza di proposte concrete, di qui una predilezione (forse inconscia) per le pulsioni ferali, che conferiscono un’aura da sopravvissuti di un’epopea millenaria: Marcolongo prospetta ulteriori guai alla povera Grecia, per colpa o virtù di un passato glorioso ma «forse troppo pesante per essere sopportato», mentre Gardini fa la lista delle cose da portare sull’isola deserta: «Nell’eventualità di una catastrofe totale l’Eneide sarebbe il libro da salvare».
Più complesso è il caso di D’Avenia, che assapora la Morte con voluttà («la maturità è il momento in cui ci si scontra con ciò che ci fa sperimentare la morte»), per rivendicare all’artista una capacità di sublimare il dolore pari a quella della potenza divina; scrive lunghe lettere, inoltre, a un poeta dal «cuore pieno di morte» (Leopardi) e comunica al «Corriere della Sera» la propria ascetica rinuncia a una vita affettiva: «Il celibato è una scelta, a volte fare l’amore è dare una carezza».
Altrettanto funerea è Mastrocola, ma la Morte è per lei una divinità diversa da quella di D’Avenia, e più simile al Dio di Mies van der Rohe («God is in the details»). Nel saggio autobiografico Togliamo il disturbo (2011), di cui La passione ribelle è un compendio, la scrittrice torinese si lascia sfuggire un lapsus clamoroso: per non fare la figura della passatista, dichiara di avere una «smodata passione» per la fantascienza, e cita a mo’ di esempio l’ormai dimenticato The Day After del regista americano Nicholas Meyer, che all’apice della tensione tra Usa e Urss (1983) provò a immaginare il “giorno dopo” lo scoppio della terza guerra mondiale.
Alla fine del film Steve Guttenberg, uno dei pochi ancora vivi, si toglie il cappello da baseball, rivelando un capo completamente calvo, sfigurato dalle radiazioni, e Jason Robards si accascia sulle macerie della propria casa. «Mi piace il futuro, non penso mai che possa arrivare per davvero, però mi piace. Mi diverte». Sì, come no.