Fiorentino di nascita, Franco Fortini arriva per la prima volta a Milano nel 1943 e vi si trasferisce definitivamente nel 1943, rimanendovi fino alla morte, nel 1994. Ma Fortini abita a Milano come un ospite appartato, una “presenza distante”, mai integrato nel tessuto socioculturale della città. Eppure non può farne a meno, non può rinunciare al luogo in cui meglio si percepiscono i passi della Storia, un punto di vedetta privilegiato sulle contraddizioni del nuovo capitalismo della Penisola, una città che il poeta ha imparato ad amare «tutta, anche nei suoi lati più ripugnanti».
«Lombardia vecchia cascina / di servi siero e buoi / calcinata officina / non mi riesce d’amarti» (A Milano i tetti, 1955). Vi ha vissuto quasi tutta la vita, ma per Franco Fortini Milano non è mai diventata una Heimat. Fiorentino, classe 1917, approda a Milano il 28 luglio 1943, tenente di fanteria, per svolgere servizio d’ordine pubblico nel caos tragico e festoso del dopo fascismo. Segnato da questa esperienza, terminata la guerra, a ventotto anni, dovendo scegliere dove ricominciare daccapo la vita, Fortini opta senz’altro per Milano. Vi si trasferisce già tra il maggio e il giugno 1945 e vi sarebbe rimasto fino alla morte, nel 1994. In questi cinquant’anni Fortini abita a Milano come un ospite appartato, non come un autorevole intellettuale attivo nel tessuto socioculturale della città: vi abita da osservatore, e naturalmente da lavoratore, non da stimato membro della cittadinanza. Una minima spia di questa “presenza distante”. Ancora nel 1992 precisa che a Milano la metropolitana si chiama «metro»: è così «come la chiamano qui». E poche righe prima aveva impiegato la medesima espressione per puntualizzare, fra altro commettendo un’imprecisione, che la Stazione delle Varesine è «la Nord»: di nuovo, è così «come la chiamano qui». Insomma, dopo quarantasei anni a Milano Fortini è sì «qui», ma la città e i suoi abitanti restano una sfocata terza persona plurale.
L’estraneità di Fortini ai circoli ufficiali della cultura e della politica di Milano si accresce dopo le dimissioni dalla Casa della Cultura (1956) e l’abbandono del Partito Socialista (1957). Parallelamente, il Fortini lavoratore peregrina in lungo e in largo al di fuori dalla cerchia cittadina: è a Ivrea come impiegato dell’Olivetti ( 1947-1948), poi da pendolare a Torino come consulente di Einaudi ( 1959-1963 ), a Lecco e a Monza come insegnante nelle scuole superiori (1964-1965), a Siena come docente universitario (1972-1989). Le sue più importanti collaborazioni milanesi – anzitutto quella con il «Politecnico» (1945-1947) e con Mondadori (1958-1963, 19691975) – si devono al rapporto privilegiato di Fortini con i singoli personaggi alla guida di tali imprese: gli amici, a loro volta milanesi d’adozione, Elio Vittorini e Vittorio Sereni. In effetti, la sua presenza in città tende a dispiegarsi sottotraccia, nei termini, per lui fatalmente burrascosi, dell’amicizia e della complicità intellettuale con pochi compagni di strada: tale è il rapporto – per fare pochi altri esempi che abbracciano tre diverse generazioni nei decenni 19501980 – con Roberto Guiducci, con Franco Loi, con Cesare Viviani e Milo de Angelis. Lo stesso Fortini, nei suoi ultimi anni, nonostante le collaborazioni piuttosto stabili con i milanesissimi «Corriere della Sera» e «Il Sole 24 Ore», rileva che le sue «scritture di maggiore impegno si dedicavano a periodici e a gruppi non milanesi» (1992).
Da parte sua Milano, si sa, tende a non valorizzare come proprie le esperienze e le vite che pure accoglie e magari ritempra: impareggiabile fucina di aspettative e avvìi progettuali, non sempre è terreno di sedimentazione e consolidamento. Nel caso di Fortini, è eloquente il confronto con Siena. Assai discosto dalle istituzioni pubbliche milanesi («Il mio rapporto con le istituzioni non esiste»), Fortini, ultracinquantenne, è chiamato come docente di Critica letteraria dalla neonata Facoltà di Lettere della città toscana, dove svolge l’intero cursus honorum accademico e diventa ben presto un autorevole punto di riferimento per gli studenti, i colleghi e le istituzioni locali. Le quali non mancano di manifestargli la propria riconoscenza: il Comune con la cittadinanza onoraria, l’Università con l’anello dottorale. In meno di un ventennio Siena sembra aver messo a frutto la presenza di Fortini meglio di quanto abbia fatto Milano in quasi mezzo secolo. Non per nulla Fortini, in punto di morte, stabilisce di consegnare libri, carte e documenti di una vita all’Università senese, che oggi ne tutela e trasmette l’eredità intellettuale.
Ma riprendiamo il discorso dall’inizio: dalla decisione del giovane Fortini di stabilirsi a Milano. Nei giorni successivi al 25 luglio 1943 Fortini, appena approdato in città per la sua prima missione bellica, si sente milanese come mai gli sarebbe capitato in seguito. Se ne ha traccia nel diario di quei giorni, La guerra a Milano’. «Milano ha vissuto grandi giornate di esaltazione. Lo vedo sui visi della gente, lo ascolto nelle conversazioni. Gente che pensa e che discute, e non ha più paura dei pensieri e delle parole. […] Senti dappertutto un’intelligenza coraggiosa, come se l’aria della grande città avesse preservata questa popolazione dal torpore del resto d’Italia» (29 luglio). E ai commilitoni, che vorrebbero andarsene per sottrarsi ai bombardamenti alleati, risponde: «per conto mio preferisco Milano sotto mille bombardamenti» (11 agosto). La grande città operaia gli fa presentire una nuova libertà e la chance di una gioia condivisa, da consumare in una dimensione tutta umana: esperienza fondativa per chi, come lui, sta faticosamente trasformando la propria fede cristiano-valdese in utopia marxista.
L’inquieto e travagliato giovane deve registrare, anche al di là del piano sociale e politico, una sintonia profonda, per non dire inconscia, con le sofferenze che stanno soverchiando la città: «Per notti e notti, un milione di uomini e donne hanno atteso insieme la morte che scendeva dal cielo come una condanna, secondo una giustizia contro la quale erano vane tutte le nostre ragioni» (17 agosto). È noto come “condanna” e “(in)giustizia” siano chiavi di volta dell’animo fortiniano: «Mi è stato fatto non so quando un male. / Una ingiustizia strana e indecifrabile / mi ha reso stolto e forte per sempre» {Leggendo una poesia). Una condizione, quella qui descritta, scissa fra disperazione e resistenza, da cui è disceso l’incessante corpo a corpo, e potremmo dire la guerra, di Fortini con il reale.
Una simbiosi intima e disperata come questa non poteva che essere transitoria. Ristabilitesi le forze conservatrici e imboccata la via della ricostruzione e del boom, Milano si prodiga a cancellare le recenti ferite e, insieme a loro, la drammatica solidarietà diffusasi fra i suoi abitanti negli ultimi anni di guerra. E prende a mostrare il volto della guarigione e poi del benessere, conquistati a colpi di modernità: «La disgrazia di queste case, / cortili di tisi e panni, / presto non sarà più. // Gresìte e vetroflèx / faranno giustizia degli anni, / di noi, di me, di te» (La forme d’urte ville, 1957). I cittadini rifugiati nel sottosuolo non sono più quelli dei bombardamenti, ma gli abitanti dei quartieri dormitorio: «Nella Valle Padana / ora le talpe dormono. / Opaca tana enorme / di palta è la città» (Milano 1953). E in questi anni che Fortini prende a frequentare ogni estate, e non solo, il sereniano “posto di vacanza”, vale a dire Bocca di Magra, nel comune di Ameglia: più precisamente Fortini si stabilirà nella frazione di Montemarcello, nel cui cimitero, non a caso, ha voluto fossero conservate le sue ceneri. Rifugio di otium, le cui schiette bellezze naturalistiche fanno da contraltare alla caliginosa metropoli padana, questo scorcio di riviera ligure sempre più di frequente farà capolino nei versi fortiniani della maturità, proprio a scapito di Milano.
Nel corso degli anni cinquanta viene dunque meno l’ammirazione per la grande città, ma non il legame con essa, visto che Fortini non smette di ritenerla il luogo in cui meglio si percepiscono i passi della Storia, il punto di vedetta più avanzato sulla crescita e sulle contraddizioni del nuovo capitalismo della Penisola. Su tale nuova situazione Fortini, affrancato com’è da qualsivoglia mito ambrosiano e dal rischio di cedimenti sentimentalistici, posa la sua solita attenzione lucida e spietata: «[…] ho sempre creduto si dovesse difendere il significato esemplare e il valore cosmopolita della inumana Milano, con le sue legioni di ingegneri, di ragionieri, di operai aspiranti borghesi, e anche con le sue civetterie americane e centroeuropee; pur se, d’altra parte, in questa più che in altre città fossero evidenti ed orribili le devastazioni prodotte dal conformismo moderno di massa, dalla industria culturale, e dalla degenerazione adiposa delle ideologie socialdemocratiche» (Milano, 1957). In questo giro d’anni i versi fortiniani ospitano con inedita frequenza immagini di Milano: e sono appunto chiamati a registrare la sofferta messa a fuoco dell’identità cittadina in mutamento. Si tratta di immagini a vocazione espressionistica, che restituiscono dolorose metamorfosi, violenze, umiliazioni: «Grigi broli di Vigentina, arbori / di brine e corti che l’accetta in queste / albe ispide atterra e i fusti spoglia […]. // Draghe di ortiche, gru di ferri irti / dove il cemento di caglia […]» (Cisalpina, 1956). Non stupisce che, acquisite tali consapevolezze, la poesia posta a suggello di questa folta serie milanese sancisca la strategia fortiniana della presenza-assenza: «“Io, questa città” dissi “non importa, /l’attraverso; e che farci?” […]» (Dialogo, 1957).
Nel rapporto di Fortini con Milano una svolta ulteriore ma in direzione opposta – avviene a seguito dei movimenti studenteschi, quando una nuova emergenza torna a scuotere e stimolare la collettività cittadina. L’esame di coscienza che i figli del primo benessere italiano fanno ai propri padri (e padri di quel benessere) non mette in scacco Fortini, che pure appartiene ormai alla generazione dei maestri e dei padri. Al contrario, si propone ai giovani come fratello maggiore e come tale viene riconosciuto. Se il «boom economico aveva tagliato radicalmente le forze di una certa cultura di sinistra e Milano appariva in quegli anni come una città di tipo prettamente commerciale e bancario», alla fine degli anni sessanta muta lo spirito della città: «Il tipo di grinta tragica che Milano ha indossato dopo il ’69, a partire dai duecentomila in piazza per le vittime della Banca dell’Agricoltura, questo stillicidio di attentati, di morti, di conflitti, tutto questo ha rinvigorito il tono politico e culturale della città. Lo ha drammaticamente rinnovato» (1975). In quel periodo Milano sembra identificarsi con tale recuperato fermento, non paragonabile al disperato fervore del primissimo dopoguerra, ma sufficiente a spingere Fortini a riaprire il dialogo con la città interrotto da quasi un ventennio: «i periodi di partecipazione intensa alla vita della città sono stati negli anni sessanta e nei primi settanta […]. Sono stati gli scontri di piazza, le allocuzioni improvvisate, le riunioni operaie» (1992). Grazie agli studenti, anche il muro che aveva separato Fortini dall’università milanese viene per lo meno scalfito: «Sono a Milano dal dopoguerra, eppure prima del ’68 io, che pur opero nel campo della cultura, non avvertivo affatto la presenza dell’università. Oggi il rapporto è mutato» (1975).
Nel corso degli anni ottanta e novanta, Fortini, aggiornato sulle più recenti tesi di urbanisti e geografi, ridiscute il concetto stesso di città. A questa altezza cronologica, la realtà di Milano non solo non si rintraccerebbe più nella cerchia delle mura spagnole e dei navigli, ma «neanche nella sua scoraggiante periferia di industrie e dormitori. È invece quella della trentina di comuni che la circondano e insistono gli uni sugli altri» oppure è «la disseminazione di chi fugge la città verso la elvetico-americana straricca provincia di Varese, nelle unifamiliari con vigilanti, cani, piscine, kamasutra e sequestri» (così in un breve intervento dei primi anni novanta). Coerentemente con questa visione, la presenza-assenza nell’odiosamata Milano dell’intellettuale Fortini assume, nel suo ultimo decennio, l’aspetto di una fuoriuscita o fuga verso l’hinterland. Difficile in quegli anni ascoltare un suo intervento pubblico entro lo spazio delimitato dalle circonvallazioni: «Meglio la piccola saletta di una libreria in Brianza, la biblioteca comunale di un comune della Bassa, l’aula di una scuola verso Treviglio o Mortara, il circolo di Cinisello Balsamo o di Cesano Maderno» {ivi). Ma il cittadino Fortini vive convintamente nel cuore di Milano fino alla fine: «Amo questa città di Milano, credo non potrei essere vissuto in nessun’altra città italiana. La amo tutta, anche nei suoi lati più ripugnanti, come certe vie centrali travestite» (1992). Arduo sciogliere la contraddizione, come del resto ogni incrinatura annidata nelle biografie. Questa andrà recepita nei termini di una lunga e sofferta fedeltà all’innamoramento sperimentato dal giovane tenente nel luglio 1943 : sentimento poi cristallizzatosi in una paradossale o dialettica fedeltà al cardine del capitalismo italiano da parte di un marxista fra i più curiosi e aggiornati che le patrie lettere abbiano conosciuto.