Finali quasi felici

A partire dalla seconda metà del XIX secolo la potenza modellizzante e il valore simbolico delfinale vengono rimodulati dall’esigenza di dare corpo alla complessità del reale e alla sua irriducibile ricchezza di senso: ne deriva una folla di finali ambigui, problematici, se non aperti. Tuttavia la letteratura non ha mai smesso di ricoprire anche una funzione consolatoria, che fa tutt’uno con la sua esteticità e s intreccia con la necessità di una proiezione empatica. Per questo appaiono particolarmente interessanti i finali “felici però”, dove il balenare di una soluzione positiva si accompagna a persistenti ombre, problematicità, ambiguità.
 
La narrativa della modernità ha attribuito al finale nuova forza e nuova densità di significati. Come ha mostrato magistralmente Ian Watt, nel suo imprescindibile Le origini del romanzo borghese, il modello epistemologico da cui nasce il romanzo moderno dà la priorità alla novità dell’esperienza e del sapere individuale, una novità che fa tutt’uno con la novità dei contenuti (non a caso in inglese il romanzo si chiama novel). I romanzi, a differenza dei miti, raccontano eventi nuovi, ignoti al pubblico, rappresentando «persone particolari in circostanze particolari» (p. 13). La nuova tendenza alla “particolarità” si manifesta nella individualizzazione dei personaggi, nella rappresentazione dettagliata degli ambienti, nei nomi propri dei personaggi, che rimandano a contesti specifici, e infine nella radicalità con cui le identità individuali vanno definendosi in rapporto al tempo, agli eventi che le vanno costituendo. Si viene così a creare una solidarietà profonda tra le invenzioni d’intreccio, e più specificamente la suspense, e la rilevanza, anzi, di più, la potenza simbolica del finale, che suggellando uno o più destini dà forma e orientamento definitivi al mondo che il testo è andato via via costruendo. Come ben mostra la semiotica del testo e della cultura, l’inizio e la fine, cioè la cornice, hanno, in generale, una evidente funzione modellizzante. Ma il pensiero moderno accentua «la funzione di modello della fine»; più esattamente, nel testo narrativo moderno «la funzione codificante […] è attribuita all’inizio, e la funzione “mitologizzante” dell’intreccio alla fine» (Jurij Lotman, La struttura del testo poetico, pp. 259 e 261). La potenza mitologizzante del finale narrativo, il suo formidabile valore simbolico, nel corso del XIX secolo si integra sempre più profondamente con l’esigenza di dare corpo alla complessità del reale, alla sua irriducibile ricchezza di senso, generando una folla di finali ambigui, irrisolti, aperti, enigmatici, troncati in modo da non apparire come finali, in fading e così via. Tutte queste forme di finale sono in qualche modo “strutture zero”, cioè strutture che negano proprio la struttura che paradossalmente non smettono di essere: finali che, come direbbe Pirandello, «non concludono», cioè fingono di non concludere davvero, ma che pure, in quanto finali e, di più, finali moderni, devono non solo concludere, ma altresì incarnare quella funzione simbolica rinforzata, intensificata, che vorrebbero negare.
Questa dinamica si complica anche perché, per dirla con formulazione volutamente contraddittoria, perfino la narrazione meno consolatoria non sfugge a una qualche funzione consolatoria, che fa tutt’uno con la sua esteticità; e, a maggior ragione, anche la narrazione meno empatica è chiamata a suscitare comunque una qualche empatia: altrimenti, come ha mostrato autorevolmente Hans Robert Jauss, non darebbe luogo a nessuna interpretazione, anzi addirittura a nessuna ricezione. Di questa dinamica danno indiretta ma robusta testimonianza i molti testi sperimentali e persino avanguardistici che, quasi contraddicendo la loro conclamata innovatività, si chiudono sull’evento più tradizionalmente patetico, empatico e, piaccia o no, catartico: la morte violenta di un protagonista. Mi limiterò a citare a questo proposito tre romanzi diversissimi come Ragazzi di vita (1955) di Pasolini (con 1’“aggravante” dell’età infantile del morto), Fratelli d’Italia (1963,1976,1993) di Arbasino, Horcynus Orca (1975) di D’Arrigo. La tentazione del patetico, se non del mèlo, con la sua rassicurante unilateralità, alberga dunque, come si è visto, anche nel cuore delle più ardite sperimentazioni, restituendo nuova, inattesa lena alla funzione consolatoria, per quanto in vario modo tenuta a bada. Da questo punto di vista, l’happy end gioca una partita profondamente simile. Solo che la sua spudorata azione consolatoria è ancora più vistosamente in contraddizione proprio con quell’esigenza di mettere in scena la complessità che è al cuore della letteratura moderna. Il finale tragico, almeno, manifesta il conflitto, e parrebbe per definizione comunque intriso di dialettica, se non altro perché impone l’evidenza della mancata conciliazione, dell’impossibilità di una pacificazione; laddove il finale felice sembrerebbe incaricato proprio di spegnere la contraddizione, sotto ogni rispetto, di pacificare e per questo di rispedire i propri lettori nel mondo consolati, e dunque poco critici e poco battaglieri. Pure, come hanno ben visto Adorno e Horkheimer, anche l’happy end, anzi ogni manifestazione dell’esteticità, persino quelle delle pubblicità, non smette di alludere all’utopia, di far balenare un mondo di armonia, che, per quanto pacificato, anzi proprio perché pacificato, nel suo fondo ci parla di un’alternativa possibile alla quotidiana sofferenza, o, che è quasi peggio, alla quotidiana mediocrità. E tuttavia, proprio perché la realtà non smette di essere inospitale, ogni happy end appare come una concessione discutibile, anche quando non smodata, a un di più di consolazione che fatalmente puzza di antirealismo, e dunque costituisce un arretramento sostanziale rispetto alle conquiste epistemologiche, oltre che estetiche, della modernità letteraria. A maggior ragione perciò mi paiono degni d’interesse, nell’infinita varietà dei finali narrativi, i finali che potremmo dire “quasi felici”, “felici però”, quelli dove al balenare di una soluzione positiva si accompagnano ombre, problematicità, ambiguità più o meno vistose: a mostrare che anche l’happy end può lasciare spazio alla ininterrotta percezione della problematicità e complessità del reale.
Proverò qui di seguito a ricordarne sommariamente alcuni, con la speranza che possano alludere, se non a vere e proprie tipologie, almeno a modalità ricorrenti. In apertura, è impossibile non fare riferimento alle pagine memorabili di Il romanzo senza idillio (1974), in cui Ezio Raimondi metteva in luce le dissonanze, le componenti ironiche, l’autodenunciato conformismo del più celebre e con ogni probabilità più celebrato happy end della letteratura italiana, quello de I Promessi Sposi: «Mentre si crede di aver toccato un epilogo pacifico, sottomesso alla rinunzia o alla rassegnazione, il discorso segreto di tutto il romanzo si rimette in moto e si porta dietro l’angoscia della storia, l’inquietudine della contraddizione, il sentimento dell’assurdo» (p. 189). Il “caso Renzo Tramaglino”, chiamiamolo così, mette peraltro esemplarmente in luce come proprio nei romanzi di formazione “classici”, e risolti, quelli dell’integrazione raggiunta, si celi, fin dall’archetipo del Wilhelm Meister, la problematicità irriducibile delle rinunce cui fatalmente obbliga il raggiungimento di «quella che chiaman la maturità», come direbbe Francesco Guccini.
Facendo subito un salto in avanti verso il XX secolo, si colloca pressoché agli antipodi dei casi or ora evocati un altro testo capitale, ed emblematico, Uno, nessuno e centomila (1926) di Pirandello, che nel suo ultimo celeberrimo capitolo, Non conclude, configura in qualche modo il raggiungimento di una paradossale felicità. Vitangelo “Gengè” Moscarda si ritrova in un ospizio, dove, privato del “nome”, cioè non solo dell’identità, ma, più radicalmente, del principium individuationis, può essere finalmente del tutto «vivo» e «Rinascere attimo per attimo»: «Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita». I toni estatici di questa raggiunta fusione con l’originario, cioè con la Vita, non smettono d’altro canto di denunciare il prezzo altissimo di questa dolorosa felicità, anche e proprio perché sottolineano che comunque questa sarebbe l’unica felicità possibile, che esige di rinunciare alla vita sociale e alla propria identità, anzi addirittura alla coscienza di esistere: il che significa di fatto denunciare la vita sociale come sede di un’irredimibile infelicità. Alla faccia della raggiunta felicità dell’essere finalmente e pienamente vivo.
Un altro tipo di happy end problematico è quello che definirei della positività a corso forzoso, che si riafferma emblematicamente proprio nel finale: ma a suggello di vicende drammatiche o tragiche senz’altro, cui la conclusione “felice” impone una torsione vistosa, quasi un’inversione a U. È il caso, fra gli altri, di vari romanzi di Moravia: come La ciociara (1957), con l’immagine di Rosetta che, dopo lo stupro subito, con la trasformazione da rigida santarella a spregiudicata ragazza facile, alla vista di Roma, cioè della ritrovata “casa”, si mette a cantare, ritrovando qualcosa di sé che pareva irrimediabilmente perduto, con implicazioni simboliche fin troppo scoperte. Significativamente, le carte moraviane ci mostrano che l’autore aveva in un primo momento scritto un finale assai più ambiguo, anzi dai toni sin troppo unilateralmente acri, con una Roma cupissima, popolata da figure truci e irredimibili, a cominciare dalle ragazze: «sembrava che tutte le donne di Roma fossero diventate puttane»; e dove Rosetta dichiara a un’affranta Cesira di essere persino pronta ad «andar a fare la puttana con i soldati americani», pur di non spendere i soldi insanguinati sottratti dalla mamma al cadavere di Rosario. Anche La noia (1960) porta i segni di un volontarismo etico un po’ sospetto, con un Epilogo che impone un suggello positivo all’ossessione sessuale del narratore Dino per la procace adolescente Cecilia: una vicenda di progressivo, inesorabile degrado, a prima vista ben poco disponibile a uno sviluppo virtuoso, non a caso del resto generato letteralmente per via di trauma, con il quasi-suicidio di Dino, che va sbattere con l’auto contro un albero, e in ospedale avrà poi l’epifania della verità. Non è questa la sede per discutere nel dettaglio l’interpretazione dei romanzi di Moravia, e la coerenza, o viceversa il carattere forzoso, di questi finali. Ma vale la pena di citare un altro finale, ancora più irriducibilmente ambiguo, e per questo esemplare del modo in cui un happy end può essere imbevuto di veleni: è la chiusa di La romana (1947), dove la finale gravidanza della protagonista e narratrice Adriana costituisce un’innegabile evidenza positiva, a ribadire simbolicamente la continuità della vita, che proprio Adriana è in grado di riaffermare e rilanciare, potenzialmente all’infinito, pure nel mondo corrotto che l’ha condotta a prostituirsi. D’altro canto, Moravia dispiega con calcolata malizia ombre conturbanti, che l’improbabile normalizzazione suggerita da Adriana denuncia senza appello: «Pensai a Mino e poi pensai a mio figlio. Pensai che sarebbe nato da un assassino e da una prostituta; ma a tutti gli uomini può capitare di uccidere e a tutte le donne di darsi per danaro; e ciò che più importava era che nascesse bene e crescesse sano e vigoroso». Con tanti auguri al frugoletto, ça va sans dire, ma anche a chi avrà la ventura di incontrarlo…
Il finale di La ciociara, ma per altri aspetti anche quello di La romana, si accosta a una tipologia fondamentale di happy end ambiguo, orientato in una direzione assai vicina a quella del prestigioso modello manzoniano. E il caso dei finali dove il protagonista si salva, e raggiunge persino una sua solida felicità privata, mentre però la sua salvezza, e dunque la positiva risoluzione dell’intreccio, risaltano su uno sfondo che non cessa di ribadire la tragicità della Storia. Su questa linea si collocano, pressoché agli estremi, due finali accomunati dall’evidenza di una normalità ritrovata al termine della guerra: quello di Se questo è un uomo (1947) di Primo Levi («Charles ha ripreso la sua professione di maestro; ci siamo scambiati lunghe lettere e spero di poterlo ritrovare un giorno») e quello di I piccoli maestri (1964, 1976) di Meneghello, dove il flagrante understatement non consente di sminuire l’importanza della contrapposizione: «Così accompagnammo a Padova l’ottava armata, e poi io e la Simonetta andammo a dormire, e loro li lasciammo in una piazza». Ma anche Cristo si è fermato a Eboli (1945) di Carlo Levi evidenzia, nella personale liberazione del protagonista e narratore, la persistenza quasi atemporale dell’inferno collettivo della Lucania e del Meridione d’Italia: «e pensai con affettuosa angoscia a quel tempo immobile, e a quella nera civiltà che avevo abbandonato».
La salvezza individuale può però, ambiguamente, andare di pari passo con le colpe del protagonista: che riesce a farla franca, ma proprio per questo, lungi dal risolvere il problema, lo perpetua e nasconde per sempre. In questi casi, la soluzione positiva, pur non essendo solo apparente, si carica di ambiguità irriducibili, declinabili nel senso della riprovazione morale, fino ai limiti dell’impunità ai sensi del codice penale. Si pensi a uno dei pochissimi romanzi sull’imperialismo coloniale italiano, il memorabile Tempo di uccidere (1947) di Ennio Flaiano, dove il protagonista e narratore, ufficiale dell’esercito italiano d’occupazione nell’Etiopia degli anni trenta, uccide per sbaglio un’indigena con cui ha fatto l’amore, teme di esserne stato contagiato dalla lebbra, si trascina fra paure e rimorsi, ma nel finale capisce di averla fatta franca: «“Mi sembra inutile parlare di delitti visto che nessuno mi cerca.” / “Sì,” rispose “proprio inutile.” / “Se nessuno mi cerca,” insistei “possiamo andarcene.” / “Tranquillamente” rispose. “Il prossimo è troppo occupato coi propri delitti per accorgersi dei nostri”». O si pensi a Il dio di Roserio (1954) di Giovanni Testori, dove il protagonista Pessina, promessa del ciclismo dilettante, torna a correre e vincere dopo avere scoperto che il suo gregario Consonni, che ha fatto cadere e rovinato per sempre, è così rimbambito che non sarà mai in grado di denunciarlo: così anche Pessina se la cava a buonissimo mercato, ma proprio per questo sarà condannato a vivere per sempre con il proprio rimorso, che non può condividere con nessuno. Con calcolato gioco di contrasti, in altri racconti di I segreti di Milano (1958-1962) il Pessina viene presentato come persona particolarmente affidabile: ovviamente dagli altri, che lo ammirano senza sospetti, perché appunto nulla possono sapere del suo delitto. In finali di questo tipo, proprio il fatto che il protagonista se la cavi consegna alla materialità della soluzione positiva, o meglio positiva per lui, un senso ambiguo e tutt’altro che rassicurante, anzi senza mezzi termini angoscioso: perché proprio quella salvezza denuncia la possibilità, o forse la certezza, che la violenza e la colpa continueranno a operare impunite.
Ai finali “felici però” possiamo accostare anche i finali dove la felicità si realizza dopo un’attesa molto grande, che non può cancellare il rammarico del tempo perduto. Distinguerei il finale “felice, ma non ancora”, dove l’attesa è ancora in corso, da quello dove l’attesa è finalmente terminata, ma comunque è stata troppo lunga, così che la chiusa sarà pure “felice, ma forse (troppo) tardi”. Per il primo caso, si può citare La ragazza di Bube (1960) di Carlo Cassola: Arturo Castellucci, detto Bube, sta ormai scontando la sua pena a quattordici anni per l’omicidio del figlio del maresciallo; alla fine del romanzo «Sono passati quasi sette anni, passeranno anche questi altri sette», commenta Mara, con incrollabile serenità. Significativamente, l’ultima scena ci mostra Mara che, attraverso il finestrino della corriera, vede il sole, che «attraversando coi suoi raggi obliqui la nebbia, accendeva di luccichii il fondovalle»: correlativo oggettivo della positività e della speranza che fanno capolino nell’animo della dolente ma determinatissima Mara. Sui confini fra l’estatico e il tragicomico si colloca il finale di uno dei più bei romanzi di Gabriel Garcia Màrquez, L’amore ai tempi del colera (1985), dove Florentino Ariza realizza finalmente il suo sogno d’amore con Fermina Daza, dopo un’attesa durata qualcosa come «cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni con le loro notti». L’entusiastica dichiarazione finale di Fiorentino, che proclama all’esterrefatto capitano della nave di avere davanti «Tutta la vita» per continuare la crociera fluviale appena avviata con Fermina, non cancella certo l’amarezza atroce del tempo perduto: e tuttavia Garcia Màrquez ci fa sentire vicini piuttosto alla positività e all’incrollabile vitalità del protagonista, davanti al quale il capitano è spaventato dal «sospetto tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere limiti».
La percezione acutissima del passare del tempo, dolente e al tempo stesso estatica, fa parte del resto della vocazione profonda della letteratura moderna. Che si incarica di cogliere il dolore del mondo, la morte, la perdita, ma assegnandosi al tempo stesso la missione di riscattare almeno in parte l’insensato, costituendo, nonostante tutto, un regime di senso, dove anche il tempo perduto può essere ritrovato, come nella geniale, monumentale invenzione proustiana della Recherche (1913-1927). Da questo punto di vista, la narrativa dell’Occidente moderno è costellata di opere che, pur rappresentando sofferenze e tragedie, si chiudono con la constatazione, fragile e però irriducibile, di avere comunque dato luogo a un universo di senso: che è consolazione, magra e insieme sostanziale, anche perché fa tutt’uno con la certezza di avere conseguito un risultato certo, che infatti è proprio lì, sotto gli occhi del lettore. Così avviene, per esempio, in un caposaldo del Novecento letterario come Gita al faro (1927) di Virginia Woolf, che si chiude, con evidenti implicazioni metaletterarie, con l’ultima pennellata che finalmente Lily Briscoe riesce a dare al proprio quadro: «Con intensità improvvisa, come se vedesse chiaro per un attimo, tracciò una linea là, al centro. Era fatto; era finito. Sì, pensò, posando il pennello sfinita, ho avuto la mia visione». La constatazione autoriflessiva di avere dato luogo a un mondo di senso, pur nella ferma consapevolezza che questo mondo resta altro dal mondo reale, innerva anche il finale di uno dei massimi capolavori del Novecento italiano e mondiale, Menzogna e sortilegio (1948) di Elsa Morante, che si chiude con i versi del Canto per il gatto Alvaro, immagine polisemica della fantasia creatrice e della letteratura, che svela senza mezzi termini la sua funzione consolatrice: «tu mi consoli, / o gatto mio!». La tragedia del mondo non ne viene certo sminuita, ma pure si accompagna alla certezza che, comunque vadano le cose, la letteratura c’è, e ci aiuta a vivere: «L’allegria d’averti amico / basta al cuore». Non è proprio un finale felice, ma quasi.