Il lieto fine viene generalmente considerato segno di una narrativa dedicata a fruitori librari di piccolo rango, ma una struttura romanzesca che approdi alla gratificazione dei valori letterari ed extraletterari più positivamente acconsentiti può avere il rispetto dei lettori più esigenti: si pensi alle vicende di Renzo e Lucia, al caso esemplare di Pinocchio, o al sorprendente finale della Romana. La presenza del lieto fine concerne essenzialmente la prosa della narratività moderna, fino al paradosso del romanzo poliziesco, in cui non è l’eroe dell’opera, il malfattore, a trovare un esito positivo, ma chi lo ha consegnato alla giustizia.
Il signor Bonaventura, personaggio mitico del «Corriere dei Piccoli», concludeva sempre le sue avventurette in rima parisillabica, alle prese con il bieco Barbariccia, faccia e anima gialliccia, intascando vittoriosamente la regalia di un milione netto. Insieme, sullo stesso settimanale si faceva avanti un altro personaggio, il Sor Pampurio, che sistemava i guai della casalinghitudine riprendendo in servizio la modesta domestica Rosetta, col grembiulino bianco, cui scriteriatamente aveva dato lui stesso gli otto giorni.
Siamo davanti a due casi esemplari di narrativa comica a destinazione infantile, e come tale concepita all’insegna del sorriso più cordiale.
Ma la preoccupazione di rasserenare e allietare i lettori dei racconti d’invenzione circolanti nel mercato librario, più o meno foschi che siano, c’è poi o c’era chi la esercita abitualmente pure nel campo degli adulti, non dei bambini: ecco anzitutto il genere del cosiddetto romanzo rosa, calibrato secondo le aspirazioni di lettura più riconoscibilmente consone a una parte cospicua della clientela libraria femminile, la meno esigente culturalmente.
La tipologia è quella del racconto d’intreccio, incentrato sulla vita dei sentimenti privati, con una attenzione particolare per i problemi le difficoltà gli inganni e disinganni del vissuto donnesco, colto nella fase di passaggio dalla fanciullezza alla maturità. La roseità della vicenda sfocia nell’episodio conclusivo, incarnandosi in una figura maschile atta a soddisfare i sogni le ambizioni gli struggimenti e le ingenuità ma anche le timidezze e gli equivoci delle giovani lettrici. Il Principe Azzurro è uno dei non molti miti che la modernità abbia messo a disposizione di un pubblico davvero largo. Liala è il nom de plume ben sonante della scrittrice regina di questa produzione grossolanamente incantatrice.
Ma dunque la tipologia del lieto fine sembrerebbe di per sé segno indiscutibile di un lavorio d’immaginazione narrativa condotto per assecondare la povera mentalità di ceti e categorie di fruitori librari di piccolo rango o per minorità anagrafica o per livello di acculturazione scolastica o extrascolastica.
Ovviamente no, invece non è affatto così: una struttura romanzesca che approdi alla gratificazione dei valori letterari ed extraletterari più positivamente acconsentiti può avere il rispetto anche dei lettori più esigenti e anticonformisti. Non è detto che l’epilogo di una storia d’amore debba essere indiscutibilmente un matrimonio e come tale perda cittadinanza nell’ambito della letterarietà più qualificata. Il punto essenziale è che l’episodio finale di una vicenda romanzesca non può comunque esser considerato isolatamente, fuori del contesto narrativo entro cui è nato e ha acquistato senso e scopo.
Ma allora va riconosciuto indiscutibilmente che l’evento conclusivo, nella sua positività ottimistica, ha la funzione di un risarcimento dei guai gli errori gli inganni che il personaggio abbia vissuto nel corso della vicenda. L’ovvia premessa è che, naturalmente, senza iatture, senza smarrimenti, senza affanni non c’è vicenda che possa venire scritta. Ma la peculiarità della prospezione romanzesca è il carattere aperto della sua struttura. Anche una successione di peripezie le più calamitose può accadere che un colpo d’ala la sollevi inattesamente a uno stato di beatitudine.
Insomma, è banale dirlo, ma Renzo e Lucia ne hanno passate di tutti i colori prima di congiungersi matrimonialmente. Lei è stata rapita, ha rischiato di venire violentata ma anche di finire zitella; lui ha passato il pericolo di venir chiuso in galera; e tutti e due hanno traversato l’epidemia della peste: il lieto fine della loro storia di fidanzati costituisce l’epilogo felice di una somma di traversie le più tumultuose.
Ma il punto è che va sempre così, la legge non scritta del canone romanzesco vuole che le cose arrivino a finir bene benissimo solo in quanto segnino la compensazione di una successione di guai: o che si tratti del fu Mattia Pascal o della ragazza di Bube cassoliana o dell’ignoto marinaio consoliano o di quant’altri casi esemplari si vogliano elencare.
Senza sovrabbondare in una infinità di riferimenti, c’è però almeno un caso davvero esemplarissimo che vale la pena di ricordare: quello di Pinocchio, che assume identità umana dopo essere stato un burattino di legno, in quanto ha lavorato duramente per dar salute al vecchio babbo malconcio. E l’apologo non avrebbe potuto essere più illuminante: la massima nobilitazione di vita giunge dopo che il personaggio l’ha meritata ravvedendo se stesso. Dunque una autentica metamorfosi che rappresenta il migliore di tutti i lieto fine magicamente possibili.
Ma allora implicitamente il significato e la portata della letizia conclusiva assumono un carattere davvero epilogico: costituiscono il risarcimento dei guai, i disagi, le sconfitte subite nel corso di una vicenda sempre laboriosa, sempre controversa. Questa infatti è in definitiva la contropartita dei malanni e patimenti che la vita romanzesca irreparabilmente prevede. Naturalmente non è detto che tutti gli accidenti patiti durante il percorso esistenziale siano ripagati in maniera adeguata. Ma decisivo è che la fase finale ripaghi delle sofferenze patite in precedenza. Se c’è un approdo di letizia, ciò accade perché è stato superato un periodo di difficoltà, sconfitta, avvilimento.
In definitiva, il lieto fine ha senso in quanto rappresenta il bilanciamento di una situazione opposta, e costituisce la vittoria di una dinamica di attivismo positivo di contro a una situazione di impotenza inadeguatezza dolorosità inane. E la vitalità insomma che riesce a prevalere sull’inettitudine. D’altronde è altamente significativa la frequenza con cui l’epilogo narrativo d’indole dichiaratamente ottimistica prenda corpo concreto nella forma di accadimento d’una nascita o comunque esponga una situazione natalizia: così accade nel caso di Mattia Pascal, che è presentato al lettore con il titolo mortuario «Il fu», ma esce di scena avendo a che fare con un marmocchio.
Quest’ultimo caso è tutt’altro che insolito, ma non è detto sia pacioso: l’epilogo neonatale più sorprendente ci viene offerto dal Moravia di La romana, dove una giovane puttana di mestiere rimane incinta di un assassino brutale ma attribuisce la paternità a un fidanzato danaroso morto suicida. Ecco allora il più paradossale dei lieto fine, cinicamente e pateticamente escogitato in chiave ultraromanzesca: «Pensai che sarebbe nato da un assassino e da una prostituta; ma a tutti gli uomini può capitare di uccidere e a tutte le donne di darsi per danaro; e ciò che più importava era che nascesse bene e crescesse sano e vigoroso. E decisi che se fosse stato un maschio l’avrei chiamato Giacomo in ricordo di Mino. Ma se fosse stata una femmina, l’avrei chiamata Letizia, perché volevo che, a differenza di me, avesse una vita allegra e felice ed ero sicura che, con l’aiuto della famiglia di Mino, l’avrebbe avuta».
Il lieto fine insomma può essere tutt’altro che un dato di beatitudine felice: ma è certamente connesso a uno stato d’animo vincente, intrinsecamente attivistico.
D’altronde può essere che la responsabilità dell’evento vissuto positivamente sia dovuta a entità naturali o sovrannaturali che oltrepassino di gran lunga i poteri del personaggio in causa, e si pongano come donativi, o meglio, come risarcimenti da parte di entità superiori a fronte di comportamenti meritevoli di un compenso supremo.
Una divinità benevola può esser ritenuta artefice di privilegi straordinari elargiti ai suoi fedeli più degni. In casi simili il lieto fine della vicenda biografica o presunta tale può assumere l’aspetto apologetico dell’agiografia. E il resoconto compunto delle pene che è occorso loro di attraversare verrà aureolato della luce suprema della santificazione.
Insomma il patimento sofferto voluttuosamente come purificazione gaudiosa capovolge la sofferenza del sacrificio di sé nell’esaltazione di sentirsi portatori di un messaggio infinitamente gaudioso.
Dunque il lieto fine può assumere un ruolo di esaltazione beatifica in vista di un oltrepassamento delle miserie terrene. Ma il timbro dell’esultanza encomiastica può anche illustrare forme del sacrificio di sé in qualche modo laiche, impostate su devozioni altamente fideistiche dotate di alto livello di consenso, di indole più o meno unanimistica. In circostanze spaziotemporali determinate può essere che il patriottismo o altre convinzioni ideologiche, di presa efficace, come si sa possono aver esaltato i loro teoremi più fascinosi in forme di devozione eccitatamente parossistica. Ma l’approdo conclusivo delle retoriche più efficacemente propagandistiche, nel nome degli eroismi più ipnotici, esula dalle proposizioni della discorsività etico-estetica.
La presenza del lieto fine concerne essenzialmente la prosa della narratività moderna, e quindi la fortuna di personaggi plurivoci che possono cambiare o essere cambiati nei loro comportamenti lungo il corso delle vicende, in conformità delle singole tipologie secondo cui sono stati plasmati dall’autore. Resta però la prospezione della novità epocale portata dalla civiltà cittadinesca, che ha ingenerato una figura professionale specializzata nel perseguire la soluzione più sagace delle vicende di malaffare più problematiche e controverse. Naturalmente la sicurezza del buon esito della caccia al delinquente, nell’ambito della finzione narrativa, incrementa il fervore concesso negli episodi di caccia poliziesca. Ma nel rapporto tra difficoltà dell’inseguimento e serenità della conclusione sta la chiave di volta delle vicende d’avventura nella socialità del XXII secolo: con una differenza forte tuttavia. Che identifica pienamente la peculiarità statutaria del lieto fine poliziottesco: esso non riguarda l’eroe dell’azione avventurosa, che è il malfattore, ma chi lo ha consegnato alla giustizia, ossia lo ha vinto.