Con la rottura tra Associazione Italiana Editori e il Salone del Libro, l’industria editoriale rivendica un ruolo diretto nella promozione della lettura: a Milano la nuova fiera Tempo di Libri promette di creare una rete di visibilità per l’editoria e per i lettori. Mentre il Salone di Torino, passato il periodo di difficoltà, cerca di darsi una nuova struttura organizzativa che lo renda più competitivo.
Sui quotidiani italiani l’estate dell’editoria libraria, una volta tanto, è stata succosa: due i casi che si sono rincorsi sulle pagine, uno in superficie, l’altro in profondità. Il primo – la caccia all’identità segreta di Elena Ferrante – ha sfiorato il ritmo della telenovela, ma è un esempio di come il mondo professionale del libro si sforzi, una volta tanto con buon successo, di avventurarsi nella comunicazione con il grande pubblico. Il secondo caso è invece una vera svolta: la battaglia tra il Salone del Libro di Torino e Tempo di Libri, la nuova fiera del libro di Milano.
Il Principe e il Mercato
Il Salone torinese è una manifestazione trentennale, con un profilo di aristocrazia culturale decisamente in linea con la sua collocazione geografica e storica: figlio prediletto delle amministrazioni locali, nutre grande attenzione per i valori e grande rispetto per le tradizioni. Insomma è un po’“sabaudo”, come lo definiscono poco caritatevolmente alcuni piccoli editori – non torinesi – come Mario Mastropietro, già a capo di Edizioni Lybra Immagine (piccolo editore del settore dell’architettura e degli allestimenti espositivi), che confessa di aver puntato sul Salone di Torino solo per poco: «Dopo cinque o sei anni non sono più andato a Torino: quello che contava, mi sembrò, era l’approvazione del “principe”, cioè delle amministrazioni pubbliche che finanziavano il Salone. Poco interesse per i cataloghi, poca attenzione per l’editoria specializzata. I costi all’inizio non erano pesanti, il problema era il carattere troppo generico della manifestazione, e anche del pubblico: sciami di scolaresche sostanzialmente disinteressate. Torino ha intelligenze, conoscenze e persone per attuare programmi qualificati, ma in definitiva manca storicamente (dai Savoia agli Agnelli alle amministrazioni pubbliche di oggi) la volontà di confrontarsi con il mercato».
E non mancano testimonianze altrettanto nette di editori di media dimensione in un settore completamente diverso: «Il Salone di Torino è sempre stato esattamente questo: una megalibreria costosissima dove TUTTI gli editori perdevano migliaia di euro, nonostante gli ipocriti proclami di molti che a fine Salone brindavano alle vendite» (Marzio Zanantoni, direttore editoriale di Unicopli, sul suo profilo Facebook, 28 luglio 2016).
Del resto una serie di situazioni convergenti ha congiurato contro la classica manifestazione torinese: bilanci 2014 e 2015 in pesante passivo, un’amministrazione che ha attirato le attenzioni della magistratura, con indagini su Rolando Picchioni – ex presidente della Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura, che organizza il Salone torinese e ha nel consiglio d’amministrazione Regione Piemonte e Comune di Torino – e su Giovanna Milella, che gli era succeduta nella carica. Il tutto collegato a quattro arresti per peculato in luglio (tra gli arrestati Valentino Macri, con l’accusa di aver alterato con fughe di notizie, da segretario della Fondazione, l’aggiudicazione dell’appalto per l’organizzazione del Salone).
Le due città
Sullo sfondo della vicenda del Salone di Torino c’è una città che, riconvertendosi da centro manifatturiero a polo culturale, nel recente passato si è dimostrata spesso capace di battere Milano per dinamismo e concretezza. Ma oggi lo slancio rallenta e il “principe” (le amministrazioni locali), pur schierandosi apertamente a favore del Salone del Libro, è probabilmente impegnato nel riformulare non facili equilibri interni, il che non giova alle decisioni rapide che il momento richiederebbe.
D’altra parte il rapporto tra il Salone del Libro e il suo essenziale promotore professionale, l’Aie, Associazione Italiana Editori, non è mai stato privo di spigoli: «Da sempre le case editrici milanesi hanno tentato di portare la manifestazione in Lombardia» ha dichiarato all’edizione torinese della «Repubblica» (28 luglio 2016) Angelo Pezzana, libraio, figura centrale nella nascita del Salone di Torino nel 1988. «Non ci sono mai riuscite perché a Torino c’era un gruppo dirigente che vedeva la mossa in anticipo e la preveniva.»
Già da febbraio, con l’uscita dell’Aie dalla Fondazione, la svolta si era delineata chiaramente. Poi, contemporaneamente alle inchieste della magistratura, è arrivata la notizia: il presidente dell’Aie, Federico Motta, si è mosso con rapidità, annunciando l’intenzione di istituire una nuova fiera del libro a Milano. Alla base un accordo con Fiera Milano (che organizza la maggior parte delle grandi fiere milanesi e gestisce il polo espositivo di Rho-Pero), un business pian realistico (che prevede tre anni di rodaggio prima del pareggio di bilancio e si dà un obiettivo di centomila visitatori), l’adesione sicura dei grandi editori. Al posto della classica fondazione culturale che unisce attori pubblici e privati, una società per azioni – La Fabbrica del Libro spa – di cui Fiera Milano possiede il 51 %, Aie il 49%, mentre la presidenza è affidata a un’editoriale: Renata Gorgani, direttore editoriale del Castoro. Un modello di gestione che esclude la tradizionale presenza delle amministrazioni locali.
A Milano non manca comunque l’appoggio dell’amministrazione comunale, rinnovata nella continuità e uscita pressoché indenne dai problemi di Expo2015, e l’Aie si presenta già forte di una gamma articolata di manifestazioni per il libro, mirate di volta in volta ai professionisti o al pubblico: #ioleggoperché (in ottobre) in collaborazione con le associazioni dei librai (Ali) e dei bibliotecari (Aib), il Centro per il libro e la lettura del ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, Confindustria. Al centro il tema, mai prima seriamente affrontato, del pubblico giovane, della digitalizzazione delle biblioteche scolastiche e della diffusione delle biblioteche aziendali. E poi la collaudatissima BookCity Milano (in novembre): oltre mille incontri in quattro giorni, con decine di migliaia di presenze, coinvolgimento di scuole e luoghi non tradizionali come le carceri e gli ospedali. In più l’Aie può aggiungere alla sua offerta la manifestazione romana Più libri più liberi (in dicembre), dedicata ai piccoli e medi editori (quelli che una fiera milanese “dei grandi editori”, secondo alcuni, metterebbe in ombra).
Pirati e storytellers
L’annuncio della nuova fiera milanese ha dato il via a una reazione a catena: in superficie pubbliche proteste ispirate alla contrapposizione cultura/mercato, dove Torino rappresenterebbe la prima e Milano il secondo. Spiccano la passionale dichiarazione di Dario Fo (Dovete resistere a questo atto di pirateria, «La Stampa», 3 agosto 2016) e quella, in bilico tra tecnica e idealismo, di Alessandro Baricco: «Non è importante come sia veramente l’industria del libro. È importante come i libri vengono percepiti dai lettori. […] È anche una questione di storytelling» («la Repubblica», 2 agosto 2016).
Più in profondità il contraccolpo ha toccato la stessa Aie, con dichiarazioni preoccupate di editori di alto livello come Laterza, Einaudi e Feltrinelli, e addirittura le dimissioni di undici tra piccoli e medi editori: 66thand2nd, Add, e/o, Iperborea, LiberAria, Lindau, minimum fax, nottetempo, Nutrimenti, O Barra O, Sur. Rispetto per la tradizione culturale torinese per alcuni, disappunto per i modi spicci del presidente Motta per altri.
Ezio Quarantelli, direttore editoriale della torinese Lindau, sul blog della casa editrice non ha risparmiato critiche feroci alla strategia decisionista dell’associazione, elencando i danni prodotti dalla scelta presidenziale (tra questi la duplicazione delle manifestazioni, i contrasti interni all’Aie, l’irrigidimento dei rapporti istituzionali) e ventilando perfino la nascita di una seconda associazione degli editori: «Mai risultati così copiosi sono stati conseguiti con una tale economia di mezzi. Anzi, con un solo mezzo: l’arroganza» (18 ottobre 2016).
E tuttavia, intervistato a qualche settimana di distanza, pur mantenendo le sue posizioni non nega i difetti della gestione torinese: «Perché mettere in crisi una manifestazione che funziona da trent’anni, in una città facilmente raggiungibile da tutti? Certo i problemi vanno risolti, e oggi Torino ha abbassato i prezzi: il problema era legato all’affitto del Lingotto, e andava risolto prima, oggi Torino è competitiva. La macchina andava riformata in tempo».
È una questione di orgoglio torinese? «Il localismo non c’entra, la decisione dell’Aie l’ho sentita come un sopruso, anche se sono ben disposto a vedere se Milano si dimostrerà interessante.» Allargando la prospettiva, il punto per Quarantelli non è la contrapposizione tra piccoli e grandi editori: «La concentrazione editoriale nel medio periodo potrebbe addirittura giovare ai piccoli editori, allargare gli spazi di ricerca: la logica dei numeri dei grandi editori in definitiva lascia spazio per un lavoro più proficuo con meno concorrenza. Caso mai il danno è a livello distributivo, sul punto vendita: se certe librerie di marchio, come accade, attuano una politica discriminatoria nei confronti dei marchi altrui, si crea una strozzatura».
Quarantelli non crede nemmeno all’utilità di un salone riservato alla piccola editoria: «Bisogna passare la prova, l’ampliamento della base dei lettori è sempre l’interesse comune. Anche se Lindau ha lasciato l’Aie occorre ragionare tutti insieme. Il problema della lettura riguarda tutti, occorre lavorare insieme su basi chiaramente condivise».
Ne resterà solo uno?
Quarantelli condivide infine l’opinione secondo cui due fiere del libro non potranno convivere, a meno che non riescano a trovare una caratterizzazione forte. E gli sviluppi della battaglia tra agosto e settembre gli danno ragione: vari professionisti della cultura come Luca Formenton (milanese, il Saggiatore) ed Evelina Christillin (torinese, tra l’altro presidente del Teatro Stabile e del Museo Egizio), e anche di alto livello politico (il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini), si sono spesi per arrivare a una cooperazione tra le due manifestazioni, sul modello di altre iniziative culturali condivise tra le due città; ma la frattura non si è sanata.
Ottobre ha portato all’abbandono di ogni idea di collaborazione, per non dire di integrazione. Ciascuna delle due organizzazioni ha compiuto passi significativi sul proprio personale cammino: la Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura di Torino ha indicato come nuovo presidente l’ex ministro dei Beni culturali Massimo Bray e ha nominato direttore uno scrittore, Nicola Lagioia, chiedendo proposte sul rinnovamento del Salone a 800 “lettori” d’alto livello accuratamente selezionati. Alla fine di ottobre, come si è detto, ha fortemente ridimensionato i prezzi degli stand. A Milano nel frattempo la nuova manifestazione ha annunciato il suo titolo definitivo – Tempo di Libri – e si è data una struttura organizzativa articolata, con responsabili ad hoc per le iniziative rivolte ai giovani, all’editoria digitale e ai professionisti dell’editoria.
Due percorsi significativamente divergenti dal punto di vista della cultura professionale e una contiguità di date (19-23 aprile per Milano, 18-22 maggio per Torino) che ogni ufficio stampa non può non considerare un ostacolo per catturare l’attenzione di un solo pubblico. Si può pensare, a essere ottimisti, che le differenze culturali producano alla distanza le due necessarie identità diverse. Ma, a essere realisti, l’offerta milanese pare la meglio attrezzata per costruire la rete di rapporti tra editori e pubblico che garantisce il successo di qualunque fiera.
E infine: non è che il caso della doppia fiera del libro sarà parente del caso Ferrante? Non è che quest’ultimo sia un’effimera increspatura superficiale del primo? Un indizio di cambiamento profondo, in cui la gestione (il marketing) è certo protagonista di primo piano, ma in cambio promette al libro – promessa sempre attesa e sempre disattesa – più forza nella competizione con i prodotti per il grande pubblico. E la buona gestione non è mai stata nemica della qualità.