Il commissario Montalbano sgambetta infaticabile sul palcoscenico della narrativa italiana da quasi venticinque anni, freneticamente applaudito oggi come il primo giorno. Il suo elisir di lunga vita? La perizia con cui Andrea Camilleri, avventura dopo avventura, olia i delicati ingranaggi della serialità. Sellerio intanto dimostra come il giallo non stia poi così male col blu. Anzi.
Dinanzi a L’altro capo del filo, centesimo volume pubblicato da Andrea Camilleri, reso il doveroso omaggio alla ricorrenza, qualche considerazione è d’obbligo. Non un bilancio, per carità, che sarebbe vana pretesa al cospetto di un autore ancora nel pieno della stagione creativa, in barba alle 91 primavere e alla sopravvenuta cecità. In effetti, a strabiliare più che il traguardo complessivo è la performance realizzata negli ultimi quindici anni: fra il 2001 e l’autunno del 2016, a un’età in cui anche i magistrati più irriducibili debbono rassegnarsi alla pensione, il nostro ha spedito in libreria la bellezza di ottanta titoli; e altri sono annunciati in uscita nei prossimi mesi.
Camilleri ha fatto irruzione nel già nutrito club di scrittori siciliani scoperti nella terza età, presieduto da Antonio Pizzuto e Gesualdo Bufalino, col piglio del professionista. La scrittura è per lui una pratica quotidiana, esercitata con rigore dall’alba all’ora del pranzo, dapprima alla macchina per scrivere e in seguito al computer, sino a quando i problemi alla vista lo hanno costretto a dettare le sue storie a persona fidata. Ligio alla disciplina che si è imposto, ha aperto con i suoi successi una nuova stagione dell’artigianato di qualità nella narrativa italiana, che ha finalmente visto l’avvento auspicato ilio tempore da Gramsci di «un corpo di letterati che artisticamente stia alla letteratura d’appendice come Dostoevskij stava a Sue e a Soulié o come Chesterton, nel romanzo poliziesco, sta a Conan Doyle e a Wallace».
Proprio la scelta di rivolgersi al giallo, accettando la sfida della serialità, costituisce l’elemento più qualificante dell’approdo alla pagina scritta di Camilleri, che in quest’ambito può contare sull’esperienza accumulata in tanti anni di mestiere nel campo delle regie teatrali, radiofoniche e televisive. A introdurlo ai meccanismi della detection fu Diego Fabbri, col quale trascorse ore a smontare e rimontare i Maigret di Simenon, a beneficio di Gino Cervi, mattatore dello sceneggiato che stregò milioni di spettatori. Anni dopo Camilleri si è accostato al giallo nella convinzione, mutuata da Sciascia, che sia la forma più onesta di letteratura, in quanto la sua “gabbia” costringe lo scrittore a giocare ad armi pari col lettore. Da questo punto di vista i romanzi di Montalbano rappresentano un esercizio condotto secondo una metrica rigorosa: invariabilmente si compongono di 18 capitoli, ciascuno di una decina di cartelle dattiloscritte. Tutte le vicende inoltre si attengono al modello del classico whodunit: una vittima, un poliziotto che investiga, profusione di indizi, false piste, il morto in apertura e la scoperta del colpevole in chiusura. Non sempre, tuttavia, questi viene assicurato alla giustizia, e non sempre si tratta di un malvagio tout court. Spesso anzi il commissario mostra umana comprensione per chi viene spinto sulla strada del delitto da circostanze avverse o da sete di giustizia.
Il male, comunque, non risulta mai ascrivibile alle responsabilità collettive di una società marcia sino al midollo, come in tanti noir contemporanei. Ogni crimine nasconde una firma precisa, e comporta una punizione più o meno appropriata, a differenza di quanto accade in Sciascia. Vigata, borgo marino inventato in cui si condensa lo spirito siculo, è la scacchiera sulla quale Camilleri sciorina uno sterminato repertorio di mosse, contando sulla complicità del lettore, che ben conosce gli stereotipi regionali. Armi pari, regole condivise. La “prevedibilità” comportamentale lamentata da Italo Calvino a proposito di A ciascuno il suo, instancabilmente riplasmata in mille fogge, si tramuta in una risorsa formidabile.
In questa operazione Il giorno della civetta costituisce il reagente decisivo. Se prendiamo la prima avventura di Montalbano, La forma dell’acqua, è facile accorgersene. Al delitto di mafia, travestito da assassinio per motivi passionali, Camilleri sostituisce la morte in circostanze equivoche di un politico democristiano corrotto, spacciata per delitto di mafia. Ma vent’anni dopo torna al paradigma sciasciano, con un ulteriore capovolgimento, per il quale nella Piramide di fango un presunto omicidio d’onore è chiamato a mascherare losche trame del crimine organizzato, con il collaudato contorno di lavoro nero, omertà e appalti pubblici truccati. La figura meglio riconoscibile, nella melma che tutto imbratta, è quella di un imprenditore. Come di norma le coppole restano nell’ombra, invisibili e pure presenti ovunque. Camilleri depreca gli effetti mitizzanti – non importa se involontari – del ritratto di un padrino come don Mariano Arena. Evita quindi di percorrere la via più scontata, per chi voglia costruire una serie di successo in terra di Sicilia, negando la ribalta a boss carismatici, luogotenenti arrembanti, picciotti senza scrupoli. Al loro posto salgono alla ribalta i complici: una laida processione di usurai, amministratori corrotti, truffatori, palazzinari, trafficanti d’organi, terroristi. Di modo che Enrico Deaglio ha avuto buon gioco nel sostenere che nelle indagini di Montalbano scorre la cronaca nera della Seconda Repubblica.
L’attenzione costante all’attualità in ultimo ha portato in pagina le tragedie del Mediterraneo. L’altro capo del filo vede da una parte migranti e scafisti, dall’altra Montalbano e i suoi uomini, che ogni notte attendono i barconi sulla banchina del porto, affranti e stremati. Ma già Una lama di luce prendeva l’abbrivio da uno sbarco epocale a Lampedusa, per concludersi sul ritrovamento del cadavere di un malvivente tunisino: che si rivela essere Francois, l’orfanello spaurito del Ladro di merendine, divenuto quasi un figlio per Livia e Salvo. Contrariamente alle sue abitudini, nell’occasione Camilleri correla la vicenda a un’indagine precedente, contando sulla memore fedeltà degli appassionati.
La serie di Montalbano non è una saga a episodi. Lo denuncia in apertura di ogni libro la scelta di far coincidere l’avvio dell’inchiesta col risveglio del commissario. Sono numerose beninteso le situazioni che si ripetono, tese a soddisfare quel bisogno di ridondanza che costituisce una pietra angolare della serialità. Ecco dunque le litigate al telefono con Livia, le porte sbattute da Catarella, le montagne di carte da firmare, il frigorifero caricato di delizie da Adelina, il goccetto in veranda, i pranzi in trattoria, la passeggiata digestiva al molo. Alle pause gastronomiche in particolare è affidato un ruolo strategico. Intanto consentono di dare spessore al carattere dell’eroe e rimarcare i lineamenti di un’antropologia pittoresca, del tutto estranea al logorio della vita moderna cittadina. Alle grandinate di proiettili, alle cene eleganti, alle seduzioni fulminee modello 007, Montalbano contrappone degustazioni silenziose di pesce fresco, sguardi intensi, letture ruminate a lungo, sogni tumultuosi in cui il lavoro si mescola alle ossessioni. Ciò che più conta, però, è che questi rallentamenti da un lato accrescono la suspense, dall’altro si rivelano funzionali alla soluzione dei casi, in quanto costituiscono momenti propizi alla riflessione, ai movimentati dialoghi interiori grazie ai quali immancabilmente scocca nel cervello di Montalbano il flash accecante che gli consente di ricomporre il puzzle del crimine. L’enfasi sull’intuizione si lega alla perfetta conoscenza di codici esistenziali in cui le passioni prevaricano largamente sul raziocinio.
All’abilità nella gestione dei ritmi narrativi Camilleri accoppia una mano felice nel sagomare tanto le comparse avventizie (un inesauribile universo di zitelle eccentriche, presidi in pensione, bancari monomaniaci, contadini malfidenti…) quanto la compagnia di giro che accompagna Montalbano, con aggiustamenti minimi dopo la seconda avventura, nella quale entrano in scena Catarella e il vice Mimi Augello. Alla stabilità del sistema di aiutanti fa riscontro l’estrema variabilità degli antagonisti che si succedono vorticosamente da un libro all’altro. Montalbano si scontra con avversari sempre nuovi; non deve fronteggiare Moriarty geniali, ma una malavita proteiforme e delitti scaturiti da affetti traviati. Nessun villain possiede una grandezza malefica: il che spiega come mai si stenti a ricordarne anche solo un nome, mentre sono migliaia i lettori in grado di recitare a memoria l’organigramma della polizia di Vigata.
Dinamiche simili governano la rappresentazione degli spazi. Ai luoghi topici come la casa di Marinella, la trattoria, il molo e il commissariato, che agiscono da perno, si alternano casali isolati, appartamenti lindi, vicoli occhiuti, fabbriche in rovina, lungomari deserti. Camilleri aggiorna così il vecchio topos della provincia avvelenata, alla quale l’intreccio resta abbarbicato. Sequenze significative lontano da Vigata o addirittura fuori dalla Sicilia risultano eccezionali. Montalbano non si sogna neppure di andarsene. Perderebbe d’altronde il suo atout, visto che si muove bene solo nell’acquario in cui è immerso, dove è in grado di interpretare a colpo sicuro anche una mezza parola, e all’occorrenza recitare la parte del tragediatore. Scaraventato nel continente, la brusca franchezza degna del gaddiano Ingravallo trascolorerebbe in cafonaggine, i silenzi in scontrosità gratuita. Questo carattere, soltanto abbozzato nella Forma dell’acqua (quando l’idea di insistere sul personaggio era ancora di là da venire), in seguito si cristallizza, determinando uno stallo nell’evoluzione dei rapporti con i comprimari: altro connotato stabile nei processi di serializzazione.
Montalbano resta uguale a se stesso. Non coltiva nostalgie, né cova desideri o ambizioni. L’idea di una promozione, che potrebbe implicare un trasferimento, lo atterrisce. Il matrimonio con l’eterna fidanzata Livia non è nei suoi progetti. Tuttavia la precisa scheda anagrafica fornitagli dall’autore (che lo fa nascere a Catania nel 1950) non è priva di conseguenze. A differenza di Maigret il commissario patisce le «vicchiaglie», che ottundono i riflessi e gli rendono difficile stare al passo con i tempi moderni, nei quali un Catarella se la cava assai meglio di lui al computer. Il peggio è che a Vigata le bussole tradizionali funzionano sempre meno. L’inglese serve più del dialetto, l’elemento più vistoso della maniera di Camilleri.
All’inconfondibile riconoscibilità dello stile – condensabile nel proverbiale «Montalbano sono» – resta comunque un ruolo primario nelle strategie di fìdelizzazione. Gli apporti dialettali non funzionano come spezie esotiche chiamate a ravvivare una pietanza scipita: sono piuttosto le tessere che insieme a una sintassi piuttosto movimentata cedono alla pagina le fragranze dell’oralità e fanno da detonatore alle risorse di un umorismo irresistibile. Al riguardo meriterebbero un’analisi puntuale le telefonate di Montalbano, condotte sul filo di un virtuosismo che nella Forma dell’acqua consente di allinearne addirittura undici di seguito, prive di didascalia nonostante il cambio sistematico di interlocutore, senza che la fluidità di lettura ne risenta. Decenni di sceneggiature e regie hanno ben affinato l’orecchio di Camilleri: non c’è da stupirsi se parecchi dei suoi dialoghi vengono ripresi tal quali negli sceneggiati diretti da Alberto Sironi.
Affiora con ciò la dibattuta questione della transmedialità cui è pervenuta la serie di Montalbano: questione tematizzata dall’autore stesso nel romanzo chiamato a mettere il punto finale, Riccardino (tuttora inedito), dove il commissario di carta si scontra col suo alter ego televisivo. Non minore attenzione dovrebbe suscitare la capacità modellizzante dimostrata dalle storie di Montalbano nell’ambito della narrativa di genere italiana. Dopo decenni di penuria, interrotta soltanto da exploit estemporanei (vedi il Duca Lamberti di Scerbanenco), è sotto gli occhi di tutti il proliferare di investigatori seriali baciati dal successo: siano il commissario Ricciardi di Maurizio De Giovanni, il Bordelli di Marco Vichi, o il Balistreri di Roberto Costantini.
Il fenomeno è tanto più evidente se per legittima difesa restringiamo l’obiettivo sulla «Memoria», la collana di Sellerio in cui sono apparsi tutti i romanzi di Montalbano, accomunati non solo dalla veste editoriale ma anche dall’insistenza dei titoli sull’accoppiata di sostantivo e specificazione: La luna di carta, La pazienza del ragno, Il campo del vasaio, La danza del gabbiano e così via. E difficile sovrastimare l’impatto sull’immaginario dei lettori di questi volumetti eleganti e maneggevoli. Camilleri raccoglie il testimone da Carlo Lucarelli, che nella medesima sede aveva proposto nei primi anni novanta le imprese del commissario De Luca, e lo cede a una schiera di prosecutori, che sfruttano a dovere l’alone creatosi intorno al blu marino della «Memoria», ormai percepito come garanzia di qualità nel settore della crime fiction.
Anche questo spiega l’interminabile sequenza di trionfi collezionati dalle serie firmate per Sellerio da Gianrico Carofiglio, Marco Malvaldi, Francesco Recami, Alessandro Robecchi e Antonio Manzini. Siano avvocati o vecchietti in pensione, autori televisivi, tappezzieri o canonici poliziotti, i loro eroi vantano un’ironia tagliente, caratteracci e una forte connotazione localistica. L’impronta di Camilleri, alle volte, risulta calcata fino all’eccesso: il Rocco Schiavone di Manzini per esempio è maleducato, strafottente, disposto a infrangere le regole, ma anche ad arrotondare lo stipendio con qualche maneggio al limite della corruzione. Montalbano resterebbe inorridito. Come inorridisce in un passo dell’Altro capo del filo, scoprendo che da Roma Schiavone viene spedito fra le nevi della Val d’Aosta: «Il solo pinsero d’attrovarisi al posto di quel collega gli fici veniri un bripito di friddo lungo la schina». Meglio, molto meglio Vigata.