Istantanee dei successi del momento e formidabili dispositivi di promozione, le classifiche dei libri più venduti occupano uno spazio fisso tra le pagine culturali dei principali quotidiani. Rilevate ora da multinazionali delle indagini di mercato, ora da fornitori di servizi informativi editoriali, si presentano come il sensibile sismografo del gusto mainstream.
La hit parade dei libri più venduti occupa uno spazio fisso tra le pagine culturali delle maggiori testate: accanto alle recensioni delle nuove uscite, alle analisi dei casi letterari, alle interviste esclusive, «La Stampa», il «Corriere della Sera», «la Repubblica» offrono ai loro lettori la rassegna dei titoli che vanno per la maggiore. Acquistate da multinazionali delle indagini di mercato, e proposte con cadenza settimanale, le top ten dei quotidiani forniscono un’istantanea dei maggiori successi librari del momento: una rubrica che, evidentemente, sollecita costantemente attenzione e curiosità visto che il costo dei dati viene sostenuto dalla testata. Sembrerebbe allora, da questo punto di vista, un investimento proficuo che, agli inserti sulla lettura del fine settimana, fornisce il complemento d’obbligo per un giornalismo culturale che si voglia non solo di livello, ma anche accattivante e di pronta informazione.
Se questo sembra essere il vantaggio di chi le pubblica, chi le legge però cosa ne pensa realmente? Secondo Annarita Briganti, curatrice per «Repubblica Milano» dell’hit parade cittadina, «la classifica è come l’oroscopo: nessuno lo ammette ma tutti la leggono». Un rapporto ambivalente, allora, tra top ten e lettori, i quali sembrano patire un misto di curiosità e insofferenza nei confronti di uno strumento che, se da una parte viene evocato dai più esigenti con sufficienza perché banalizza, riducendola al suo lato meno nobilmente quantitativo, la complessità ineffabile del valore letterario, dall’altra, però, viene frequentemente consultato perché funziona da efficace, anche se discussa, bussola per navigare in libreria.
La capacità di attrarre e orientare spiega, certo, il debordare delle classifiche librarie anche al di fuori della carta stampata: diversamente articolate, varie top ten si riscontrano infatti sulle home page delle librerie online (Amazon e Ibs, ma anche Feltrinelli.it, Hoepli.it e Mondadoristore.it), dove un po’ ce le aspettiamo perché promuovono i titoli che presentano; però le troviamo anche – lì meno scontate ma, forse, ancora più incisive vista l’utenza – su siti di promozione e distribuzione editoriale, come quello di Messaggerie libri, consultato dai librai e da altri operatori commerciali.
Se, per quanto riguarda il caso delle vendite online, è facile capire che ciascuna graduatoria segnala solo i titoli maggiormente movimentati dal rispettivo portale, più complicata è la questione delle già nominate classifiche di «Tuttolibri», «la Lettura», «RCult», diffuse da chi fa informazione e, i libri, non li vende ma ne parla. Il «Corriere» e «la Repubblica» utilizzano dati rilevati ed elaborati da Gfk Eurisko; «La Stampa» si rivolge invece a Nielsen, veterana del settore, e nota agli addetti ai lavori per il rapporto 2014 sullo stato della lettura in Italia, commissionatole dal Centro per il libro e la lettura del ministero dei Beni culturali. Gfk e Nielsen sono multinazionali delle indagini di mercato, una con sede a Norimberga, l’altra con sede a New York, il cui lavoro consiste – classifiche librarie a parte – nel sondare su commissione andamenti e vendite di prodotti vari, al fine di orientare, con i risultati ottenuti, le strategie di posizionamento commerciale dei committenti, produttori dei beni rilevati. Per Nielsen e Gfk – è sufficiente una visita ai rispettivi siti per osservarlo – la vendita libraria è dunque solo uno dei molteplici settori oggetto dei loro rilevamenti: la compilazione della classifica, vista in questa prospettiva, esalta l’aspetto schiettamente mercantile del prodotto editoriale, trattato alla stessa stregua di una qualunque altra merce, né più né meno di un nuovo modello d’auto, di una collezione di moda, ma anche di un farmaco o di un servizio finanziario, se non addirittura dei contenuti di una campagna politica.
Nielsen e Gfk si basano, quanto alla vendita libraria, su un nutrito ma ben selezionato campione di librerie: in entrambi i casi, infatti, sono circa novecento e sono individuate per essere complessivamente rappresentative del territorio, distribuite tra Nord, Sud, grandi e piccole città, catene librarie e librerie indipendenti. Delle classifiche si è occupato nell’ultimo anno anche «il Post», da cui si apprende che gli scontrini emessi vengono poi confrontati con i dati in possesso di Informazioni editoriali: posseduto da Messaggerie Italiane, Informazioni editoriali è il principale fornitore di servizi informativi per gli operatori del libro (principalmente i librai), dal momento che fornisce il sistema di teleordinazione Arianna, pubblica Alice (il catalogo dei libri in commercio) nonché il catalogo degli e-book italiani. Il campione di librerie, dunque, è certo di considerevoli dimensioni; esclude, però, Amazon – che da sola, secondo «il Post», muove più del 10% del venduto – e la grande distribuzione, vale a dire autogrill e supermercati; misura, inoltre, le vendite esclusivamente cartacee e non gli e-book.
Così vengono reperiti i dati, ma come vengono elaborati? Poiché, come si capisce, Gfk e Nielsen non computano tutte le copie realmente vendute – dal momento che il rilevamento è, appunto, svolto solo su un campione, benché consistente – allora, per conoscere la reale quantità di copie vendute di un qualunque titolo, è necessario aspettare un po’ di tempo, almeno fino a quando, terminata l’ondata di entusiasmo per la novità e ferme – o per lo meno placate – le movimentazioni, l’editore può veramente contare, sottraendo il reso alla tiratura, quanto quel titolo abbia effettivamente venduto. Può significare mesi. Con ciò non si intende certo affermare che le top ten settimanali siano inattendibili: sono attendibilissime e affidabili, dal momento che il primo titolo è realmente, di settimana in settimana, quello maggiormente scontrinato nei punti vendita del panel. A questo titolo viene assegnato un indice di vendita equivalente a 100, coefficiente che, va precisato, non corrisponde a una quantità prestabilita di copie, ma che indica solamente il titolo più venduto della settimana. Le posizioni successive, poi, vengono calcolate proporzionalmente, in rapporto percentuale rispetto alla prima: la seconda posizione, così, dipende solo dal fatto che l’indice di vendita, riportato accanto alla posizione occupata, sia inferiore a 100. Il distacco può essere più o meno ampio: come si diceva, la collocazione nella classifica non è proiezione di un numero assoluto di copie vendute, ma ha natura relativa. Ciò può far sì che, osserva opportunamente «il Post», una decima posizione sotto Natale, nel pieno furoreggiare degli acquisti, poggi su un numero assoluto di copie anche di molto superiore a una prima posizione della fine di gennaio quando, come sa bene chi opera nel commercio, la quiete segue la tempesta: il che significa, allora, che una prima posizione in una certa stagione può essere, in termini di lettori e in termini di guadagno, meno redditizia di una terza o quinta posizione in un altro momento, più propizio agli acquisti.
Criteri leggermente diversi riguardano altre classifiche: mi sembra interessante segnalare almeno la pagina del sabato di «Repubblica Milano» la cui graduatoria, come recita la dicitura, «è il risultato delle vendite nelle librerie Feltrinelli di Milano e provincia. Il confronto è con la classifica di tutte le Feltrinelli d’Italia». Un caso particolare che, promuovendo gli acquirenti Feltrinelli a rappresentanti dei lettori tout court, evidenzia molto bene il funzionamento metonimico alla base dell’hit parade.
A prescindere però dalla completezza dei dati, dalle modalità del rilevamento, dalla funzionalità degli indici di vendita, è indiscutibile che le classifiche, oltre che come sismografi del mainstream, suscitino discussione proprio in quanto dispositivo promozionale. Accantonato ogni moralismo, infatti, non si può non riconoscere alla top ten la capacità di additare, sulla base dell’unico parametro di valore oggettivo – l’entità della vendita – un minicanone istantaneo di pronta utilizzabilità per la gran parte dei lettori, colti da smarrimento nei labirinti della ricchissima offerta editoriale. Una bussola efficace, si diceva, contro la quale si accaniscono, qui e là nella Rete, dietrologie complottistiche di vario tipo. I più diffidenti, da blog e forum letterari di maggiore o minore autorevolezza, sospettano della classifica perché privilegia i grandi monopoli editoriali a tutto svantaggio dei piccoli editori, di qualità; questi, esclusi dalla visibilità dell’hit parade e, conseguentemente, relegati nell’ombra, risulterebbero vittime di una congiura rivolta ad affossare la qualità a vantaggio della quantità, con l’implicito presupposto che le due categorie si pongano tra loro in rapporto di proporzionalità inversa. Insomma, visto il positivo effetto di accelerazione del titolo che entra in graduatoria, e la pressoché totale assenza di prodotti meno che mainstream, si confonde l’effetto per la causa: se da una parte è infatti innegabile che il titolo, una volta entrato in classifica, goda di una visibilità maggiormente ampia, che provoca un aumento anche sensibile delle copie vendute, dall’altra parte è però necessario che il titolo, di suo, manifesti in sé qualità di godibilità e leggibilità che, queste sì, ne permettano il gradimento e l’ingresso in graduatoria. Certo (e da questo punto di vista i grandi editori partono avvantaggiati) i lanci sensazionali e i massicci investimenti promozionali (pubblicità battente, comparsate tv ecc.) possono spingere le vendite iniziali. Ma poi, con Annarita Briganti, «se alla prova della lettura il libro non tiene, se non intercetta qualcosa che sta sospeso nell’immaginario dei lettori, se non parla al pubblico, allora come è entrato in classifica ecco che subito ne esce».
Guardiamo qualche titolo, allora, compulsando le classifiche mensili, allestite da Informazioni editoriali e pubblicate su www.ibuk.it: vengono elaborate in base alle vendite di oltre 1.600 librerie aderenti al circuito Arianna, diffuse su tutto il territorio nazionale. Di chi è il primo posto dei mesi tra dicembre ’15 e settembre ’16? In dicembre se lo assegna Fabio Volo, con la storia di una coppia innamorata ma in difficoltà dopo la nascita del figlio (È tutta la vita, Mondadori); Jorge Bergoglio, intervistato da Andrea Tornielli (Il nome di Dio è Misericordia, Piemme), occupa la vetta in gennaio e febbraio, e poi viene scalzato dall’Eco saggista (Pape Satàn Aleppe, La nave di Teseo), primo posto di marzo. In aprile Non smettere di sognare (Rizzoli), la doppia autobiografia del duo pop Benji & Fede (ventenni di Modena di repentina e prodigiosa fama), è il libro più venduto mentre Andrea Camilleri, con L’altro capo del filo (Sellerio), ripropone il sempreverde Montalbano illividito, questa volta, dalle fosche tinte della tragedia degli sbarchi e delle morti in mare dei migranti. Camilleri resta al primo posto per due mesi, come già Bergoglio, e solo a luglio Montalbano viene sostituito dal vicequestore Schiavone, creatura noir di Antonio Manzini che, con il quinto episodio della serie (7-7-2007, Sellerio), raggiunge i vertici della classifica. In agosto e settembre due autrici inglesi: l’inglese Jojo Moyes, con Io prima di te (Mondadori), storia romantica già uscita in Italia da un paio d’anni ma riportata alla ribalta dal successo del film, e J.K. Rowling, che firma il soggetto di Harry Potter e la maledizione dell’erede (Salani), una pièce la cui sceneggiatura, trascinata dalla planetaria fama del maghetto con gli occhiali, giunge in prima posizione.
Come si può ben vedere dai titoli, la classifica seleziona testi che garantiscono intrattenimento e leggibilità a un pubblico numericamente ampio, e che sanno anche intercettare e dare forma ai fantasmi dell’immaginario collettivo: la misericordia di Dio, le tragedie del mare, le varie declinazioni dell’amore, la violenza, il successo. È la ricetta del bestseller, insomma, come dire la pietra filosofale della moderna industria editoriale, difficilmente traducibile in una formula a priori ma che l’ingresso e la persistenza in classifica (persistenza che, si noti bene, viene indicata – in termini di settimane – solamente dalla classifica nazionale di «Repubblica») additano in maniera ben riconoscibile a posteriori. Che un prodotto siffatto si contrapponga al prodotto di qualità non mi sembra dunque che si possa affermare pacificamente, a meno di non attribuire alla “qualità” connotazioni elitarie e svincolate da quei parametri – certo mutevoli e soggetti alla moda, ma di volta in volta preponderanti – che danno alla pubblicazione carattere mainstream.
Sembra dunque vero, come spiega Gian Arturo Ferrari, che «nulla più dei dati di vendita globalmente presi, non solo e non tanto le classifiche dei bestseller, ci parla dei movimenti profondi, tellurici, del gusto. Messi tutti insieme, se mai fosse possibile, ci darebbero una accuratissima mappa, una specie di Tac, della cultura di un paese e della sua evoluzione»: la qualità della classifica è, così, attendibile specchio della salute culturale di un paese. Salute di cui la classifica non ha, certamente, né merito, né colpa.
Un ringraziamento sentito ad Annarita Briganti