Negli ultimi trent’anni i linguaggi delle serie televisive sono andati verso una sempre maggiore complessità: da intrecci rafforzati attraverso moltiplicazione dei personaggi e incremento del ritmo, a una più marcata “intensificazione” dei contenuti e delle tecniche di racconto; fino a telefilm come Lost, in cui una continua alterazione dell’architettura narrativa stimola il disorientamento dello spettatore. Un ’evoluzione che è anche legata a necessità tecnico-produttive: prodotti tv più diversificati per varietà di pubblico più numerose.
Tre tipi di ricorrenti sequenze-dispositivo in significative serie tv dell’ultimo trentennio ben si prestano, mi pare, a segnalare fasi, o varianti, del cammino verso la complessità delle narrazioni seriali: il roll call con cui si aprivano tutte le puntate di Hill Street Blues (1981); gli split-screens che avviavano e ritmavano incalzanti gli episodi di 24 (2001); i flashback ricorrenti di Lost (2004) e gli eventi di interferenza fra livelli di realtà che punteggiavano, secondo una cadenza variabile, la vicenda del protagonista di Life on Mars (2006). La successione suggerisce lo sviluppo di una maniera di narrare sempre più aperta alla pluralità e a forme di connessione non lineare – per stacco, sospensione, attriti, tensione – dell’insieme telefilmico. Richiama alcuni tratti portanti di quella che Jason Mittel ha definito «complex tv».
La severa e affettuosa formula («be careful out there») con cui il sergente di Hill Street congeda tutti i giorni i suoi agenti si potrebbe considerare rivolta anche agli spettatori. L’invito all’attenzione è cifra appropriata per un intrattenimento narrativo tv in cammino verso la maturità: sul piano dei contenuti, con una materia di piena serietà verosimile (su una strada che verrà sviluppata con decisione da Nypd, 1993, con incremento di dinamismo e durezza dell’azione, e poi da Law & Order, 1990, con effetti rappresentativi di autenticità quasi cronachistica); sul piano delle strutture, con uno sviluppo sistematicamente plurilineare dell’intreccio. Hill Street mette in scena la storia di una piccola collettività seguita nel correre accostati e nell’intrecciarsi delle vicende poliziesche e dei destini personali dei protagonisti proponendosi come uno dei primi prodotti telefilmici a congiungere serie a serial, la catena episodica unitaria e variata con il divenire di una trama d’insieme. È la prima fase (o variante) – da Hill Street appunto a E.R. (1994) – di questo itinerario verso il complesso, realizzata all’insegna di un rafforzamento dell’intreccio ottenuto in primo luogo sul piano della quantità, con la moltiplicazione delle figure, un ispessimento del loro profilo, un primo incremento del ritmo, cui si affianca un aumento della qualità di ripresa, regia e montaggio, che avvicina i lavori televisivi agli standard cinematografici. A definirla è anche la progressiva stabilizzazione di un doppio regime o passo strutturale, con la coesistenza di archi narrativi brevi, a misura d’episodio, e di archi a lunga campata, di storie di puntata, autoconcluse, alle quali si intrecciano storie di serie: è lo schema di racconto tipico di X-Files (1993) che intesse il succedersi dei tanti monsters-of-the-week con il progredire della “mitologia” dell’invasione aliena e del complotto che la dissimula.
La maturazione del racconto lungo a tappe in tv, sul piano dei contenuti, segue due grandi vie: le serie a dominante realistica (per esempio detective e medicai drama) conducono lo spettatore in esperienze (man mano più forti) d’impatto con l’asprezza contradditoria del reale, con la durezza drammatica delle cose della vita, esperienze segnate dall’incontro con la violenza, la manipolazione, la prevaricazione, con il dolore inferto o subito, provocato per calcolo o generato dalla casualità e dalle cadenze talvolta regolari, talvolta capricciose dei nostri orologi biologici, con incorniciamenti narrativi, a seconda delle serie e del periodo, saldamente rassicuranti o meno. Nelle serie a dominante fantastica, invece, l’impatto è con la straordinarietà inattesa e la bizzarria spiazzante del mondo, delle forme di vita che possono abitarlo, è con un mistero che ci si presenta di norma in chiave d’eccezionaiità singolare ma (per virtù di reiterazione e, soprattutto, grazie al delinearsi ellittico di un meccanismo di connessione narrativa a lunga gittata, come appunto in X-Files) può produrre alterazioni significative e inquietanti del nostro modo di pensare la realtà.
24 (2001) è una serie che punta con forza le sue carte anche sull’originalità dell’architettura narrativa. Il tempo della vicenda raccontata si restringe a una singola giornata e quello della visione televisiva invece si dilata, spingendosi a sfiorare una piena convergenza con quello del reale raffigurato. Gli split-screens sono uno strumento chiave di questo sforzo costruttivo virtuosistico, affascinante anche nei non rari scompensi. Ribadiscono costantemente le coordinate cronotopiche della serie: la pluralità delle figure, la molteplicità delle linee narrative, la delimitazione temporale. Ossia lo scorrere inesorabile di un tempo troppo esiguo per consentire di far fronte alla gravità e complessità degli stati d’emergenza di cui è mattatore e vittima l’agente antiterrorismo Jack Bauer. Emergenza è esattamente la parola chiave dell’assetto formale e tematico della serie, che proietta nell’immaginario televisivo lo sconcerto e le paure del mondo sul crinale della distruzione delle Twin Towers. 24 punta a porre lo spettatore in uno stato di protratta ed esasperata tensione: gli effetti di intensificazione strutturale lo spingono in certo modo a condividere l’esigenza di quella mobilitazione spasmodica delle proprie risorse indispensabile al protagonista e agli altri personaggi per fronteggiare la minaccia di una svolta irreversibile nella vita della nazione e nelle tante vite singole che la compongono, di propri colleghi, amici, familiari, passanti.
Possiamo usare la serie per indicare una seconda variante del cammino verso il complesso, quella dell’intensificazione, delle tecniche di racconto e dei contenuti messi in scena. Narrazioni che imboccano la via di un’oltranza tematica, di un oltrepassamento marcato dei comuni confini di comportamento (anche della medietà del crimine televisivo), di uno sfondamento dei confini etici. E una linea di invenzione che si sviluppa in modo assai significativo attraverso un lavoro sui profili psicomorali dei protagonisti (Breaking Bad, 2008, e Dexter, 2006, i casi emblematici: per la profondità della metamorfosi identitaria in un caso, per la metodica ambivalenza nell’altro) e sulla fortuna di intrecci al nero, che ruotano in varia maniera attorno ad assassini seriali (per esempio Criminal Minds, 2005, TheMentalist, 2008).
Fin dalle prime puntate che mettono in scena il disastro del volo Oceanic 815 la sintassi narrativa di Lost è punteggiata da un susseguirsi di flashback che riavvolgono e svolgono lo scorrere del tempo secondo vari punti di vista, delineando un percorso narrativo all’insegna del discontinuo e del molteplice. Con il progredire della serie gli scarti temporali si fanno più marcati: nella terza stagione ai flashback si associano inaspettatamente flash-forward della cui natura gli spettatori si accorgono solo in un secondo tempo. L’insistito lavorio temporale produce poi scarti di realtà: l’intreccio procede spingendo chi guarda a interrogarsi sullo statuto degli eventi che si snodano in sequenza sullo schermo, a prendere atto della possibilità che vi si avvicendino tessere di versioni alternative del mondo narrato. Lost è un esempio originale e denso di temporal displacement che Paul Booth ha indicato come uno dei dispositivi di rappresentazione più significativi nella morfologia delle narrazioni televisive complesse. La serie segnala la terza variante di questo sommario catalogo, quella del disorientamento. Qui lo sfaccettarsi irregolare dell’architettura narrativa usa gli strumenti della moltiplicazione, della discontinuità e dell’intensificazione per generare nel pubblico marcati effetti di spaesamento, gioca con i criteri di attribuzione di valore ontologico/gnoseologico, spinge gli spettatori a problematizzarli, ridiscuterli, a sperimentare l’impatto emotivo di uno smarrimento radicale, che muove dalla messa in discussione dei fondamenti di realtà.
Se lo stile strutturale di Lost inclina a un manierismo postmoderno offrendo un intreccio dalla sagoma ramificata e cangiante, Life on Mars invece realizza un’architettura narrativa dello spaesamento con una struttura a dominante lineare, che lavora su effetti di tesa compattezza, ottenuti grazie a un gioco di compresenza e contrasto di coppie di piani rappresentativi, uno dominante, l’altro in secondo piano ma capace di esercitare un costante effetto di interferenza e straniamento. Sia per quel che riguarda il genere, sia per ciò che concerne il trattamento dello spazio-tempo. La serie è in primo luogo un giallo, ma insieme un possibile racconto fantascientifico. Bene illustra, in forma semplice e sintetica, la centralità della contaminazione di codici e la inclinazione a infrangere le norme rappresentative interne che caratterizzano il profilo della narrazione tipico della complex tv. L’iridescenza di genere, un procedere fatto per ricombinazione plurale e per slittamenti imprevisti fra moduli diversi, infatti, costituisce un aspetto decisivo di alcune fra le serie maggiori, da Twin Peaks, 1990, a Desperate Housewives, 2008. Di Life on Mars è protagonista l’ispettore della polizia di Manchester Sam Tyler, che all’inizio del racconto si ritrova d’improvviso a svolgere il suo lavoro sempre nella stessa città ma nel 1973, incerto sulla natura di quel che gli sta accadendo: è in coma nel suo abituale presente? O si è davvero spostato nel tempo? O vive da sempre negli anni settanta, ma con seri problemi psichiatrici? I fatti avvengono nel mondo del 1973 ma sono capricciosamente costellati da occasioni di contatto (mediate dagli oggetti tecnologici di comunicazione come tv, radio e telefono) con la possibile vera realtà dopo l’incidente che lo vedrebbe in coma in un letto d’ospedale. La serie è un esempio di questa famiglia di narrazioni del disorientamento di insolita efficacia, per la capacità dimostrata dagli autori di mantenere protagonista e spettatori in condizione di costante perplessità. Anche nel finale allestito in modo tale da non cancellare le possibilità di interpretazioni alternative. Riesce dunque a schivare il doppio rischio, non infrequente anche per questi modelli di narrazioni di massima inquietudine, della meccanicità stereotipata e dell’infiacchimento di quella tensione percettiva che potrebbero suscitare.
Il cammino della narrazione lunga televisiva verso la complessità, l’innovazione e l’arricchimento architettonico-tematico, nasce da un forte impulso tecnico-produttivo. (Bene non scordarlo, anche nella prospettiva di favorire una visione duttile, non aprioristicamente negativa, dell’azione dei meccanismi industriali su quelli creativi.) Dallo sviluppo delle tv via cavo a quello recente delle piattaforme in streaming, si è profondamente alterato il quadro di una comunicazione televisiva a impianto generalista e ha preso vita un ambiente all’insegna di una pluralità di attori comunicativi, presupposto per un dialogo più aperto con una varietà di pubblici e una spinta alla maggiore diversificazione dei prodotti. A favorire la disponibilità a praticare forme di sperimentazione narrativa è anche l’obiettivo degli operatori via cavo di rafforzare il brand della rete. In questo quadro diventa prezioso anche quello che si potrebbe chiamare un successo d’attenzione, in cui convergono apprezzamento critico, vivo interesse del sistema mediatico, fortuna presso una circoscritta (ma non minima) platea di spettatori, che irrobustisce l’immagine dell’operatore.
I cambiamenti tecnici e distributivi rimodellano in profondità anche tempi e modi del consumo, garantendo allo spettatore una gamma inedita di modi di interazione con i prodotti. Il progressivo sfaccettarsi del testo richiama un analogo processo nel contesto produttivo e fruitivo. Ad articolarsi sempre più è esattamente il cuore dell’esperienza della serialità televisiva, la catena degli appuntamenti di visione: il centro è certo ancora il calendario della prima trasmissione delle puntate che costituiscono la stagione di una serie, con la sua ritmata stabilità rituale, ma è ormai solo l’inizio del percorso d’incontro con il pubblico. Repliche plurime, versioni in dvd (di stagione o complessive), presenza in Rete di trailer e clip disparate, disponibilità in streaming, trasposizioni intermediali, moltiplicano esponenzialmente le possibilità di fruire il testo telefìlmico, la cui vita sociale appare ben più estesa e variegata di un tempo. Lo spazio del web consente di dare rapida concretezza e larga diffusione a tante risposte di lettura, consente in maniera potentemente ampliata, qualitativamente differente, di dare visibilità e veste di atto comunicativo strutturato al fitto tessuto dei commenti degli spettatori abituali che da sempre accompagnano l’esistenza delle narrazioni a puntate (e dei loro contenitori): il moltiplicarsi dei modi di presenza dei testi consente il generarsi di una forte varietà di paratesti (frutto dell’azione del fandom o delle strategie promozionali dei produttori).
La regolarità della cadenza intervallata di fruizione che struttura lo screen time seriale prevede un’alternanza di pieni e vuoti: lo spazio d’attesa produce un desiderio di progressione del comprendere che tende a spingere lo spettatore ad attivarsi, tanto più quanto più forme e contenuti del racconto configurano l’esperienza della storia come un itinerario nel mistero, quanto più i tasselli narrativi assumono la fisionomia di frammenti d’enigma.
Nella gamma di atteggiamenti di fruizione della serialità complessa la coppia complementare disorientamento-padronanza è un asse fondamentale, tanto nella sfera del pubblico assiduo, appassionato, esperto, quanto in quella del pubblico fluttuante, discontinuo, che incontra la serie solo a tratti, per segmenti. La molteplicità dinamica, aperta, non nitida e lineare, delle immagini di mondo variamente allestite dalle architetture narrative seriali trasmette un effetto di mobile e disordinata ricchezza vitale. Quella molteplicità (che procede non di rado per scarti e accelerazioni inattese) spesso si fa sfuggente e spiazzante, prolungatamente o reiteratamente – appunto – enigmatica. Lo spettatore sperimenta così l’attrazione di forme anche intense di disorientamento, con scioglimenti rassicuranti soltanto parziali e provvisori. D’altra parte il sistema di misteri che attraversa le narrazioni e la forte elaborazione strutturale che le caratterizza spinge a sviluppare una spiccata sensibilità per i meccanismi costruttivi, consente l’esperienza di una ricostruzione di padronanza, almeno o innanzi tutto sul piano dei codici di rappresentazione. In particolare nelle forme di racconto che spingono il lavorio strutturale nella direzione della messa in discussione degli statuti di realtà, problematizzando le coordinate spaziotemporali dell’esperienza, la fruizione si sposta fra questi due regimi. Lo spettatore oscilla dunque (secondo una scala assai differenziata di gradi d’intensità) fra sconcerto dello spaesamento e passione cartografica, vestendo i panni alternativamente del viaggiatore sballottato e del lucido e alacre indagatore. Una condizione dinamica e ambigua, in grado di favorire consapevolezza critica autentica o di farne vivere unicamente la simulazione.