Il recente congresso annuale dei bibliotecari italiani ha messo al centro dei lavori la sostenibilità delle biblioteche italiane, andando oltre la mera lettura economicistica del problema. Sostenibilità fa rima con identità, e le moderne biblioteche pubbliche, se ambiscono a una nuova legittimazione sociale, non possono fare a meno di confrontarsi con le grandi trasformazioni del nostro secolo.
Il tema della sostenibilità riguarda tutte le istituzioni culturali ed è presente da tempo sia nella trattatistica professionale sia nel discorso pubblico, pur con connotazioni diverse. Si tratta del tipico feticcio agitato da più parti come rimedio sciamanico dinnanzi alle sfide che attanagliano le istituzioni culturali, come se la sua semplice evocazione corrispondesse ipso facto alla soluzione del problema.
Più difficile declinarlo operativamente: come si rende sostenibile nel tempo un progetto che si è potuto avviare solo grazie a un finanziamento comunitario, per sua natura limitato nel tempo? Come si riduce la forbice fra costi di gestione ed entrate, se il sostegno di parte pubblica viene progressivamente (e in qualche caso repentinamente) meno? È del tutto evidente che non esiste una sola risposta ma una molteplicità di variabili che dipendono dal singolo caso e contesto.
La connotazione prevalente del discorso sulla sostenibilità delle imprese o istituzioni culturali è quella economico-finanziaria, riferita alla capacità di garantire, a prescindere dall’intensità del finanziamento pubblico, la continuità dell’attività di tali istituzioni nel medio e lungo periodo. Tale approccio sottende l’idea, condivisa da alcuni economisti e praticata da governanti di ogni orientamento, che l’investimento culturale sia improduttivo e debba essere, soprattutto in tempi di crisi, limitato (concetto relativo, questo, che non coincide mai con le attese degli operatori del settore).
L’approccio economicistico tende ad attribuire alle istituzioni culturali – anche quelle non profit, impegnate in aree di interesse pubblico e sociale – l’onere di raggiungere un livello più elevato di indipendenza e autonomia operativa dalla contribuzione dello Stato e degli altri enti di governo territoriale, e quindi di autonomia economica e operativa prima ancora che decisionale, facendo leva da un lato sull’aumentata efficienza gestionale e sul ricorso a modelli organizzativi di ascendenza imprenditoriale, dall’altro a una rinnovata capacità di coinvolgere nuovi pubblici ricorrendo a strategie di marketing, per aumentare la propria capacità di ricuperare fonti di finanziamento alternative (sostanzialmente private).
Alcuni studi mostrano invece come il finanziamento pubblico alla cultura sia sempre più da considerarsi come un investimento e che esiste una qualche correlazione fra partecipazione della popolazione alla vita culturale e livelli di innovazione e di sviluppo tecnologico, visto che le nazioni che registrano tassi più elevati di partecipazione attiva alle pratiche artistiche e alle manifestazioni culturali sono i medesimi che occupano le prime posizioni nelle classifiche dei paesi a più alta intensità di innovazione.
Fra le iniziative degne di nota, è stato inaugurato di recente il sito Biblioraising (www.biblioraising.it), promosso dalla scuola di Roma, un fund-raising in collaborazione con il Centro per il libro e la lettura del MiBACT e con l’Associazione nazionale dei comuni italianiscala (Anci). L’idea che sta alla base è diffondere fra i bibliotecari la conoscenza dell’Art Bonus, misura fortemente voluta dal ministro Dario Franceschini per promuovere la donazione di risorse economiche private a progetti culturali a fronte di un consistente bonus fiscale (65 %). Si tratta di una novità assoluta d’approccio e di soluzioni, perché fino a ora questo tipo di provvedimenti riguardava i grandi monumenti e gli istituti culturali più prestigiosi, mentre la misura risulta ora applicabile anche ad archivi e biblioteche, che possono utilizzarla per cercare di far finanziare le loro attività e progetti. Una risposta alla crisi della finanza pubblica, ma soprattutto uno strumento atto a coinvolgere la comunità nel sostegno e nella gestione dei cosiddetti beni comuni.
Le biblioteche, come altre tipologie di istituti culturali, sono alle prese con il tentativo di fronteggiare una crisi economica feroce, che ha ridotto drasticamente la capacità di spesa delle amministrazioni titolari e, nella ricerca di nuove fonti di finanziamento, si misurano con una sorta di cambio di paradigma. La ricerca di fonti di finanziamento richiede un deciso scarto di responsabilità e competenze, perché le aziende sono attraversate da due sensibilità opposte: da un lato non si accontentano più del ruolo classico di sponsor e pretendono un ruolo attivo nella fase di progettazione degli interventi, dall’altro si defilano perché non si sentono adeguate o hanno paura di restare prigioniere di meccanismi burocratici incomprensibili o di soggiacere a non negoziabili, imposti dai direttori degli istituti o dai curatori delle attività.
Una chiave di lettura interessante, proposta un paio d’anni fa da Antonio Scuderi, già amministratore delegato di «Sole 24 Ore Cultura», riguarda la creazione di figure professionali ad hoc, cui affidare il compito di curare le relazioni con le imprese. Si tratterebbe di un primo passo verso un’alfabetizzazione necessaria alla relazione con il settore business, la cui assenza è spesso fonte di fallimenti e delusioni.
Tornando al congresso romano, è interessante che i lavori non abbiano preso in considerazione il mero aspetto di sostenibilità economica della biblioteca, contestualizzando invece il tema secondo una prospettiva inedita: la biblioteca come istituto che contribuisce a rendere la società più sostenibile (ovvero più inclusiva e tollerante) facendo leva su tre concetti chiave che ne definiscono il ruolo nel secolo che stiamo vivendo e che sono a loro volta i pilastri sui quali consolidare la sostenibilità della biblioteca: la creatività, l’innovazione e l’inclusione sociale.
La biblioteca può generare valore e utilità sociale, accendere la curiosità e la creatività, accrescere le competenze dei cittadini, contribuire alla creazione di nuova conoscenza non solo grazie alle sue funzioni tradizionali, ma anche quando evolve ad abbracciare le espressioni più innovative della condivisione di conoscenza: è il caso del fablab (o altrimenti detto makerlab), laboratorio digitale dove le persone possono riunirsi per imparare, inventare e produrre, trasformarsi in artigiani digitali.
Come sostiene Neil Gershenfeld, docente del Mit di Boston e “inventore” dei fablabs a livello globale, ognuno di questi laboratori digitali si basa su un insieme di macchine affine al concetto di biblioteca. L’elemento fondamentale è la condivisione della conoscenza: grazie alla presenza di stampanti 3D e altre apparecchiature per la modellazione tridimensionale, i fablabs di tutto il mondo rendono accessibili gli strumenti e i saperi tecnico-scientifici, democratizzandone l’uso a favore di tutta la comunità. Gli spazi della biblioteca, in questo modo, possono divenire importanti luoghi d’incontro per promuovere la creatività e l’apprendimento, sia in contesti pubblici sia scolastici e universitari, soprattutto se si consente ai cittadini di prendere parte a percorsi di progettazione partecipata delle attività e delle funzioni di questi luoghi.
Il concetto di creatività applicato alle biblioteche pubbliche non riguarda quindi la produzione artistica ma l’adattamento e l’adesione ai cambiamenti in atto nella società attraverso attività e proposte che rappresentano altrettante occasioni di arricchimento dell’offerta ai cittadini e di incremento della redditività sociale dell’istituto.
La biblioteca deve inoltre ambire a diventare il cuore pulsante di una comunità, proponendosi sul territorio come spazio pubblico di riferimento per tutti: essa è custode della memoria scritta di un territorio e della sua gente, ed è garanzia di continuità e identità. Nel contesto digitale, dove le relazioni assumono forme più immediate ma anche più effimere e le persone, soprattutto i giovani, sono in competizione fra loro, la biblioteca deve saper aggregare, mostrare, invogliare, creare una dimensione fisica in cui lavorare insieme. Per interpretare al meglio tale compito è necessario provare a mettere tra parentesi, con un esercizio spirituale che potrebbe assomigliare all’epoché di husserliana memoria, l’idea che i bibliotecari hanno di sé e del loro lavoro per cercare di indagare con approcci nuovi e non stereotipati le esigenze di quella massa indistinta di persone che ogni giorno affolla le sale di lettura: è il mondo che entra in biblioteca portando con sé nuove istanze e abitudini, utilizzando spazi e servizi in modo nuovo e in alcuni casi sconcertante, è la comunità che la biblioteca è chiamata a servire.
La declinazione della sostenibilità come capacità di sviluppare azioni inclusive nei confronti della comunità rimanda invece al concetto di “biblioteca sociale”, un servizio aperto, disponibile all’accoglienza e all’ascolto, capace di predisporre un’offerta di tipo “sartoriale”, tagliata cioè a misura dei bisogni di singoli individui o gruppi, senza per questo rinunciare alla matrice fondativa della sua missione pubblica, che è quella di facilitare l’accesso alla conoscenza scritta e potenziare le capacità dei cittadini di farne un uso competente.
L’inclusione è un antidoto potenziale per una società frammentata, che rischia di condurre sempre più persone all’isolamento e alla solitudine, e la biblioteca può essere uno dei luoghi più interessanti per affrontare questo aspetto peculiare della crisi sociale che stiamo attraversando, un luogo che per sua natura presenta una quantità di risorse e caratteristiche che permettono di progettare in modo innovativo ed efficace interventi volti a stimolare la partecipazione dei cittadini, l’accoglienza della fragilità, la facilitazione di reti e collaborazioni, le contaminazioni tra ambiti professionali.
La sostenibilità, nella lettura che ne hanno dato i bibliotecari riuniti nell’assise romana, non è quindi sinonimo di capacità economica o gestionale ma di identità, riguarda la capacità delle biblioteche di leggere la società contemporanea e di identificare i problemi a cui un moderno servizio bibliotecario può dare risposte.
L’Italia, fra i molti problemi che ne stanno determinando un lento declino, è alle prese con un macroscopico deficit di competenze della popolazione adulta e con fasce crescenti di famiglie in condizioni di povertà materiale e di deprivazione culturale (fattori che, di norma, tendono ad andare a braccetto). Le povertà educative e i deficit cognitivi così ben delineati dall’annuario prodotto da Save The Children con la curatela di Giulio Cederna mettono le biblioteche italiane di fronte a un dilemma: continuare a baloccarsi alla ricerca di nuove missioni, nuove attività, al fine di metamorfosare il proprio profilo identitario fino al limite oltre il quale risulterà irriconoscibile, oppure prendere atto che, oggi come secoli fa, esse rimangono un ambiente di apprendimento che ha enormemente ampliato rispetto al passato la platea dei potenziali clienti e le modalità d’approccio con essi ma che deve continuare a concentrarsi sulla sua missione storica, ovverosia offrire opportunità di formazione e di crescita culturale, che oggi più che mai rappresentano il discrimine tra inclusione sociale e marginalità economica e sociale. In fin dei conti, anche se appare di meno immediata comprensione, il bagaglio di competenze individuali, il bilancio culturale familiare, la possibilità di fruire di libri, di frequentare un doposcuola, di socializzare con coetanei in ambienti orientati all’apprendimento hanno ancora il potere di attivare l’ascensore sociale (o di arrestare la discesa agli inferi dell’esclusione e della marginalità).
È per questo che in città particolarmente deprivate o in quartieri difficili, al Nord come nel Meridione d’Italia, la sola presenza di una biblioteca in grado di fare bene il proprio lavoro fa già la differenza, anche se non è incline a travestirsi con lustrini, belletti e piume d’uccelli esotici.
Il problema è lì, di fronte a noi, imponente e ineludibile in tutta la sua drammaticità: come fare a rendere la popolazione italiana meno ignorante e più attrezzata culturalmente ad arginare un futuro denso di incognite. È tempo di generare un movimento potente di trasformazione e rilancio delle biblioteche, che sappia capitalizzare le esperienze pilota per dare un contributo reale a questa battaglia di civiltà. La sostenibilità non dipende (solo) dalle risorse disponibili ma dall’avere cognizione delle priorità e del proprio posizionamento in campo. Diversamente, meglio rimanere negli spogliatoi e lasciare che la partita la giochino altri.