Le traduzioni non sono un fenomeno inedito. Ma la loro enorme diffusione e il loro utilizzo per forme e scopi differenti rappresentano un aspetto innovativo della modernità letteraria. La nascita della figura professionale del traduttore ne è stata la necessaria conseguenza. Un ruolo, il suo, che si fonda su un rapporto d’interdipendenza con l’autore: se da un lato non vi può essere traduzione senza scrittura, infatti, dall’altro il traduttore è la prima risposta del mercato della letterarietà di fronte a un testo.
Uno degli aspetti più innovativi della modernità letteraria è il traduzionismo, nella sua diffusione crescente e multiforme. Ovviamente, non si tratta di un fenomeno inedito: traduzioni orali e scritte se ne son sempre fatte, sin dai tempi di Babele, ogni volta che si intendeva stabilire un rapporto comunicativo tra le varie tribù. A venire trasferiti da un linguaggio all’altro erano, s’intende, i discorsi più importanti, come quelli a carattere sacro: la parola di Dio era chiamata a risuonare in ogni idioma. Ma al giorno d’oggi tutto ciò che pronunziamo può chieder di esser reso comprensibile a chi usa una lingua diversa da quella che noi adoperiamo abitualmente. Per necessità di lavoro o opportunità di svago, a chiunque capita di trovarsi in imbarazzo di fronte a elocuzioni straniere sconosciute e incomprensibili. E allora si ricorre al traduttore, o a chi per lui: non si può farne a meno.
Un caso esemplarmente paradossale è la difficoltà occorsa tempo fa a uno studioso eccelso, il tedesco Erich Auerbach, che nella stesura di un grande libro sulla letteratura dell’Occidente europeo dall’antichità ai giorni nostri, non poté inserirvi scrittori della levatura di Tolstoj, Puskin, Dostoevskij, perché non conosceva la lingua russa. E lui non intendeva ricorrere alle traduzioni, in quanto riteneva che le peculiarità linguistico-stilistiche di un testo prestigioso vengano compromesse anche nelle migliori traduzioni.
Ma naturalmente, della traducibilità non si può fare a meno. La nostra civiltà non sarebbe quella che è senza l’esercito di traduttori al lavoro giorno e notte per ogni dove. Sul piano socioculturale un fenomeno decisivo della modernità è la professionalizzazione della figura del traduttore. Analogamente al mestiere del giornalista, si tratta di una risorsa utilissima per i ceti e le categorie del personale lavorativo di formazione umanistica; a fronte delle grandi opportunità che si presentano alle leve giovanili di orientamento tecnoscientifico. L’esercizio del passaggio da una lingua all’altra richiede un tipo di competenze tutt’affatto particolari.
In altre parole, il traduttore rappresenta una tipologia intellettuale dotata di un forte statuto di identità, pur nella grande ricchezza di modulazioni che ne articolano i tratti costitutivi. Ma a definirne irreversibilmente la presenza sul nostro orizzonte discorsivo è il suo rapporto obbligato con la centralità del soggetto autoriale. La loro dissimiglianza è pareggiata dalla interdipendenza: l’autore è solo con se stesso, il traduttore non è solo mai, è sempre assieme a colui che lo precede. Essenzialmente, costituisce la prima risposta che il mercato della letterarietà offre alla novità vitale del testo: se lo si traduce, è perché se ne apprezza la energia elocutiva come una merce entrata in circuito di scambio.
Il vantaggio del testo autoriale è di essere già stato pubblicato, mentre il testo tradotto attende di avere pubblicazione: questo è il suo destino, di venire pubblicato, e quindi assumere soggettività compiuta. Non esiste un solipsismo della traduzione, che è sempre riferibile a una testualità insorgente. La scelta del testo da tradurre viene sempre effettuata nell’ambito di un mercato che offre una quantità di altri testi, analoghi o diversi. E nessuna scelta viene effettuata a puro e semplice arbitrio; vero è piuttosto che le motivazioni preferenziali sono di indole sia estetica sia extraestetica, perché non si può non tenere conto che il testo tradotto prende vita in quanto è destinato a venire immesso in un mercato librario strutturato editorialmente.
Naturalmente le grandi fortune della traduttologia moderna anzi modernissima sono connesse alla concorrenzialità tra i linguaggi disponibili al pubblico o meglio a tutti i pubblici universali. Tutti sanno che nel mondo occidentale c’è una lingua regina nella quale si traducono e dalla quale si traducono gli apporti da lingue di influenza minore. Ma sul piano della letterarietà vera e propria va sottolineato che l’egemonia anglistica è connessa alla diffusione trionfale di una narrativa di intrattenimento che ha un forte effetto di unificazione dei gusti e delle preferenze di lettura.
D’altronde è pur vero che nella globalizzazione linguistico letteraria c’è posto per tutti e anche gli idiomi più remoti o disusati possono trovare magari inattesamente un loro spazio vitale. E del resto bisogna aggiungere che la spinta all’uniformazione dei modi di scrivere e di leggere non implica una scomparsa degli snobismi, le stravaganze, o diciamo pure le gratuità vocabolaristiche sintattiche ritmiche: anzi può proprio sollecitarle. È ovvio che la gran parte dei lavori di traduzione vada collocata sotto il segno dell’utilitarismo commerciale: che peraltro non è instrumentum diaboli. Ma c’è un piacere, una felicità del tradurre che non avrà mai da scomparire: perché l’utilitarismo, quanto più si amplia e si rafforza, tanto più apre campo alle esigenze di una attività fervidamente disinteressata.