Traslocare o re-installare? Fra pagina e schermi

Anche se nell’ambito della letteratura gli effetti della «rivoluzione digitale» appaiono a tutt’oggi piuttosto aurorali, lo spettro di una imminente «migrazione» dalla carta all’e-book continua ad alimentare, fra molti umanisti, ansie e paure. I nuovi device sarebbero infatti inadeguati a supportare il tipo di lettura immersiva che i testi letterari richiedono. Ma forse la vera sfida non è quella di gestire un fastidioso trasloco, quanto di promuovere e guidare creativamente una profonda re-installazione della letteratura e della cultura umanistica in un mondo digitale.
 
È un dato di fatto: fra gli ambiti di pertinenza della «vecchia» tecnologia della stampa, la letteratura resta a tutt’oggi uno di quelli in cui gli effetti veramente esperibili, o misurabili, del cosiddetto digitai turn appaiono ancora, tutto sommato, piuttosto embrionali, aurorali. Non che questo scalfisca di un millimetro, naturalmente, le nostre convinzioni circa la portata epocale della «rivoluzione» in corso: che la Rete e il digitale cambieranno, anzi stanno già cambiando, anzi hanno già irrimediabilmente cambiato anche i nostri modi di scrivere e leggere – oltre che di socializzare e presentare, dibattere e studiare, conservare e insegnare la letteratura –: tutto questo lo pensiamo, anzi, lo sappiamo tutti.
A determinare questa singolare condizione di consapevolezza zoppa – nitidissima eppure aggettante sull’impregiudicato, ben piantata in un buon senso comune ma sempre un po’ costretta alla fantasticheria profetizzante – non è soltanto l’evidenza dei «bruti» numeri: che anche al di là delle cospicue differenze fra contesti e mercati (la più compassata situazione europea, il più maturo scenario americano), nel complesso descrivono la crescita dell’e-book come un processo ovunque continuo e consistente ma tutt’altro che travolgente (come invece si era pensato, o temuto, in un primo tempo). In modo forse meno «oggettivo», ma altrettanto eloquente, qualcosa di analogo ce lo suggerisce la nostra personale, quotidiana esperienza di lettori digitali. Che probabilmente non è molto dissimile da quella che Andrew Prescott, medievista dell’università di Glasgow, ha descritto in un divertente post sul blog del Digital Reading Network (un progetto di ricerca guidato da Bronwen Thomas, docente di Communication and Media all’università di Bournemouth) come l’esito di un processo di «rinegoziazione graduale delle sue abitudini di lettura», fatto di «aggiustamenti dinamici, esperimenti e riallineamenti»: un processo tutt’altro che «improvviso, drammatico e dirompente», anche se «non per questo meno profondamente trasformativo». Perché certo non è difficile intuire che usare un e-reader invece che un libro comporta una trasformazione delle concrete modalità di esperienza del testo, degli aspetti procedurali-gestuali dell’atto di lettura, che non può non avere riflessi sulle dinamiche cognitive e affettive della fruizione (senza contare il modo in cui la Rete e i dispositivi digitali rimodellano i nostri comportamenti nella fase preliminare della scelta, acquisto, archiviazione del testo, o in quella successiva della socializzazione delle nostre esperienze di lettura). Eppure, mentre ci interroghiamo sul potenziale rimodulante di questi dispositivi e delle loro funzioni – che magari stiamo ancora imparando a maneggiare con confidenza – è difficile sottrarsi all’impressione che non stiano poi nemmeno qui le vere rivoluzioni che la rivoluzione digitale ci prepara e con cui ci dovremo confrontare: che quelli che abbiamo sotto gli occhi non siano che assaggi di ciò che potrebbe aspettarci e anzi di sicuro ci aspetta, indizi che puntano altrove… Ma dove?
La percezione diffusa di questa domanda di senso ha alimentato e continua ad alimentare, un po’ a tutti i livelli di approfondimento e specialismo, una fervida attività di analisi e mappatura descrittiva della mutevolissima situazione presente ma anche, appunto, di tesa immaginazione proiettiva, delineazione prospettica, argomentazione pronosticante. In effetti l’impressione è che tante paure e ansie che continuano a serpeggiare fra lettori e operatori di educazione e sensibilità umanistica, derivino proprio dalla difficoltà di trovare un angolo di raccordo non solo convincente, ma anche veramente produttivo, fra i differenti ma inscindibili spigoli di questo sforzo interpretante.
Paradigmatico, da questo punto di vista, è il «caso» di un recente saggio pubblicato dalla linguista americana Naomi S. Baron, che nei mesi scorsi ha avuto una diffusa eco pubblica sulla stampa internazionale (da noi ne ha parlato ad esempio, fra gli altri, Paolo Di Stefano sul «Corriere della Sera»). Quale sia il suo centro di interesse la Baron lo dichiara fin dal titolo, tanto suggestivo quanto però tendenzioso: Words Onscreen. The fate of Reading in a Digital World («Parole sullo schermo. Il destino della lettura in un mondo digitale»). Più precisamente, il movente pragmatico della studiosa è di tipo didattico/educativo: il saggio nasce cioè da un sentimento di «preoccupazione» (pur mista a «curiosità») per la crescente determinazione con cui diverse istituzioni scolastiche e accademiche americane si sono impegnate, nell’ultimo decennio, a predisporre e caldeggiare la possibilità, per i propri studenti, di acquistare edizioni digitali di manuali e testi di studio inseriti nei programmi dei loro corsi (soprattutto perché molto più economiche delle corrispettive edizioni cartacee). Ma – è questo l’assillo della Baron – può darsi che l’avvio di questa «migrazione» mediale, spesso accettata semplicemente come ineluttabile, nasconda in sé altri, ben più drammatici, costi? E ignorarli o non tenerne conto, quali implicazioni avrà «per l’educazione, la cultura, e noi stessi?». Secondo la Baron – non è difficile intuirlo – nefaste.
Va detto che uno dei motivi di interesse del saggio è proprio la varietà di dati e argomenti che l’autrice raccoglie, censisce, discute, nella sua serrata valutazione costi/benefici degli effetti del «grande trasloco». Ma sono soprattutto tre le motivazioni in base a cui Baron giunge a sentenziare, alla fine, che i nuovi device digitali possono sì essere ritenuti buoni quanto, e forse anche più della stampa, per letture «leggere», brevi e poco impegnative, di testi informativi o di facile intrattenimento «che non intendiamo analizzare o rileggere»; mentre per le letture più serie – i capolavori della «vera» letteratura, i densi prodotti del pensiero critico/speculativo e del sapere umanistico che bisogna studiare e meditare la superiorità del «vecchio» handbook è indiscutibile.
Il primo argomento è che la virtualizzazione del supporto fisico del libro comporta una perdita secca di quell’insieme di riferimenti materiali, tattili, prossemico/spaziali, che non sono solo intensificatori affettivi accessori dell’esperienza estetica del testo, ma costituiscono un supporto coadiuvante preziosissimo per i nostri procedimenti di memorizzazione. Esperimenti condotti da diversi psicologi della lettura (in particolare dall’equipe di Anne Mangen presso l’università di Stavanger, in Norvegia) indicano d’altronde che la fluidità con cui il testo di un e-book scorre, schermata dopo schermata, sulla superficie bidimensionale di un e-reader, attenua la nostra capacità di costruirci un’immagine mentale salda dell’architettura complessiva dell’opera (e dunque di situare su quello sfondo i passi che stiamo leggendo). Il risultato è che, alla prova dei fatti, i lettori di un testo a schermo ricordano meno, e con meno precisione, di quelli che lo hanno letto in versione cartacea.
Il secondo argomento è che il diffondersi dei device digitali come piattaforma per la lettura sta producendo un vero e proprio slittamento del significato stesso della parola «leggere». Da utilizzatori intensivi di pc e e-reader, tablet e smartphone, noi impieghiamo cioè una quantità crescente del nostro tempo in attività di «decodifica testuale»: che però, in larghissima prevalenza, non si declinano certo come un’impegnativa e immersiva esperienza di attraversamento integrale di un testo lungo e continuo. Piuttosto si tratta di esercizi di estrazione selettiva di informazioni attraverso lo scorrimento rapido/discontinuo di un ambiente semiotico misto (che integra testi, immagini, elementi audiovisivi, ecc.). E il modello che Baron chiama «read on thè prowl» (leggere «a caccia di» qualcosa), e che ha i suoi correlativi operativi, per un verso, in uno stile fruitivo modellato sul caratteristico schema a «F» che, secondo le ricerche di Jakob Nielsen (vero guru dell’«usabilità» dei contenuti web), si ricava dall’eye-tracking degli utenti di pagine in Rete (ovvero: una lettura continua per le prime righe di testo, che sempre più degenera verso una rapida scansione in verticale nelle righe seguenti); oppure nella crescente predisposizione all’uso della funzione «trova» per una ricerca di parole-chiave all’interno di un documento. Pratiche di questo genere rispondono a una idea «efficientistica» del leggere che in certi contesti è utile e del tutto adeguata (e che corrisponde, sul fronte della scrittura, alla sempre più rigida/prescrittiva predilezione per il breve, il sintetico, il concentrato, a discapito del lungo e complesso e distribuito). I problemi cominciano però quando la forza modellizzante di queste abitudini fruitive si manifesta in contesti che richiederebbero invece un’attivazione e distribuzione dell’attenzione ben differente: perché lì la rapidità di reperimento della singola informazione è assai meno decisiva del percorso attraverso cui il testo arriva a fornircela. Se questa inopinata interferenza fra idee e stili di «lettura» difformi è tutt’altro che estranea, secondo Baron, alle crescenti difficoltà che i suoi studenti incontrano nel confrontarsi con testi lunghi e complessi, proporre loro di fruirli su un tablet o uno smartphone, didatticamente, è poco meno che un suicidio culturale.
Il terzo argomento su cui Baron riflette incrocia «un altro interrogativo sulla natura del leggere: è un incontro individuale con un testo oppure si tratta essenzialmente di un’esperienza sociale?». Qui le preoccupazioni dell’autrice – che pure riconosce le potenzialità della Rete come luogo di rinforzo e condivisione intersoggettiva dell’esperienza del leggere – riguardano soprattutto, e un po’ più banalmente, gli effetti distraenti e centrifughi che un supporto provvisto di una connessione web fatalmente comporta: uno sta leggendo un testo, poi pensa di controllare un momento la casella di posta o il profilo Facebook, e un’ora dopo non è ancora tornato a ciò che stava facendo.
Oltre e più che queste riflessioni e analisi, comunque, ad attirare e intrigare i recensori di mezzo mondo è stato il risultato di una singola specifica ricerca, che la Baron stessa ha condotto fra i suoi studenti undegraduate (e fra due gruppi anagraficamente omologhi di studenti giapponesi e tedeschi), semplicemente somministrando loro un questionario su preferenze e abitudini di lettura. Risultato: proprio loro, i cosiddetti «millennials», la generazione dei supposti «nativi digitali», hanno massicciamente dichiarato che, per studiare o leggere opere intellettualmente impegnative, al pur più agile ed economico e-book preferiscono, di gran lunga, il buon vecchio pesante libro di carta (sostanzialmente, per ragioni riconducibili ai tre motivi appena ricordati). Sulle pagine del «Corriere», Paolo Di Stefano commenta così: «Se fossero cinquantenni, sarebbero bollati come ottusi nostalgici. Invece no, niente struggimenti malinconici, solo la constatazione che la carta è meglio, per varie ragioni: pratiche, fisico-tattili e probabilmente tecnico-mnemoniche, poco importa se i libri pesano negli zaini».
Ma dunque, cosa dobbiamo dedurne? Che se teniamo davvero all’educazione dei nostri studenti (alla nostra educazione), dobbiamo batterci perché si continui a studiare e leggere solo su carta? Che la tecnologia del libro è l’unica davvero adeguata a conservare e trasmettere l’immenso patrimonio della cultura occidentale? Che il digitale – supporto inadatto alla «vera» lettura, alla «vera» cultura – è una tecnologia che possiamo bensì tollerare, in certi contesti e per certi scopi, ma da cui dobbiamo fermamente difendere e preservare, almeno, il fortino della Letteratura e dell’umanesimo (e il fortino di quel fortino che sono la scuola e le facoltà di Lettere)?
Mettiamola così: se all’inizio ho scritto che il titolo della Baron è tendenzioso, è perché secondo me il suo studio non dimostra veramente quello che pretende di dimostrare. In particolare, non delinea affatto quale sia o potrebbe essere «il destino della lettura in un mondo digitale». Non che i suoi argomenti siano privi di fondamento o rilevanza. Tutt’altro. Individuano anzi abbastanza bene alcune delle evidenti specificità di quello che è stato chiamato «formato schermico» – in particolare la costitutiva vocazione a una testualità mista, plurimediale, e la predilezione per una logica espositiva e discorsiva di tipo seriale/modulare piuttosto che sequenziale/lineare (come quella della prosa).
Certo, sostenere che i media digitali sono in sé inidonei a supportare rigorose pratiche di lettura/rilettura/analisi testuale appare un po’ azzardato, se solo si considera il moltiplicarsi di progetti di ricerca accademici d’avanguardia volti precisamente a sondare, dalle più diverse prospettive (filologiche, bibliografico/archivistiche, linguistiche e «stilometriche»), il promettente orizzonte di possibilità dischiuso da una intelligente integrazione dinamica fra close reading e distant reading (secondo la formula di Franco Moretti), fra stili e pratiche di scrittura, lettura, analisi elaborati in secoli di cultura «tipografica», e le ancora largamente inesplorate tecniche organizzativo-espositive, analitico-esplorative, critico-argomentative dischiuse dagli strumenti informatici.
Né appare meno curioso che, proprio mentre si sottolinea la forte specificità dello schermo come medium della lettura, se ne declini poi il confronto con il libro tradizionale usando, come metro di giudizio, le performance di memorizzazione di lettori che certi «compiti» hanno imparato a eseguirli, e li eseguono da sempre, sulla pagina a stampa. Perché è del tutto evidente che i nativi digitali – se li intendiamo come individui costitutivamente in grado di maneggiare al meglio una tecnologia per il solo fatto di averla a disposizione da sempre – semplicemente non esistono: così come non esistono «nativi tipografici», se è vero che a maneggiare e studiare un libro, ancora oggi, bisogna imparare, sotto la guida di qualcuno che ci insegni a farlo.
Ma proprio questa, allora, è la vera lacuna che le riflessioni della Baron implicitamente certificano (pur senza riconoscerla), e che davvero dovremmo preoccuparci di colmare: quella cioè di una generazione di volenterosi e avventurosi pionieri-guida, di esploratori-mandatari che si impegnino a immaginare creativamente (sperimentando e via via affinando modelli poi trasmissibili ad altri) non solo ambienti operativi e strumenti software, ma i rudimenti di una grammatica, di una sintassi, di una retorica, sulla base delle quali cominciare a capire come un testo si possa studiare (si possa leggere immersivamente, analizzare articolatamente, comprendere approfonditamente) anche su un e-reader.
Uno dei rischi da evitare, invece, è proprio quello di pensare che il destino della lettura in un mondo digitale possa davvero risolversi nelle prime, un po’ impacciate prove di meccanico «trasloco di contenuti» da un supporto «vecchio», ma proprio per questo straordinariamente affidabile e rodato per certi fini, a un altro «nuovo» e proprio per questo – non c’è dubbio – ancora un po’ inefficiente ad assolvere certi compiti e responsabilità. Ma piuttosto che nel vigilare, arcigni, per contenere i danni e minimizzare le perdite di queste, sia pure insoddisfacenti, operazioni, la vera sfida da cogliere sembra semmai quella di attivarsi per promuovere, anzi guidare (un po’ enfatico, pardon) una vera e propria operazione di re-installazione creativa della letteratura e della cultura umanistica nel contesto del mondo digitale. Come hanno indicato con lucidità, ad esempio, autori come Jerome McGann (già nel pionieristico Radiant Textuality, tradotto in italiano col titolo La letteratura dopo il world wide web, o ancora nel recentissimo A New Republic of Letters del 2015), o quelli riunitisi – sintomaticamente – nel «collettivo» di Umanistica-digitale, proprio agli intellettuali di formazione umanistica – con la loro specifica sensibilità retorica, estetica, critica, filologica – sembrerebbe poter spettare in quest’ottica un ruolo (una responsabilità) cruciale: a patto naturalmente che sappiano reagire alla tentazione di irrigidirsi in uno sterile arroccamento difensivo sui fragili confini dei propri recinti di competenza.
Del resto, sottoporre a una serrata analisi e a un inventivo riuso critico le convenzioni del formato-schermo, disautomatizzandone l’apparente innocenza e neutralità, potrebbe essere un’occasione non banale per approfondire ulteriormente la nostra consapevolezza della non neutralità delle stesse convenzioni del formato-libro: di quelle «strutture gerarchiche e sequenziali, particolarmente popolari dopo Gutenberg», che come già negli anni settanta suggeriva Ted Nelson (l’inventore della nozione di ipertesto) «sono generalmente forzate e artificiali» (che non significa affatto ingannevoli o riprovevoli, naturalmente). E poi, siamo davvero sicuri che le grandi e meno grandi opere letterarie che «leggeremo» fra venti o cinquant’anni risponderanno ancora a quelle strutture e convenzioni? Ma questo, come si dice, è un altro discorso.