Tradurre romanzi è anche l’esito di certe mediazioni, culturali e linguistiche. Se lungo l’Ottocento la lingua francese ha aiutato l’italiano ad aprirsi al mondo, il Novecento ha presentato uno scenario assai più movimentato. E cioè: avanguardie che si addomesticavano entro un sistema letterario – non più solo francofono e anglofono – in crescita; un americanismo, poi, sempre più sicuro di sé anche se normalizzante. La svolta dell’89 ha infine rivelato laboratori traducivi in affanno, tra grammaticalizzazioni esasperate e un’oralità non sempre ben mediata.
1. Alessandro Manzoni lesse Ivanhoe in francese, com’è noto. Non era in grado di farlo in inglese; le traduzioni in italiano avevano tempi lunghi di pubblicazione e spesso erano poco affidabili. Soprattutto, nella prima metà del XIX secolo la letteratura inglese, in particolare il romanzo, passava attraverso la mediazione del francese. E lo stesso Walter Scott era vólto in italiano quasi sempre su esemplari francesi.
Sarebbe ingeneroso dichiarare che ciò avveniva soltanto per colpa di una scarsa familiarità con la lingua inglese da parte dei letterati italiani, fra i quali l’anglomania peraltro era una presenza attiva sin dal Settecento. Certo, una limitazione del genere in qualche modo pesava. La ragione più profonda sembra però essere un’altra. La cultura del romanzo, che irruppe in Italia nel periodo storico solitamente detto romantico, chiedeva una mediazione di tipo nuovo rispetto alle tradizioni del classicismo, ed esigeva il filtro prospettico offerto dalla posizione conoscitiva, dallo sguardo sul mondo letterario che la lingua francese poteva garantire.
Proviamo a spiegare il concetto in un altro modo. Sino a due autori che furono anche grandi traduttori, come Monti e Foscolo, agiva nella nostra società letteraria quello che Fortini chiamava un «imperialismo innato»: la voce dell’altro, dell’altra cultura, passava sotto le forche caudine di convenzioni autocentrate che sottoponevano il testo a una serie di necessarie modificazioni. L’adattamento classicistico avveniva pressoché in automatico, e propiziava l’accettazione del referto straniero da parte dei nostri (aristocratici) pubblici. L’esempio tipico è l’endecasillabo sciolto: che è interfaccia obbligata tra il poema epico greco-latino e la sua ambientazione italiana (ma idealmente traduce anche i metri della satira, e in rari casi quelli della lirica). Appunto: lo sciolto è segnale della sicurezza, tipicamente italiana, di poter ricondurre il diverso alle ridondanze della propria identità. Della propria eredità, del proprio canone.
Nulla di tutto ciò era possibile davanti a un genere come quello del romanzo, che non solo non ha una «tradizione» ed è scritto in prosa, ma che si stava pericolosamente spostando a Nord: si stava germanizzando, più esattamente anglicizzando, in modi che non potevano non turbare i letterati italiani (ricordiamoci la polemica classico-romantica!). Da qui, la necessità della mediazione francese per rendere accettabile ciò che non sembrava avere alcuna possibilità di penetrare da noi senza produrre rifiuto e scandalo presso la stragrande maggioranza dei «detentori del gusto». I letterati, i grammatici, i retori. I classicisti, e anche qualche romantico.
2. Di recente, una serie di ricerche coordinate da Tim Parks e realizzate in particolare da una sua collaboratrice, Eleonora Gallitelli, autrice di un’importante tesi di dottorato (cfr. per una prima informazione il n. 5 di «Rivistatradurre.it», 2015), ha mostrato la grande fatica con cui uno dei modelli narrativi capitali per tutto l’Occidente, quello di Charles Dickens, è stato accolto in Italia. Il problema non è che lo si sia tradotto poco, quanto che si sia faticato a capirne alcune delle ragioni più autentiche: prime fra tutte, quelle comico-satiriche. Dickens, che pure ha influenzato tanti autori italiani, dopo l’Unità nazionale oscillava fra il sin troppo facile (troppo italiano?) sentimentalismo da romanzo di appendice e una sostanziale irriducibilità. Il casertano-napoletano Federigo Verdinois descrisse con efficacia il fastidio e l’indifferenza dei lettori e editori italiani davanti ai Pickwick Papers. «Che cosa vuole cotesto Pickwick? Che seccature ci ammannisce il vostro Dickens? E vi pare che sia spirito il suo?», scriveva intorno al 1866, riferendo la cattiva accoglienza delle sue passate fatiche traduttive. In fondo, sino agli anni sessanta-settanta del XX secolo Dickens è apparso ai lettori di massa italiani principalmente come un autore & feuilletons per ragazzi.
D’altronde, tutto ciò ha una spiegazione «sistemica», se guardiamo al modello straniero che opera entro il campo letterario viceversa più avanzato nel quarantennio successivo all’Unità. Penso alla congiunzione Flaubert-Zola, destinata a condizionare quanto siamo soliti chiamare Verismo, che nell’Ottocento in Italia era detto Naturalismo – alla francese. Per una verifica di questo assunto e per cogliere l’estensione del fenomeno, sarebbe sufficiente dare una scorsa agli scritti del critico letterario «zoliano», milanese, Felice Cameroni: nelle cui pagine esemplarmente militanti non solo è celebrata la continuità tra Capuana e Verga e i maestri francesi, ma accade qualcosa di più interessante ancora. E cioè che autori come per esempio Huysmans, oggi ritenuti da tutti «decadenti», potessero rientrare nel canone naturalista.
È un discorso molto delicato. Ma, in definitiva, appare evidente che la mediazione linguistica e culturale francese contava ancora moltissimo in Italia dopo il 1861, e aiutava a dare un senso a opere che ormai si avvicinavano alla categoria di «avanguardia». E a Parigi, negli anni ottanta-novanta del XIX secolo, che iniziò la vita poi novecentesca dell’avanguardia. (E che il suo motore primo sia stato la trasposizione – traduzione – francese di un fenomeno tedesco come il wagnerismo è cosa che non ci meraviglia.) E da Parigi, aggiungerei, che irrompono in Italia i grandi romanzi russi: tradotti inizialmente, infatti, quasi unicamente dal francese.
3. Sotto parecchi punti di vista, l’entrata nel Novecento ha costituito il rovesciamento di questo quadro. Intanto, la cultura narrativa tedesca trovava uno spazio sempre maggiore. I giovanissimi Papini e Prezzolini mettevano in auge un genere narrativo lungamente rimasto ai margini della nostra cultura, quello del racconto fantastico, che si radica soprattutto nel Romanticismo tedesco. Non si trattava più solo di importare la lirica e i suoi dintorni drammatici, come era capitato alla fortuna «romantica» di Schiller, Goethe e di altri tedeschi, traslati in Italia – in versi – sin dalla prima metà dell’Ottocento. Come per altri fenomeni che osserveremo, nei quasi quattro decenni successivi (il periodo è, grosso modo, il 1903-1939), una simile tensione si allargò e normalizzò editorialmente. Un esempio di recente ben studiato è quello della germanista milanese Lavinia Mazzucchetti: formatasi a fianco di un Rebora e di un Banfi (e quindi a contatto con la cultura della «Voce»), fu uno degli artefici del boom della letteratura tedesca in Italia, dagli anni venti in poi. Tanto più che ciò avveniva presso casa Mondadori. E sempre da una couche in senso lato avanguardistica scaturiva il bisogno di avvicinarsi ai narratori russi direttamente nella loro lingua. Agli inizi del fenomeno troviamo i nomi di Rebora e Gobetti, e lungo questa strada possiamo individuare il contributo di Landolfi.
Ma, ripeto, secondo la più perfetta delle dialettiche dell’avanguardia, al momento di rottura segue una stabilizzazione. Uno dei più interessanti e in varie accezioni discutibili laboratori di traduzione nella prima metà del Novecento è costituito dal lavoro svolto presso la redazione dei «Gialli» Mondadori da uno staff di letterati di serie A (a partire dal «rondista» Lorenzo Montano), con l’obiettivo di adattare al pubblico italiano e alle maglie della censura tanti romanzi di genere provenienti per lo più da Stati Uniti e Gran Bretagna. La parola adattamento appare appunto la migliore per caratterizzare un processo di trasferimento i cui contenuti specifici (il disordine etico, il crimine, la sovversione della normalità borghese) il fascismo guardava con sospetto: e invece il pubblico ormai di massa desiderava e reclamava. Così come – altro fatto di consumo – quei lettori non potevano non privilegiare le narrazioni sentimentali-aristocratiche della coeva produzione ungherese. Che oggi i nomi di Ferenc Herczeg o di Mihaly Foldi siano sconosciuti ai più non deve impedirci di cogliere la loro fortuna negli anni trenta e primi quaranta: a sostegno di un sistema editoriale in espansione.
Sarebbe a questo proposito interessante riflettere sul processo di dissimilazione narrativa/poesia in atto proprio in quel tempo: se attualizzante (e sempre più aperto a civiltà «esotiche») è il quadro della prosa di romanzo, più articolata è la situazione della poesia tradotta, in particolare in ambito ermetico, dove tradurre è sentito come qualcosa di viceversa artificioso, che perciò dichiarò Fortini – «carica di pathos ogni rapporto con il diverso e l’antecedente». Mentre trasporre un romanzo implicava fiducia e sicurezza, volgere poesia induceva il senso della crisi e un conseguente scatto agonistico-titanico.
4. Si sarebbe tentati di dichiarare che, entro una simile logica, la scoperta degli americani da parte di Pavese e Vittorini (e in genere da parte di quella cosa letteraria che chiamiamo Neorealismo) abbia avuto la funzione di riaprire la dialettica rottura-normalizzazione. Le cose stanno solo in parte così, almeno se pensiamo al lavoro di Vittorini, il cui rapporto per esempio con Faulkner non ha implicato alcuna emulazione, e anzi si è caratterizzato per una forma di affabilità, sbilanciata verso la lingua e cultura di arrivo. Nel 1939 esce Luce d’agosto, tradotta appunto da Vittorini per Mondadori, e l’evento costituisce una specie di discrimine cronologico. Il coraggio indubbio della scelta è controbilanciato da un desiderio di semplificazione, che paradossalmente motiva anche sviste e fraintendimenti. Eleonora Gallitelli (alla cui tesi di dottorato qui mi appoggio) è arrivata ad affermare che, rispetto agli sforzi del ben più ambizioso Pavese, e all’impossibilità di «restituirlo [Faulkner] nella sua integrità, diventa più comprensibile la scelta di Vittorini di operare incisivamente sul testo». Il filologismo di Pavese uscirebbe insomma sconfitto dal pragmatismo vittoriniano, dalla sua spregiudicatezza.
Forse è questo il filone dominante nel mezzo secolo che va dal 1939 alla caduta del Muro. Con tutte le differenze ed eccezioni del caso, potremmo ipotizzare che un’americanista uscita (curiosamente, forse) dalla scuola di Pavese come Fernanda Pivano sia stata un ottimo esempio del modo sin troppo assimilante con cui sono affrontati i testi anche più difficili provenienti dal mondo americano. E che ancora nel 1965 ci fosse un letterato-editore tanto insigne come Vittorio Sereni a decidere che la collana degli «Oscar Mondadori» dovesse prendere le mosse dalla traduzione di Addio alle armi (della Pivano, appunto), dice molto della perdurante convergenza di tensioni solo apparentemente contraddittorie. Cioè, quel modo di raccontare e scrivere-tradurre rappresentava al meglio una certa Italia uscita dalla Seconda guerra mondiale.
Ovviamente, gli anni sessanta sono stati anche altro: e ne sapeva qualcosa Sereni, a disagio nella sua attività mondadoriana di fronte a un autore come Michel Butor, che spalancava il cammino a una francesità aliena, qual è quella dell’école du regard. D’altra parte, la letteratura tedesca cominciava ad assumere le sembianze del protagonista del Tamburo di latta di Gunther Grass, il cui idioma per lo meno mentale oscillava fra il tedesco e il polacco, fissandosi su un dialetto (o forse lingua) di cui nessuno dalle nostre parti aveva mai saputo nulla: il casciubo. Ma, in quanto a lingua, non scherzava nemmeno un americano lontanissimo da Hemingway, e tutt’altro che rassicurante, Thomas Pynchon, autore per di più capace di escursioni nel dominio del sottocodice scientifico (vera bestia nera dei traduttori, come ha di recente dichiarato il miglior traspositore pynchoniano, Massimo Bocchiola, nel suo Mai più come ti ho visto, Einaudi 2015).
Ma autori debordanti di questo genere (di non facile smercio, pur se editorialmente indispensabili) stanno forse a ricordarci qualcosa che si è verificato nell’editoria italiana tra anni settanta e ottanta, in parallelo – diciamo – all’uscita di scena di uomini della vecchia scuola come appunto Sereni. E cioè che la creazione di un mercato global subordina a sé le decisioni dell’editore: che non può trascurare certi titoli, la cui indispensabilità è decretata da logiche commerciali non più unicamente italiane.
5. A dimostrare tuttavia che certi meccanismi non hanno un valore solo alienante, e che nel mercato mondializzato (per lo meno nel settore della cultura) i margini per una comunicazione autentica continuavano e continuano a essere ampi, bisogna considerare il caso Rushdie. La pubblicazione dei Versi satanici tradotti avveniva nel 1989: cioè all’inizio dell’ultima «fase», quella che arriva sino a noi. L’emergenza planetaria di quel romanzo presentava per lo meno due facce. Quella di un libro scandaloso, e annunciato come tale per allettare i lettori; ma anche e soprattutto quella di un capolavoro la cui eresia si impreziosiva di vero «coraggio civile» (a dirlo con lingua d’altri tempi). Non tutte le operazioni di marketing sono prive di contenuti – riconosciamolo. Semmai, potremmo chiederci se I versi satanici sia stato tradotto bene. Si è propensi a rispondere in modo negativo, pur in presenza di un esperto e degnissimo professionista come Ettore Capriolo (che oltre tutto subì personalmente le conseguenze della fatwa contro Rushdie).
Né si tratta di una questione soltanto puntuale. L’affaire dei Versi satanici ci ricorda che esiste un inglese, oltre che una letteratura, postcoloniale, e che le lingue d’arrivo dovrebbero tenerne conto. Ma qui entriamo in un terreno minato, che implica un giudizio sullo stato complessivo della traduzione di narrativa oggi in Italia. A me sembra che la situazione sia piuttosto fluida. In primo luogo (come ha rilevato Eleonora Gallitelli) il recente traduttore di romanzi lavora spesso secondo strategie conservatrici che sono, più che normalizzanti, «grammaticalizzanti». Troppi romanzi stranieri, aggiungo io, ci vengono incontro ingessati in una forma pedante e smorta, che pochissimo – e questo è il peggio – tiene conto di quello che era stato chiamato stile semplice. Di un modo di scrivere cioè che si è sviluppato in quel lungo arco della nostra storia letteraria che collega Manzoni a Calvino, e che nei migliori contemporanei (Giorgio Falco, poniamo) continua a mantenere una certa vitalità. Si tratta dell’italiano cosiddetto neostandard, che anche letterariamente è forse quello più vivo. Ma che non penetra nel mondo della traduzione; dove insomma costrutti normalissimi nel Calvino di sessant’anni fa come: «Adesso mio fratello avrebbe potuto dare qualche altra nobile risposta, magari una massima latina, che ora non me ne viene in mente nessuna ma allora ne sapevamo tante a memoria» sono di fatto impensabili.
Ma pensiamo anche, in secondo luogo, a come parla agli italiani il narratore di Ogni cosa era illuminata di Jonathan Safran Foer, nella versione di Bocchiola: «Ma prima mi tocca il gravame di raccontare il mio bell’aspetto. Indubitabilmente sono di alta statura. Non conosco nessuna donna più alta di me. Le donne che conosco che sono più alte sono lesbiche, per loro l’anno 1969 è stato fondamentale. Ho capelli stupendi che sono separati nel mezzo. Questo perché la Mamma usava farmi il rigo da una parte quando ero bambino, e io per ammorbarla mi faccio il rigo in mezzo».
L’impresa del coraggiosissimo (e bravissimo) traduttore può apparire disperata, priva di esiti del tutto convincenti (perché usare il verbo ammorbare, ad esempio?). La non-normalizzazione denuncia molte incertezze. Qualcosa del genere mi viene fatto di pensare di fronte alla recente ritraduzione del Giovane Holden (da parte di Matteo Colombo): con ogni evidenza, questa versione è nata vecchia, con quel «parlato» deplorevolmente finto. Così come finto era l’italiano della precedente versione, a opera di Adriana Motti. Davanti a certi casi-limite la bravura del tecnico che cesella la lingua finale non riesce a coprire la sconfitta complessiva. Mimetismo non è sinonimo di traduzione: costituisce un azzardo conforme a una procedura «naturalistica», e non cultural-stilistica come dovrebbe essere quella di una vera versione.
Il problema è immenso, va da sé. Mi chiedo: sono forse saltate le mediazioni, e la traduzione è diventata una scommessa ridefinita caso per caso e pencolante su un vuoto di progetti letterari?
Eppure. Eppure, qualche tempo fa un bravissimo giovane narratore come Vincenzo Latronico (anche traduttore) mi diceva che il suo ideale di stile letterario è quello esemplificato da Martina Testa quando traspone in italiano – per minimum fax – certi grandi della recente narrativa americana, da David Foster Wallace in giù. Come spieghiamo una simile affermazione, che poi è anche una diagnosi? Rispecchia l’esito quasi ineluttabile della globalizzazione o si limita a additare un artigianato di alto livello? E prova dell’esistenza di un neoitaliano glocal oppure suggerisce la subordinazione della nostra letteratura all’egemonia di capolavori che gli italiani non riescono a produrre? Forse entrambe le coppie di risposte sono giuste, anche se è auspicabile che la seconda sia più giusta della prima. Non perché ci aspettiamo che nascano, da quell’ibrido, nuovi Manzoni Verga Calvino; ma qualche germe di una narrativa un po’ più coraggiosa, sì.