I premi letterari italiani sembrano sempre più riducibili unicamente alla loro dimensione economica. Il valore simbolico ha continuato a diminuire a causa del proliferare dei concorsi, della scarsa copertura mediatica e della composizione delle giurie. La conseguenza è un minor numero delle copie vendute del libro vincitore. Si fa strada l’idea di una ristrutturazione dei premi letterari, con giurie composte di figure autorevoli che cambiano ogni anno. Va in questa direzione la recente istituzione del Premio Neri Pozza.
Non è certo un caso che il primo premio letterario italiano sia nato a Milano, città dalla vita intensa e operosa per dirla con Massimo Bontempelli, lo scrittore che, più di ogni altro, nei primi anni venti del Novecento, guardava alla modernità incalzante con penna ironica e lucida nel metterne a fuoco gli insorgenti paradigmi, i nuovi ritmi e i nuovi idoli collettivi. Fra questi la velocità e il denaro, miti novecenteschi che nella città meneghina, dalla fine della Prima guerra mondiale in poi, avevano preso a esprimersi al meglio, industria editoriale compresa, ormai in pieno sviluppo.
È l’autunno del 1926 e in piazza san Babila si stanno pianificando le demolizioni di alcuni edifici che avrebbero ostruito la costruzione di quello che sarebbe diventato un nuovo punto nevralgico per la città. Gli sventramenti di architetti e ingegneri si fermano, però, al liminare di una lunga viuzza lastricata che riesce a sopravvivere intatta ai loro interventi urbanistici: via Bagutta, dove, fra i fuochi di una trattoria aperta nel fondo di un antico palazzo, cucina Oreste Pepoli, originario di Fucecchio, uno dei molti toscani che importeranno in città cibi saporiti di consolidata tradizione contadina.
Riccardo Bacchelli, critico teatrale per la «Fiera letteraria» la cui sede è ubicata nella vicina via Spiga – anch’esso immigrato, sia pur dalla vicina Bologna, scopre quel rustico e confortevole locale e in poco tempo vi conduce amici e colleghi: trattasi di intellettuali, critici d’arte, illustratori, scrittori, giornalisti, accumunati dal desiderio di convivialità. Non sono un gruppo dagli intransigenti dettami estetici; l’era delle avanguardie ormai volge al tramonto. Se qualcosa accomuna quella pattuglia di intellettuali e letterati, proviene piuttosto dall’esperienza della «Ronda» e di «Solaria», riviste che, a Roma e a Firenze, hanno scritto in nome della buona letteratura e della tradizione più che di proclami o di furie iconoclaste. Bacchelli, corpulento e vivace, in procinto di pubblicare Il diavolo al Pontelungo, è l’opinion leader della brigata che si attovaglia al Bagutta, spesso accolta da un libraio ambulante, costretto dalle magre entrate ad arrotondare facendo il cameriere, la sera.
La nebbia avvolge la città operosa e nella trattoria di via Bagutta, così, per celia, qualcuno propone di tassare ritardi e assenze degli habitués. A Orio Vergani, milanese doc, viene in mente il modo di utilizzare le lire in spiccioli che si vanno raccogliendo in una ciotola di coccio: fondare un premio letterario. E convinto che quella pattuglia di uomini di cultura, la sua composizione eterogenea, una certa lateralità rispetto ai potenti salotti cittadini quello di Margherita Sarfatti, per esempio – o alle case editrici, ne avrebbe salvaguardato l’indipendenza. Vuole premiare il valore letterario e aiutare il lavoro degli scrittori. Nasce così il primo riconoscimento in denaro a favore di un libro, un premio che da allora si consegna a gennaio, all’apice dell’inverno meneghino.
Di lì a nemmeno tre anni, nel ’29, si manifesta un controcanto: a Viareggio, da Leonida Repaci, e alcuni amici pittori, sull’onda di suggestioni letterarie – il naufragio di Shelley nelle acque limitrofe – e all’ombra dei primi ombrelloni di un turismo non ancora di massa, arriva la risposta estiva al Bagutta, il premio Viareggio appunto, nato «all’improvviso come nacque Venere dalla spuma del mare», avrebbe ricordato qualche anno dopo Enrico Pea, scrittore e pittore. In quel premio, all’inizio finanziato dagli artisti medesimi, il riconoscimento va anche alla poesia. Negli anni in cui il fascismo si fa regime più intransigente – nel ’39 era controllato dal capo Ufficio Stampa di Mussolini – gli scrittori si sfilano dalla giuria e aspettano tempi migliori: il dopoguerra, periodo in cui viene fondato anche il Premio Strega, sponsorizzato da una famiglia di industriali dei liquori. Il Campiello e la pletora dei premi nazionali seguiranno molto più tardi, ma inesorabilmente, a cascata; quando gli sponsor capiscono che finanziare un premio può essere veicolo di pubblicità. E oggi, anche a una casa vinicola, per esempio, può interessare associare il proprio marchio al premio locale: il nome gira, come si suol dire, e il mecenate di turno può ascrivere quella spesa a una voce di bilancio sempre più necessaria: la promozione.
Non stupisca il ricorrente accostamento fra vii denaro e letteratura in un pezzo dedicato ai premi letterari. Ce lo impone amor di disincanto nella lettura del dato di realtà. E se fossimo un po’ cinici potremmo addirittura affermare che l’unico valore che i premi oggi trasmettono è quello in euro.
Ormai s’impone la presa d’atto che, fra le diverse cause concorrenti, l’inflazione, cioè la disseminazione dei premi letterari per ogni capo – provincia, comune e manifestazione – della penisola ha minato l’autorevolezza della gran parte dei premi. Sempre più ridotto il valore simbolico, restano, più concretamente, gli euro certificati da un bell’assegno: chi lo riceve – scrittore, saggista, poeta – potrà provvedere alle spese extra per i figli e, per l’occasione, fare «un po’ di turismo a costo zero», come ha segnalato Mariarosa Mancuso sul «Foglio». Se si aggiunge che negli ultimi tempi gli anticipi agli scrittori si sono decisamente ridotti, proporzionalmente alle vendite dei loro libri, ecco che quei benvenuti foglietti bancari in qualche misura sopperiscono all’impoverimento del mercato editoriale, ne tamponano le falle. Per questo gli editori, che nulla spartiscono del premio con l’autore, sono pronti a inviare le copie omaggio destinate ai giurati, pochi o tanti che siano: quell’investimento – in fondo non troppo gravoso – gratifica in ogni caso il loro autore, vieppiù in caso di vittoria.
Così, l’incombenza che resta al vincitore – dopo un po’ di stress accumulato nel corso della competizione – sarà solo quella di smaltire la targa in ottone o l’opera dell’artista locale che per consuetudine accompagna la preziosa busta ricevuta dall’assessore di turno; anche se, va detto, succede sempre più spesso che la faccenda venga sbrigata da gentili addetti allo sgombro delle camere in cui gli scrittori hanno soggiornato, solerti nel restituire all’ente organizzatore targhe e sculture. Ma all’artista indigeno sarà taciuta la disdicevole irriconoscenza del collega letterato.
Al di là delle facezie – e della scortesia dilagante –, merita evidenziare che altri fattori convergono alla progressiva perdita di credibilità dei premi letterari nazionali, grandi o piccoli che siano. La colpa non è solo del loro esorbitante numero.
Altri fattori influiscono: come la modesta, infastidita, copertura da parte dei giornali, sempre meno interessati ai luoghi e i modi della cultura letteraria; o come la composizione delle giurie, la cui identità risente del declino, nel bene e nel male, della società letteraria. Sempre più spesso, infatti, il verdetto finale nei premi viene espresso non dai critici o gli addetti ai lavori quanto da giurie popolari, elemento di democrazia beninteso, adottando il quale si rischia di privilegiare, però, il riconoscimento della sola leggibilità di un testo più che la sua qualità.
Fanno fede di tale fenomeno le ultime edizioni del Premio Campiello, rimando tanto più pertinente in quanto nel lontano 1963 il premio veneziano venne fondato proprio su tale presupposto: i «lettori comuni» avrebbero avuto l’ultima parola sulla giuria dei letterati. In tal modo, modernamente, i finanziatori del premio, gli industriali veneti, premevano in direzione del mercato. Erano gli anni del boom economico e dell’allargamento in atto del numero dei lettori. Oggi si rischia di assistere a una sorta di involontaria parodia di quella impostazione.
Infatti, non solo la giuria tecnica è stata riformata con l’inclusione di «personaggi» della cultura, che sostituiscono gran parte dei critici letterari, ma, in nome del lettore medio, sempre più spesso viene premiata la «medietà» dei testi. Motivo per cui si va allargando il numero degli scrittori che chiedono al proprio editore di non essere sottomessi al giudizio di una giuria popolare. Al Campiello o altrove.
Se Atene piange, Sparta non ride. Per contro, infatti – si veda alla voce Premio Strega –, il potere editoriale si è da tempo organizzato, controllando consistenti pacchetti di voti, per l’assalto alla diligenza del premio, fondato nel lontano 1947 da Maria Bellonci, dal marito Goffredo e da un industriale mecenate che avevano chiamato intorno a sé i loro numerosi amici, appartenenti alla compatta società letteraria del tempo, oggi del tutto disintegrata. Com’è noto, infatti, sono anni che i due maggiori gruppi editoriali si spartiscono la vittoria in quella che è diventata una rituale partita di ping-pong. Da quest’anno, tuttavia, con la fusione dei due gruppi, Mondadori e Rizzoli, i giochi si riaprono o rischiano di chiudersi del tutto.
Un’ultima considerazione da ascrivere alle sorti dei due premi maggiori: in entrambi i casi, negli ultimi anni, il numero delle copie vendute dai vincitori si è fatto sempre più ridotto. Paradossalmente potere popolare e potere editoriale non sembrano aiutare la diffusione della lettura, né le vendite. Quanto al Viareggio, per tradizione latore più incisivo di gloria che di riscontri in libreria, continua a vivere un po’ appannato, dopo clamorosi rivolgimenti di giuria e clamorose dimissioni. Amor di disincanto ci ha insegnato anche che è bene riflettere a lungo prima di darle perché di solito vengono accettate…
Lontani i tempi del telegramma che arrivò proprio al premio Viareggio nel tumultuoso ’68: «Ritenendo definitivamente conclusa epoca premi letterari rinuncio al premio perché non mi sento di continuare ad avallare con il mio consenso istituzioni ormai svuotate di significato». Firmato Italo Calvino.
Molta acqua e infiniti nuovi riconoscimenti sono passati sotto i ponti delle patrie lettere. Gli scenari sono cambiati, affollandosi oltremisura. E forse varrebbe la pena di ripensare a una nuova strutturazione dei premi letterari.
«E molto interessante vedere quello che avviene all’estero» sostiene Marco Vigevani, agente letterario fra i più noti, «dove le giurie dei premi, penso al Booker Prize, per esempio, sono di tutta autorevolezza e, soprattutto, cambiano ogni anno.»
In tal modo, aggiungeremmo noi, sarebbe meno scontato per gli editori contare su giurati amici, fidelizzati da collaborazioni varie ed eventuali. Nel Booker Prize è un comitato di consulenza che include un autore, due editori, un agente letterario, un libraio, un bibliotecario e un presidente, nominato dalla Booker Prize Foundation – a decidere chi saranno i giurati i cui membri non sono mai gli stessi. I giudici sono nominati tra critici letterari di spicco, scrittori, accademici, e altre figure pubbliche. E cambiano ogni anno, appunto.
Naturalmente, non può essere il progressivo sbiadirsi del ruolo della critica l’unico colpevole della ridotta autorevolezza dei premi. Mancano all’appello altre figure importanti nel sostenerne ruolo e funzione: della latitanza delle pagine culturali di giornali e riviste si è già detto, ma anche distributori e librai sembrano poco inclini alla collaborazione, in tali contingenze, forse perché sovraccarichi nel numero dei titoli. La filiera editoriale, insomma, appare ingolfata, fragile e stanca, per non dire esausta.
Ma qualche tentativo di intervento riformistico si fa strada: in tal senso può essere segnalato il Premio Neri Pozza, riconoscimento biennale nato due anni fa guardando all’esperienza spagnola – là dove spesso sono gli stessi editori a farsi promotori della ricerca di libri inediti in cui qualità della scrittura e leggibilità riescano a coniugarsi – che assegna al vincitore l’importante cifra di 25mila euro. Ed è una giuria qualificata a decretarlo. Insomma, nuove filiere provano a farsi strada e a strutturarsi nella complessa galassia del libro, mai come ora attraversata da un cambiamento i cui esiti sono ancora tutti da definirsi.
Nello tsunami in corso gli autori si fanno anch’essi fragili. E se sempre più raramente possono contare su consistenti porzioni di gloria, puntano almeno a recuperare un po’ di denaro. Spiccioli, tuttavia.