Il ’68 della gioventù romana

Via Ripetta 155: l’autobiografia generazionale di chi aveva vent’anni a Roma nel ’68. Clara Sereni racconta, senza recriminazioni nostalgiche o veementi note melodrammatiche, la Bildung di un «noi» che in un decennio ha attraversato le avventure della contestazione politica e culturale: l’ordine annalistico avvalora non attenua la sprezzatura espressiva e compositiva che aveva tramato, originalmente, Casalinghitudine.
 
Via Ripetta 155 è il racconto di un decennio 1968-1977: una stagione cruciale non solo per la voce che narra ma per quella generazione che viveva a Roma e allora aveva vent’anni, poco più poco meno. A loro è elettivamente rivolto l’ultimo libro di Clara Sereni.
La parabola narrativa è indicata a chiare cifre nei titoli dei dieci capitoli. L’avvio nel 1968 suona garbata palinodia al commento di una ricetta, raccolta in Casalinghitudine: «Spesso mi è capitato di attraversare il mondo senza accorgermene. Un’impermeabilità all’esterno, che raggiunse il suo acme, credo, fra il ’68 e il ’69» (Casalinghitudine, p. 110).
Via Ripetta 155 riparte esattamente di lì: non per sconfessare quel «credo», spia dell’oltranza di riserbo con cui allora erano allineati ricordi di vita, tappe di formazione, cucina di sopravvivenza e di agio, ma per disappannare, nella trasparenza dello sguardo distante, la direzione del flusso tumultuoso degli eventi. All’incipit corrisponde un explicit, altrettanto se non più illuminante: sulla soglia del 1977, il percorso narrativo trova scioglimento, allargandosi all’orizzonte ampio della storia collettiva su cui rifrange una luce tersa, dalle tonalità meste ma non sconsolate.
All’indicazione secca dell’anno iniziale e finale corrisponde un evento molto personale e privato: il doppio trasloco, l’arrivo e la partenza, dall’appartamento prossimo a piazza Navona. Ma per Clara Sereni troppo stretto è l’intreccio di eventi pubblici e «casalinghitudine» perché la scrittura non ne esalti, per via allusiva e scorciata, la convergenza.
Come nel libro del 1987, la casa di via Ripetta, lungi dal delimitare la dimensione separata dell’intimità domestica, costruisce il luogo narrativo privilegiato della formazione dell’io, nel confronto serrato e stringente con le vicende degli altri. Cambia semmai la tecnica di montaggio: se nell’opera dedicata alle miscele di ingredienti e sentimenti, le ricette erano lo strumento per distribuire i ricordi, occultando la progressione ordinata dei fatti, ora l’andamento lineare imprime una torsione forte al fluire memoriale: il decennio che si apre con il 1968 e si chiude nel 1977 è un periodo intessuto di entusiasmi e delusioni, avventure esaltanti e sconfitte penose; da questo intreccio germina limpida una consapevolezza inscalfibile: l’aspirazione dell’«io volevo essere io» (Via Ripetta 155, p. 51) non contraddice, anzi avvalora, la partecipazione alle sorti di tutti.
La scelta di esibire, sin dal paratesto, l’ordine annalistico ha una valenza di anticonformismo marcato, perché punta a smentire un ritornello oggi molto diffuso: «tutta colpa del ’68», con il suo inevitabile sbocco nella violenza settantasettina. Che a disperdere l’eco stonata di una simile lettura sia un romanzo, a firma femminile, è una bella cosa in una annata libraria ricca di opere suggestive, forse anche più riuscite, ma di limitato interesse per i lettori illetterati. E suona risposta indiretta, ma ferma, a un’altra scrittrice che, in tempi recenti, aveva affidato alla medesima griglia cronachistica «il racconto dell’Italia ferita a morte» (Rosetta Loy, Gli anni fra cane e lupo: 1969-1994).
Per tracciare il suo bilancio generazionale – perché tale è Via Ripetta 155 – Clara Sereni recupera l’intonazione criticamente straniata con cui aveva costruito il ricettario di Casalinghitudine e ne corrobora la sprezzatura espressiva: tagli bruschi, episodi suggellati da commenti spiazzanti, scarti di voce e cambi improvvisi di prospettiva. La scrittura del riserbo continua a rifuggire dall’esibizione del narcisismo autobiografico – l’io non si autonomina mai – ma attenua le note della reticenza nella rievocazione delle vicende trascorse, affollate di incontri ed eventi con personaggi celebri, parenti e compagni.
Ciò che permane a cifra d’originalità idiosincratica è il rifiuto netto delle cadenze sentimentali e melodrammatiche. La narrazione è tanto più coinvolgente quanto minore è il tasso retorico di pathos, sia eccitato sia disforico. Se il piglio scorciato, antieffusivo, è riservato alla sfera del privato, dove le fughe e i ritorni nella casa paterna intervallano, con tecnica ellittica, gli amori impossibili, le fatiche del lavoro, gli impegni musicali, è nel racconto delle speranze collettive, destinate allo scacco, che la ruvida prosa sereniana raggiunge l’acme dell’abrasione, ponendosi agli antipodi sia delle memorie d’antan tramate di elegie e rimorsi, sia delle più recenti invettive di denuncia sociale.
A sorreggere il racconto crucciosamente complice del decennio in cui esplode la contestazione è una intonazione autoriale che rivendica una doppia appartenenza: «Continuo a scrivere “noi”, perché nessuno si pensava mai solo […]. Non ho mai rimpianto i miei vent’anni, comunque difficili: la nostalgia è sempre e soltanto per quel “noi”» (Via Ripetta 155, p. 24).
E quel «noi» comprende i ventenni di una generazione «molto fortunata» (intervista a Filippo La Porta, «Il Messaggero», 18 febbraio 2015), il cui motto, e qui scatta la seconda mossa identitaria di gender, suonava: «il personale è politico».
Ecco perché la «casalinghitudine» delimita lo spazio privilegiato per romanzizzare le esperienze di vita sentimentale e collettiva; e il racconto, grazie a questo osservatorio, può allineare gli smacchi, le disillusioni e ancor più i fallimenti e le sconfitte, senza cautelosi silenzi, ma anche senza le ormai dilaganti reprimende del pentitismo o le rancorose lamentazioni di chi si sente un sopravvissuto.
La Bildung, che segue il canonico percorso generazionale di cultura e politica, prende avvio dopo una serata di canto popolare, quando la narratrice decide di non tornare nella casa di famiglia: quella di papà Sereni, con il clan di parenti zie e sorelle, e con annesso il palazzone di Botteghe Oscure. E attraverso la musica e il cinema che Clara incrocia il movimento del ’68 e costruisce il suo «cantiere aperto al futuro»: in via Ripetta 155. Lì combatte contro il freddo (con una puzzolente stufetta a gas), la fame (scroccando i pranzi ai cineasti) e soprattutto avvia la ricerca di un «ordine nuovo», nell’illusione spudorata persino di ribaltare il «vecchio internazionalismo proletario», per via di «emozioni» e d’avventure di letto: «Tutti andavamo a letto con tutti, cercando affetto o amore o antidoto alla solitudine o forse una briciola di potere» (p. 52); «Tutti stesi sul pavimento, neanche del tutto senza vestiti. Non un’orgia, neanche fare l’amore, solo uno strofinarsi di tutte e di tutti» (p. 62).
Grazie all’intonazione femminilmente spavalda, estranea alle note logore dell’intellettualismo provocatorio, il racconto della sfida a «mio padre e tutti i padri» diventa l’autobiografia di una generazione che dal riconoscimento della sconfitta non ricava motivo di auto denigrazione e di afasia disperante.
Il percorso decennale 1968-1977 è rigorosamente circoscritto entro le pareti scalcinate di via Ripetta: il radicamento in questa «casalinghitudine», se continua a regolare i rapporti con le figure di virilità matura, il padre, grande intellettuale e dirigente Pei, ma anche il famoso regista oggetto di un appassionato amore non ricambiato, ancor più orienta il racconto delle relazioni con i coetanei compagni di lotta e di letto. Lì, dove la narratrice passa «il primo Capodanno adulto di scoperta e di politica», è possibile accogliere gli «esuli del mondo» e chiunque chieda ospitalità, «perseguitati o vincitori», ma soprattutto cominciare a ribaltare i ruoli tradizionali di coppia con il giovane sceneggiatore, invischiato nelle convenzioni familiari piccolo-borghesi e nella melassa delle cene natalizie.
Come suggerisce il titolo, via Ripetta è il fulcro del romanzo perché, nelle stanze abbaglianti di luce, matura l’identità inconfondibile di chi racconta: «non proletaria e anzi figlia di una borghesia non piccola», molto colta e molto politicizzata.
Sì certo, il numero 155 è un po’ defilato, persino i vigili del fuoco stentano a trovarlo, ma siamo proprio nel cuore di Roma «dove tutto succedeva, ci si incontrava si discuteva si cantava». Il «noi» dell’autobiografia generazionale si precisa meglio: è la cerchia intellettuale che gira intorno al Nuovo Canzoniere di Giovanna Marini e Paolo Pietrangeli, al Folkstudio di De Gregori, ai protagonisti di Cinecittà: solo in quel circuito tutto romano prendono rilievo sia gli incontri con gli amici aiutanti, dal «cognome illustre anche allora», sia le vere e proprie agnizioni, dove l’essere «figlie di» è nel contempo ragione di sconcerto e motivo di gratificazione. «Il discorso divenne a tre: tre figlie, e dietro di noi un pezzo di storia della Repubblica tale da schiacciarci […]. Nate nell’alveo della grande Storia ora toccava a noi trovare il modo di restarci» (p. 188).
Il velo di «impermeabilità» che, nel libro delle ricette, appannava il nodo dei rapporti di «tutti con tutti» ora è caduto anche perché, a distanza di trent’anni, il senso dell’ombrosa appartenenza alla «fortunata» gioventù romana consente di vedere come i «pezzi di storia si rimettevano insieme, il puzzle non appariva troppo complicato». Nell’ultimo capitolo, il 1977, l’abbandono di via Ripetta, segno di una rinnovata fiducia in una vita di coppia, prevede il trasloco nel «palazzo di Monteverde nuovo dove le vicende della mia famiglia rendevano libero un appartamento». L’ultima pagina suggella il confronto, costante e sempre bilicato fra rifiuto e accettazione, con quella Roma, quei legami parentali, quella cultura politica. Dagli scatoloni, in cui sono state ammassate le cose da portar via, esce la recensione a un film dei fratelli Taviani, I sovversivi, dedicato ai funerali di Togliatti. Il ricordo di avere conosciuto «il Migliore» in Val d’Aosta, assieme a papà Sereni, non induce nell’io narrante alcun senso di «orfanità»; e tuttavia, è difficile sfuggire all’impressione che il «noi», cui sempre rimanda Via Ripetta 155, non trovi radici e spessore generazionale nella condivisione di quella Storia comune: ecco il commento al sottotitolo della pellicola, Eravamo un milione, evidenziato con il pennarello: «Pensai che ora il milione eravamo noi, noi altri, comunque e malgrado tutto nuovi, diversi. Più in basso nella recensione l’altra sottolineatura, una frase che nel film appariva scritta a mano, anonima: “Addio Togliatti, giovinezza nostra addio… ”» (p.196).