In un mercato che dal 2010 si è ristretto del 20%, gli editori italiani hanno trovato ossigeno dalla vendita dei diritti ad altri paesi. I numeri sono più che raddoppiati negli ultimi dieci anni: non solo traduzioni, ma anche diritti per film, serie televisive e merchandising. Con la globalizzazione, è cresciuto infatti l’interesse all’estero per l’editoria italiana, soprattutto per quanto riguarda il settore ragazzi. Ciò nonostante, alcune criticità appaiono sullo sfondo: tagliai fondi per le traduzioni, elevati costi di transazione e una minore notorietà del marchio possono penalizzare i piccoli editori.
È come stare tutti su un’isola la cui superficie si è ristretta di quasi il 20% dal 2010 (-18%). E su quest’isola devono starci 4.600 «editori attivi» con le loro 62mila novità. L’isola è il mercato editoriale italiano che si è ristretto anno per anno sotto i nostri piedi.
Da qui la prima motivazione – strutturale, non episodica – che aiuta a comprendere come dai 1.800 titoli di cui si sono venduti i diritti nel 2001 si è passati nel 2014 a 4.914. La ricerca di sfruttamenti aggiuntivi dei propri contenuti, prima ancora della nostra «grande bellezza». Vendendo meglio e in maniera più efficace i propri autori a case editrici straniere, ma anche a produttori di film, serialità televisiva, articoli di merchandising, e via dicendo.
La seconda ragione tocca la globalizzazione del mercato. Perfino la filiera creativa italiana si è costretta a pensarsi fin da subito (dall’ideazione della storia e dei personaggi da parte dell’autore alla vendita dei diritti) in una logica non solo multipiattaforma (carta/digitale/audiovisivo/diritti secondari/ecc.), ma pure (o soprattutto) transfrontaliera. Anche perché cresce l’interesse delle editorie straniere per quella italiana.
Una logica che può a taluni apparire rivoluzionaria quando si parla del letterario, ma già ampiamente praticata nei settori professionali, educativi, della formazione. E più di recente nel settore ragazzi (da 486 titoli del 2001 a 2.167 del 2014).
La gestione internazionale dei diritti diventa oggi per un editore centrale quanto ieri il presidio dello spazio nel punto vendita. Non si fa un difficile esercizio di profetismo a dire che diventerà sempre più centrale nei conti economici delle case editrici. Sia direttamente (cash), sia come veicolo attraverso cui affermare il proprio brand e il proprio autore. Non si fa un difficile esercizio di proselitismo a dire che chi non si attrezza sarà destinato a diventare/restare un editore locale.
Se questo è – in larga sintesi – il concetto, ci sono almeno due aspetti di criticità da richiamare.
1) I costi di vendita di diritti di edizione non sono uguali per tutti. I piccoli editori hanno costi di transazione che sono maggiori rispetto ai costi delle imprese maggiori.
In questi anni è cresciuta la propensione all’interscambio di diritti tra l’editoria italiana e le altre editorie europee e non solo europee. E in questo processo la piccola e media editoria non è stata a guardare. Anzi! Alcuni dei piccoli editori che hanno ottenuto performance migliori rispetto alla media del settore della piccola editoria – come mostra il Rapporto sullo stato della piccola editoria in Italia del 2014 – sono stati proprio quelli che, tra gli altri elementi di innovazione, hanno anche saputo proiettare e valorizzare verso colleghi stranieri gli elementi di eccellenza contenuti nel loro catalogo.
Questo è evidente in generale ma soprattutto nel settore ragazzi. Un settore in cui gli elementi di eccellenza stanno nella dimensione autoriale, grafica, illustrativa, e in cui capita sempre più spesso di imbattersi in stand di piccoli editori italiani direttamente collocati nelle fiere di settore nei padiglioni stranieri.
Se tra 2013 e 2014 è cresciuta la vendita di diritti dei piccoli editori italiani verso editorie straniere (soprattutto europee) del +9% (è cresciuta più della media complessiva: +6%), ed è aumentato anche il numero medio di titoli venduti per casa editrice, quello che colpisce è il forte divario che abbiamo tra i numeri (medi) espressi dai «piccoli» rispetto ai «grandi». Indirettamente un indicatore di come i «costi di transazione» – cioè l’insieme dei costi che un editore deve sopportare per cedere un diritto: spazio per lo stand, tempo dedicato all’incontro, viaggi e soggiorni alle fiere internazionali, ecc. – si «spalmano» su un numero più ridotto di titoli e talvolta spingono il piccolo editore a non valorizzare al meglio il catalogo che si sta costruendo (ma perché così pochi hanno aree dedicate sul sito?).
2) Come fare a far conoscere la letteratura italiana all’estero? Uno degli strumenti sono gli «incentivi alle traduzioni», una prassi largamente diffusa in tutti i paesi europei (ma non solo europei) che, coprendo in tutto o in parte uno dei maggiori costi editoriali, favorisce per gli editori stranieri che ne fanno richiesta la traduzione di autori italiani nelle più diverse lingue (il panorama internazionale aggiornato di queste politiche è consultabile sul sito di Booksin Italy.it in una sezione curata dall’ufficio studi di Aie e dal «Giornale della Libreria»).
L’Italia per questo genere di politiche gestite dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (Maeci) ha però visto tra 2013 e 2014 una riduzione dei contributi dell’ 11 % (da 220 a 196mila euro), anche se è aumentato il numero di paesi (da 30 a 38) da cui provengono le richieste attraverso gli Istituti Italiani di Cultura all’estero. Diminuiscono i fondi ma aumenta in misura significativa il numero di titoli per cui editori stranieri chiedono il contributo al finanziamento della traduzione: da 107 a 154 (+44%). Con meno risorse la strada che si è scelto di percorrere è stata quella di ridurre il contributo a titoli fuori diritti in favore di autori e titoli contemporanei. Certo l’incremento del 44% nei titoli può sembrare significativo, in realtà – facendo qualche conto significa che le richieste provenienti riguardano (poco più, poco meno) 1’ 1% dei titoli di sola narrativa pubblicati dalle case editrici italiane.
Le richieste di contributi provenienti da editori stranieri si orientano – lo confermano i dati del 2013 e quelli del 2014 – verso le opere pubblicate da grandi e medio grandi editori: il 70% nel 2013 che diventa l’82% lo scorso anno. Quelli dei piccoli rappresentano tra il 12% e il 13% (la parte restante sono opere «fuori diritti» dell’ottocento o del primo Novecento).
Un aspetto che ci dice delle difficoltà che il singolo piccolo editore incontra nel far conoscere la sua produzione all’estero. Questa situazione è spiegabile, da un lato, con il fatto che un editore straniero che chiede dei contributi alla traduzione basa la sua scelta sul valore e la notorietà del «brand» dell’editore italiano e sul dato di vendita che quel titolo e quell’autore ha avuto nel nostro mercato. In questo modo si premiano inevitabilmente le sigle maggiori che si sono costruite nel tempo una maggiore visibilità internazionale. Dall’altro lato, si può spiegare con il fatto che la piccola editoria, che comunque cresce di peso in termini di valori assoluti (+54%) sottoutilizza quegli strumenti – stand collettivi promossi da Aie, missioni all’estero, fellowship alla principale manifestazione dedicata alla piccola editoria che si svolge a Roma (vi partecipa il 10% degli espositori), assenza di aree dedicate (e in inglese) alla vendita dei diritti, ecc. – che pure oggi sono disponibili per accreditarsi sui mercati internazionali.
I dati del 2013 e 2014 consentono di tracciare anche una mappa geo-editoriale dei paesi da cui provengono le richieste (in numero di titoli) e verso cui sono stati destinati i contributi. Le case editrici che pubblicano nei paesi balcanici (dalla Romania alla Croazia, dalla Macedonia alla Bosnia-Erzegovina, all’Ungheria; ma abbiamo aggregato anche Polonia ed Estonia nell’area dei Nuovi paesi europei) nel 2014 hanno fatto richiesta per il 42% dei titoli complessivi (39% nel 2013).
Seguono i paesi delle editorie europee, ovvero gli sbocchi più «tradizionali» per la nostra editoria, con il 30% dei titoli e 25 % delle risorse. Quindi, molto staccate, altre aree: l’Asia e il Pacifico (che comprende Corea e Vietnam) con il 13 % dei contributi alle traduzioni di libri italiani (per l’8% dei titoli); i paesi dell’area Sud del Mediterraneo (dall’Egitto al Libano, dalla Turchia a Israele) con il 10% sia dei titoli sia dei contributi. Tutte aree che in diversa misura fanno notare segni di incremento, mentre risulta in calo il peso dell’area latino-americana (da un 7%-8% del 2013 in termini di quota a un l%-3 % dello scorso anno) e quella nordamericana (dal 4% al 3%).
Nell’insieme le richieste di traduzioni provenienti da paesi di lingua inglese (Uk + Usa), traduzioni che permetterebbero un accesso più diretto ad altri mercati internazionali, rappresentano circa il 5 % delle richieste di titoli da tradurre con numeri assoluti ancora piccoli anche se in crescita: da 5 a 8.
Aspetti e numeri che risaltano in modo ancora più evidente in una situazione in cui i contributi subiscono, ormai da anni, lenti processi di accorciamento di una coperta di suo già corta anche in anni precedenti ai «tagli lineari» e alla spending review e che nel 2014 era comunque dell’ 11 % più corta.
Numeri che pongono un dilemma cui non è facile dar risposta. Orientare il flusso di traduzioni verso mercati secondari e che stanno certamente integrandosi nell’Unione Europea, in nome del principio di far conoscere e far tradurre in questi paesi autori italiani contemporanei altrimenti sconosciuti o troppo costosi da tradurre? Oppure orientarli verso mercati di lingua inglese – ben più chiusi di quelli d’oltre cortina pre-1989, non dimentichiamocelo – puntando sul fatto che una traduzione in questa lingua apre di per sé a una conoscenza globale dell’autore, della storia e dell’editore?