Mentre la recente riforma del Ministero rischia di celebrare il funerale delle biblioteche pubbliche trasformate in cimiteri di libri antichi, in alcuni piccoli centri si celebra il matrimonio fra le biblioteche e il mondo dei cosiddetti makers, gli artigiani digitali che si ispirano ai dettami del movimento open source per realizzare laboratori di produzione digitale nei locali della biblioteca. E la voglia di comunità che si inizia a respirare nelle grandi città si esprime come voglia di lettura, dando vita a nuove biblioteche sociali nei condomini e nei cortili.
Cimiteri di libri
La recente riforma del Mibact, acronimo del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, ha sancito che la priorità per le sorti del nostro patrimonio culturale è rappresentata dai musei. Le novità, contenute nel Dpcm 29 agosto 2014, n. 171, sono state annunciate con trionfalismo da riforma epocale: «L’Italia volta pagina. Grazie a questo significativo cambiamento dell’organizzazione del sistema museale e al forte investimento sulla valorizzazione che ne consegue, il patrimonio culturale torna ad essere al centro delle scelte di governo», si può leggere sul sito ministeriale. La rivoluzione consiste nella creazione del sistema museale italiano, fatto di 20 musei autonomi e di una rete di 17 poli regionali, che dovrà favorire il dialogo fra le diverse realtà museali pubbliche e private del territorio per dar vita a un’offerta integrata al pubblico. Nei musei dotati di autonomia speciale la direzione è affidata a 20 super direttori, selezionati con bando internazionale tra i massimi esperti in materia di gestione museale.
Poiché da diversi anni le novità organizzative che riguardano gli apparati statali si devono fare «senza oneri per lo Stato», per fare spazio alle 20 nuove poltrone d’oro si è ben pensato di fare la spending review nell’orto delle biblioteche e degli archivi di Stato, che hanno pagato un tributo assai pesante alla causa della valorizzazione dei beni culturali: un concetto che, nel lessico governativo, rimanda all’idea che essi siano una ricchezza da mettere a frutto per trarne un utile in chiave di promozione turistica e remunerazione economica. Idea che, per i detrattori della riforma, equivale a una resa senza condizioni alle ragioni del profitto.
In questo quadro, le istituzioni meno suscettibili e capaci di produrre reddito rischiano di essere abbandonate al loro destino. E il caso delle 46 biblioteche pubbliche statali, sottoposte a una cura dimagrante senza precedenti che ha tagliato 11 direttori/ dirigenti, accorpato alcuni importanti istituti bibliotecari ai musei, attribuito alle Biblioteche Nazionali Centrali di Roma e di Firenze le funzioni di poli bibliotecari comprendenti le biblioteche statali operanti nel territorio comunale (che a Roma sono 8 e a Firenze 4) salvaguardando – sulla carta – l’autonomia scientifica degli istituti, da esercitare però nel quadro delle consuete miserie: bilanci esangui, procedure burocratiche infernali, organici in via di estinzione.
Spicca il caso della Biblioteca Nazionale Braidense, classe 1770, sorta per volere dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria e collocata nel palazzo del Collegio gesuitico di Brera, acquisito dallo Stato in seguito allo scioglimento della Compagnia di Gesù. Custodisce tesori unici come il fondo von Haller, il fondo manzoniano, le cinquecentine del cardinale Durini, oltre a una ricca dotazione di manoscritti e incunaboli. Declassata a sede non dirigenziale e annessa alla Pinacoteca di Brera rischia di diventare, con il suo monumentale salone Teresiano, un’appendice del percorso museale, con buona pace di studiosi e ricercatori.
Non se la cava meglio la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, che nel 2014 aveva un bilancio di poco meno di 200mila euro (250 volte meno dell’appannaggio spettante alla Biblioteca Nazionale di Francia): dopo la denuncia apparsa sulla stampa, il ministro ha promesso che avrebbe posto rimedio e, in effetti, la Legge di stabilità per il 2016 prevede un appannaggio sensibilmente superiore. Nel frattempo la direttrice ha dovuto lasciare l’incarico a seguito delle polemiche scatenate dalla riduzione improvvisa dell’orario di apertura determinata, pare, dalle carenze d’organico. Forse avrebbe dovuto, invece di rendere pubblica la situazione, sostituire l’usciere andato in pensione.
Il tema però è più generale: si tratta di decidere se le biblioteche pubbliche statali, con il loro carico di libri antichi e di collezioni storiche, debbano continuare a svolgere una funzione di documentazione della produzione culturale italiana o essere imbalsamate e ridotte a contenitori di cimeli del passato. Cimiteri di libri, da digitalizzare per l’uso di qualche studioso e da conservare in sepolcri privi di funzione e di risorse.
Franceschini ha manifestato un’idea diversa: «Il 2015 sarà l’anno delle biblioteche e degli archivi valorizzati non solo perché sono luogo di tutela della memoria ma perché sono luoghi vivi», ha affermato in margine all’inaugurazione degli Spazi900 alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. «L’Italia – ha continuato – ha un patrimonio enorme e unico al mondo di biblioteche storiche e monumentali di una bellezza straordinaria, dobbiamo valorizzarle». Il bilancio dello Stato per il 2016 sembra andare nella direzione auspicata: prevede 30 milioni di euro in più nel bilancio delle biblioteche statali e qualche assunzione. Tuttavia, dati i precedenti, l’ipotesi che le biblioteche nazionali possano essere trasformate in musei bibliografici è reale. Del resto, si fa la fila anche per visitare il cimitero Père-Lachaise a Parigi o il Famedio del cimitero Monumentale di Milano.
The maker library
La diffusione delle tecnologie di stampa tridimensionale è alla base dello sviluppo in tutto il mondo dei makerspaces, laboratori di fabbricazione aperti al pubblico dove chiunque può cimentarsi nella autoproduzione di oggetti. I nuovi artigiani del XXI secolo – i makers – sono dediti al fai-da-te digitale, usano le tecnologie e condividono conoscenze in Rete per progettare e realizzare prodotti rendendo disponibili i modelli 3D, in maniera che altri possano riutilizzare il lavoro già fatto. Un nuovo modello economico basato sulla condivisione e sulla filosofia open, che riprende e sviluppa l’esperienza del software libero per dare nuove opportunità a chiunque voglia cimentarsi con la fabbricazione personale. L’aspetto interessante della vicenda è che i makers hanno messo radici in biblioteca. Apripista di questa nuova e apparentemente eccentrica tendenza sono le biblioteche americane, dove la presenza di un makerspace è considerata un elemento utile per realizzare la vocazione al potenziamento delle competenze individuali che caratterizza le biblioteche statunitensi. Come scrive Maria Stella Rasetti, «se il valore sociale della biblioteca si misura nella capacità di sviluppare le cosiddette “competenze del XXI secolo” e assieme facilitare il legame sociale fra le persone, incrementare lo spirito collaborativo e migliorare le loro condizioni di apprendimento per far sì che tutto ciò abbia poi anche un effetto positivo sulla condizione economica dei singoli e della nazione, ecco che un libro o una stampante 3D possono non soltanto convivere, ma sostenersi a vicenda».
In principio fu la Biblioteca di Fayetteville, dal nome profetico di Free Library, a dare vita a un laboratorio dove il precetto di agevolare l’apprendimento di nuove competenze da parte di tutti i cittadini è declinato secondo un approccio operativo, grazie alla disponibilità gratuita di strumenti digitali di ultima generazione (scanner e stampanti 3D) e di strumenti meccanici tradizionali per realizzare lavori di piccolo artigianato. Da allora sono decine le biblioteche che hanno seguito l’esempio aprendo Fab Labs (contrazione di fabrication laboratory) dedicati al making, con la benedizione della potentissima Ala – American Library Association lanciata addirittura nella produzione di un manuale dal titolo Making in the Library Toolk.it, disponibile online.
Creatività, collaborazione, comunità: ecco le tre parole magiche che fanno di un makerspace uno strumento per l’alfabetizzazione digitale e un luogo di contaminazione a favore della biblioteca pubblica. E in Italia? Siamo solo all’inizio. Ancora una volta i supporter più convinti della diffusione dei makerlabs sono gli statunitensi: il Dipartimento di Stato e l’Ambasciata Usa a Roma hanno finanziato la nascita del primo American corner italiano alla biblioteca San Giorgio di Pistoia, uno spazio nel quale il governo americano finanzia eventi, incontri e altre opportunità finalizzate alla conoscenza della lingua e della cultura degli Stati Uniti. Strumenti per veicolare valori, principi ispiratori e un’immagine positiva degli States.
Dal 24 aprile 2014 gli abitanti della città toscana possono frequentare YouLab e cimentarsi gratuitamente con strumentazioni tecnologiche digitali ancora poco diffuse o troppo costose per essere presenti a livello domestico. Cosa si può fare nello YouLab Pistoia? Produrre video, allestire un set cinematografico, utilizzare fotocamere, scanner e stampanti 3D, tavolette grafiche per disegnare in digitale, con un corredo di workstation Mac e Windows, tablet e una serie di banche dati per chi studia lingua e cultura americane. YouLab Pistoia è un ambiente di apprendimento dove acquisire nuove competenze e abilità. E tutto questo avviene in biblioteca, un istituto naturalmente orientato alla formazione permanente: «Dalla literacy alla digitai literacy – sono sempre parole di Stella Rasetti – i compiti della biblioteca si ampliano e diversificano pur rimanendo compattamente identificati attorno all’obiettivo di mettere al centro la persona e sostenerla nel suo individuale percorso».
YouLab Pistoia ha fatto scuola: alla biblioteca di Fabriano, al centro culturale II Pertini di Cinisello Balsamo, alla biblioteca di Vimercate dove è attivo Coderdojo Brianza, un movimento di volontari che diffondono la cultura open source, e alla biblioteca musicale Della Corte di Torino, dove è nato un makerlab della musica, unico nel suo genere in Italia. Altri stanno per sorgere nelle biblioteche di Milano. L’avventura della trasformazione della biblioteca pubblica continua.
Biblioteche fatte in casa
Che cosa può spingere gli abitanti di un condominio milanese o romano a costituire una raccolta libraria e a organizzarla come spazio comune, aperto alla frequentazione dell’intera comunità che vi abita o che vive nella medesima via? Prendendo a prestito il titolo di un libro del noto sociologo Zygmunt Bauman, si potrebbe rispondere che si tratta di «voglia di comunità», come possibile antidoto alla solitudine e all’insicurezza che mina il tempo presente, all’anomìa che trasforma i caseggiati in cui viviamo in non-luoghi privi di relazioni interpersonali.
Il fenomeno, nato in sordina, sta diventando virale. All’inizio fu via Solari, a Milano, dove sin dal 1906 era sorta per volere della Società Umanitaria una biblioteca popolare: nel 2012 il comitato inquilini, d’intesa con il Comune, ha fatto risorgere la biblioteca grazie alla collaborazione dei condomini, che hanno donato libri e scaffali. Due simpatiche signore la tengono aperta due pomeriggi a settimana, gestendo una dotazione di circa 4.000 volumi. L’esempio è stato seguito, sempre a Milano, dal condominio di via Rembrandt 12 e, in un crescendo quasi rossiniano, in altre zone della città. Alla data odierna le biblioteche condominiali nel capoluogo meneghino sono otto. I libri sono un pretesto: lo scopo principale non è quello di fare concorrenza al sistema bibliotecario cittadino – che, anzi, fornisce un supporto discreto a queste esperienze, per rispettarne la spontaneità – ma di mettere in relazione le persone, che nei condomini abitano ma non si conoscono, anzi si ignorano; oppure di fornire il conforto di un libro a chi, per età o condizioni di salute, non è in grado di frequentare la biblioteca comunale di quartiere. A Roma, nel quartiere Trastevere, è attiva la biblioteca Al Cortile, collocata nella sala dove si tengono le assemblee condominiali; ma i libri possono essere scambiati anche grazie alla little free library, una casetta collocata in cortile dedicata al bookcrossing condominiale. Gli esempi all’estero sono pochi e hanno caratteri differenti, come ha recentemente mostrato una ricerca del professor Fabio Venuda: negli States, ad esempio, in molti edifici residenziali di lusso si pubblicizza la presenza della biblioteca fra le amenities — i servizi comuni – che, al pari di palestre, piscine o terrazze, contribuiscono a favorire le vendite; in Spagna le bibliotecas vecinales sono biblioteche di quartiere autogestite da associazioni di inquilini. Il fenomeno sembra dire che la biblioteca è un punto d’incontro e di socializzazione, la spia della presenza di una comunità di persone in cerca di un antidoto, la lettura, all’individualismo che produce solitudine e diffidenza.