Il didascalismo ludico di Beppe Severgnini si è riversato in oltre venti volumi dove si amplifica il discorso giornalistico condotto sulle pagine del «Corriere della Sera» e del forum «Italians». Lo scrittore vi conduce un esplorazione dell’immaginario quotidiano, a partire dalla disamina degli stili di vita e dei consumi. Le tematiche del viaggio e del genio nazionale sono i fili conduttori lungo i quali Severgnini dipana una sua fenomenologia della classe media, con molta bonaria ironia e confortante indulgenza. La sua rivisitazione del selfhelpismo ottocentesco si distingue per i toni di colloquiale ridevolezza, incoraggiando la convinzione che il presente, per lo meno dell’uomo occidentale agiato, sia uno dei posti più morbidi dove mettere il naso.
L’alacrità di Beppe Severgnini, classe 1956, ha saputo produrre oltre venti volumi, dal 1990 sino a oggi: inchieste sul carattere nazionale di inglesi, americani, italiani; libri di viaggio, sul viaggio, sui turisti e viaggiatori italiani; una mezza autobiografia; corsi umoristici di lingue, italiana e inglese; saggi sulla condizione socio-esistenziale della tifoseria interista; manuali sulle tendenze del costume e della convivenza associata contemporanea. La dimensione didascalica accomuna simili opere; si propongono di raccontare il mondo vero, attuale, nostro e limitrofo; scandagliare le minuzie del quotidiano, perché lì si celano le verità più autentiche, o almeno quelle più istruttive e divertenti. Il piglio amichevole e meditativo, il tono faceto e intento contraddistinguono il didascalismo di Severgnini e rendono i suoi libri opere apprezzate e lette dal pubblico, che ha imparato a riconoscere il giornalista-scrittore dalle pagine dei quotidiani e periodici per cui egli ordinariamente verga le sue riflessioni sull’attualità più ovvia e ineffabile. Scoperto al giornalismo da Indro Montanelli, verso cui manifesta costante devozione, è diventato una colonna portante del «Corriere della Sera», una quinta colonna dell’«Economist» e del «New York Times», il seguitissimo titolare del forum digitale «Italians», e non manca di seminare tra le sue pagine più spicciole e disinvolte indizi delle iniziative accademiche di cui è protagonista. Il riconoscimento universitario attesta, insieme con le frequenti citazioni dei capisaldi culturali più istituzionali e rispettabili, quanto poco frivolo voglia apparire il racconto giornalistico di Severgnini, nonostante la sua metodica leggerezza.
L’io scrivente tratteggiato dalla letteratura di Severgnini, in linea di massima, appare simpatico, cordiale, genuino, figlio di buona famiglia lombarda, capace di realizzare i propri talenti più notevoli, quelli per la scrittura e il giornalismo, malgrado i desideri divergenti dei genitori in proposito, e di ricavarne motivo di affermazione professionale e di successo internazionale. Frequenta assiduamente ristoranti, ricevimenti e agenzie di viaggio, ma si concede anche visite a benzinai e corniciai per capire dalla viva voce del popolo come funzionano le cose. E uno che ha cominciato in un seminterrato di Londra, e quando viene inviato a Washington per un soggiorno annuale non fa a meno di portare con sé quadri e tappeti, per dimostrare di essere un «europeo sofisticato» (Un italiano in America, 1995). C’è molto buon understatement in lui, ma vien da pensare che quadri e tappeti se li porti davvero appresso. Baldo erede del «solferinesco lepore» d’antan, Severgnini adotta per programma l’ironia e l’autoironia quali registri predominanti del suo discorso di edificazione ludica. In termini pressoché saggistici, pone se medesimo al centro del campo d’osservazione, alle prese con il mondo da scoprire. La compiaciuta borghesità dell’io scrivente è elevata a misura dell’intera società di massa e funge da specchio della classe media vocata al consumo, con cui Severgnini intrattiene un colloquio elettivo.
È presupposta l’identificazione del lettore con il suo autore, sulla base di un’origine e una prospettiva comune, nazionale e culturale, cosicché le reazioni dell’io severgninico alle cose e alle conoscenze possano risonare familiarmente al lettore stesso, rivelare un’affinità elettiva con lui, uno sfondo indubitabile di senso comune condiviso, e insieme tracciare un percorso di formazione attraverso la prassi: vissuta, con qualche approssimazione e grossolanità, dal protagonista-autore e rielaborata, con acuto e brillante comprendonio, dall’autore-protagonista. Se la concatenazione autoironica tra errore pratico e riscatto conoscitivo costituiva il fulcro della credibilità e della cordialità di Severgnini nei libri più giovanili, l’attestazione ammiccante delle proprie inadeguatezze da parte dell’autore si è andata ridimensionando con l’avanzare dell’età e l’irrobustirsi della rinomanza culturale conseguita, a favore delle enunciazioni di principio professate. Cosicché da ultimo, nei libri più recenti, al metodo dell’autoironia maieutica si è venuto sostituendo gradualmente un approccio informativo-formativo un po’ meno ridevole e un po’ più assertivo, per quanto articolato sempre secondo modulazioni di discorso svelte e vivaci: tale si mostra soprattutto in Italiani di domani (2013) e La vita è un viaggio (2014). Ora l’ironia, come sempre benevolmente urbana, è orientata su persone e fenomeni, piuttosto che sull’io protagonista intento a misurarsi con le loro manifestazioni e abnormità. Lo sdegno e la riprovazione, che non mancano pur restando ben lontani dal procurare sangue amaro all’io scrivente, sono espressi con una illibatezza linguistica degna di un’anima pia. Senz’altro l’io severgninico rimane anche oggi saldo al centro del testo, come fonte di cognizione e giudizio autorevole, centro gravitazionale di relazioni e rivelazioni: ma proprio in quanto penna di punta del giornalismo italiano, forte dell’aura autoriale multimediale e dei traguardi raggiunti, anziché della propria «lunga inesperienza» (come recita Un italiano in America) tramutata in occasione di conoscenza e racconto.
Nonostante i soggiorni e le inclinazioni anglosassoni, l’io severgninico si guarda bene dall’indulgere al politically correct, che anzi gli capita di denunciare come contorsionismo lessicale inelegante: con ciò, corre il rischio di confezionare qualche motteggio desueto, ma è ben disposto a pagare questo prezzo in nome del suo risoluto moderatismo. Per esempio nella partizione dei ruoli di genere, abbiamo a che fare con maschi e femmine convintamente eterosessuali, accanto a cui ammettere solo eventuali eccezioni: «Lui parla, e sa di tenervi prigionieri; voi lo ascoltate, e mentalmente cercate una via di fuga. Le ragazze, per farlo tacere, possono baciarlo. I maschi non hanno neppure questa possibilità. Salvo eccezioni, naturalmente» (Manuale dell’uomo sociale, in Manuale dell’uomo normale, 2008). Ancora nel libro sull’esperienza statunitense (Un italiano in America), della popolazione nera di Washington, una delle città più nere degli Usa, unici rappresentanti sono giovani netturbini dei quali è sottolineata la probabile poca voglia di lavorare.
La relazione che l’io scrivente instaura con il lettore – bianco, eterosessuale, di preferenza benestante e talora inevitabilmente donna – è a tutta prima paritaria. Severgnini narra, riporta, esemplifica, desume, ma il materiale che gli permette tali operazioni è spesso proveniente dal contatto privilegiato con i suoi lettori quotidiani, frequentati attraverso le pagine di giornale e di rivista. Campo di osservazione per lui non è soltanto il mondo grande, che percorre in lungo e in largo da viaggiatore professionista, ma anche il mondo scritto dell’industria giornalistica e della comunicazione semiprivata con il pubblico delle rubriche. È in particolare dalla corrispondenza dei lettori, acquisita in misura massiccia e sottoposta a spoglio certosino, che Severgnini ricava confidenze personali da allineare le une accanto alle altre, al fine di cogliere tendenze notevoli del costume collettivo. Il rapporto a tu per tu fra autore e lettore, che garantisce attenzione e dedizione da parte dell’uno nei confronti dell’altro, si amplifica nel rapporto asimmetrico tra lo scrittore-giornalista di grido e la pluralità del pubblico leggente che gli richiede intimità e consiglio. Così Severgnini diventa una sorta di aperto confessore della coscienza nazionale, di cui riceve nel segreto della comunicazione epistolare confidenze private e privatissime, utili a corroborare le sue intuizioni circa l’avvicendarsi dei tempi e le sorti del genio italiano. Dice il peccato, che diventa esempio minuto ed emblematico, ma non il peccatore, perché potrebbe essere uno qualunque dei suoi molteplici lettori e affinché costoro possano ritrovare agevolmente se stessi nella peculiarità del caso evocato.
I procedimenti compositivi e retorici prediletti da Severgnini sono i cataloghi, i decaloghi, le enumerazioni pittorescamente controllate, le classifiche, gli elenchi di acronimi, le serie nominali alfabetiche, le enueg in ordine crescente d’intolleranza: tutte configurazioni testuali utili ad articolare la trattazione in sequenze ed episodi brevi, capaci di lasciare un’eco memorabile, almeno per qualche istante, nella testa di chi legge. A ciò si abbina un debole per l’allitterazione, talora smaccato («Giocasta non c’entra: la faccenda è più giocosa», Manuale dell’uomo sociale). Una materia vasta, variegata e complessa viene così analizzata, omogeneizzata, resa praticabile senza scomodare risorse intellettuali eccessivamente ponderose, ma sulla base di un principio ordinatore affatto estrinseco, gratuitamente a essa sovrimposto, e proprio perciò propenso a delineare, attraverso l’acronimo o la sigla o la serie enumerativa, sovrasensi estemporanei e spiritosi: di significato primario ostentatamente estraneo ai fatti che sintetizzano o coartano, spesso ai limiti del nonsensi, ovvero spiritosi perché nell’applicare l’ordinamento didascalico dell’enciclopedia o del manuale ne flettono scherzosamente i presupposti di seriosità sistematica.
Le strutture e gli stilemi propri della letteratura manualistica ed enciclopedica sono adoperati a man bassa da Severgnini, ora più ora meno generosamente, non solo nei libri che in modo esplicito si richiamano sin dal titolo al paradigma del manuale ma in tutta la sua produzione. La vocazione tipologica si traduce nell’allestimento di appellativi, nomignoli o perifrasi definitorie che assurgono alla funzione di categorie dello spirito. Ecco per esempio la declinazione di una occasionale tassonomia muliebre: «Tanto Ti Trito», «Umile Utile Ubbidiente», «Vera Virago Vendicativa», «Zelante Zitella Zodiacale» (Manuale dell’uomo sociale). Il compiacimento classificatorio si spinge sino alla creazione del neologismo a partire dalla crasi dei termini che denotano le principali qualità del tipo sociale oggetto di studio: «Il Nottaio», «Il Consulniente», «L’Architutto», «Il Dirottore» (Manuale dell’uomo sociale). L’esagerazione e l’iperbole sono gli strumenti retorici funzionali a congiungere i toni largamente ironici del racconto e il gusto dell’accumulazione sotteso alla struttura testuale analitico-enumerativa: «Osservatelo, l’affermato professionista, mentre nasconde una razione sufficiente per un drappello di ussari. Ammiratela, la donna-manager, che mette nello stesso piatto tiramisù e vitello tonnato» (Manuale dell’uomo sociale).
Per tali vie, del consumismo maturo e del capitalismo globalizzato, l’autore si propone uno scrutinio pertinace, senza demonizzazioni e con l’intento di attivare opportuni accorgimenti di autoconservazione: secondo la ricetta di un selfhelpismo riveduto e corretto all’insegna di pacati entusiasmi neoliberisti, come si desume per esempio da Italiani di domani. Otto porte sul futuro (2012). «Per il consumatore» spiegava già in Un italiano in America «la concorrenza comporta quasi soltanto vantaggi. Le eccezioni sono poche: avvocati, università e ospedali (che sono ottimi, numerosi, ma sfacciatamente cari)»: se tali eccezioni intacchino alcuni fondamentali principi della civiltà democratica – i diritti alla giustizia, all’istruzione e alla salute –, risulta una questione tutto sommato trascurabile al candido Severgnini. Viceversa, la dialettica di «complicazione» e «agevolazione» che frena la creatività di tanti italiani è secondo lui consustanziale alle funzioni dello Stato: «Complicatori e Agevolatori non sono solo all’Inps: stanno dovunque, e trasformano la vita quotidiana in una guerra di trincea. Sono negli uffici tributari, nelle aziende sanitarie, negli uffici giudiziari, nella scuola, negli ordini professionali, nei ministeri e nelle amministrazioni locali, negli uffici tecnici» (La vita è un viaggio, 2014). Le pastoie e i guidaleschi della burocrazia appaiono in larga misura di matrice statale e statalista, mentre «Aprire e gestire un’azienda, oggi, è un atto eroico» (La vita è un viaggio). Da un lato le macchinazioni tortuose dei mandarini, dall’altro l’attivismo frizzante dei produttori: non si scampa al tagliente manicheismo. Dietro la tollerante ampiezza di vedute, l’io scrivente severgninico rivela non di rado i segni di una militanza sin troppo ligia allo spirito dei tempi.