Gli “indifferenti” sono stati protagonisti di gran parte della narrativa del Novecento. Nel panorama contemporaneo italiano la loro condizione è raccontata in modo nuovo: senza soffermarsi più su spiegazioni psicologiche o ambientali e senza alcuna intenzione di raccontare l’origine del “male”. Il nero e l’argento di Paolo Giordano e Il padre infedele di Antonio Scurati sono accomunati dal tentativo di descrivere le difficoltà incontrate da parte di personaggi anaffettivi nel dare vita a una famiglia. L’intento è quello di mostrare quanto sforzo e impegno costi abbandonare il gelo interiore in cui si è da sempre vissuto.
La stagione letteraria italiana 2013-2014 si è aperta con una eco, sullo sfondo, di scricchiolii sinistri o, all’opposto, incoraggianti: lo scricchiolio di una montagna di ghiaccio che va addensandosi o, al contrario, quello di un iceberg che comincia a sciogliersi. Ci riferiamo all’uscita di due romanzi che – quanto a tema – percorrono una stessa via in due sensi speculari, Il padre infedele di Antonio Scurati (Bompiani) e Il nero e l’argento di Paolo Giordano (Einaudi). Scurati racconta la storia di Glauco Revelli, chef à la page che ha rilevato la trattoria familiare dal padre e, arrivato a un certo punto, stabilisce che è ora di mettere su famiglia: incontra Giulia a una degustazione di formaggi e «decisi che mi sarei innamorato di lei» spiega a noi lettori. E appunto i due diventano una coppia e hanno una figlia, Anita. Ma qui siamo in pieno flashback, perché nelle prime pagine abbiamo visto il capolinea dell’unione tra Glauco e Giulia: lui l’ha trovata in cucina piangente e a domanda sul perché Giulia ha risposto «forse non mi piacciono gli uomini». Quella che Scurati racconta è una storia frequentissima nella realtà dei giorni nostri. Però, schivati gli esiti di questo tipo di vicende che la vita vera dona troppo spesso – l’uomo, ricusato, ammazza moglie e figlia, l’uomo diventa un barbone perché la separazione l’ha lasciato nudo – grazie alla finzione romanzesca può approdare a un happy end. Glauco, innamorato – qui sì, davvero – della piccola Anita, può costruire una nuova triade, si riconcilia pure con la figura di suo padre e rimette nel menu il suo persico alla griglia del lago di Como buttando alle ortiche il passion fruit del Madagascar. A posare l’orecchio a terra come gli indiani sioux, nel Padre infedele si può avvertire il passo di una vicenda archetipica: quella della Mite. Giulia, come la giovanissima “mansueta” di Dostoevskij, si è ritrovata impacchettata dentro un’unione che l’altro ha voluto per suoi programmi. Però qui non c’è tragedia, nessuno si butta dalla finestra: con sospetta prodigalità verbale, con sciupio di immagini e metafore, Scurati ci narra una storia che si svela comunissima, una unione uomo-donna che regge qualche stagione e poi va a gambe all’aria, rimpiazzata da quella più gratificante uomo-bambina (finché la figlia resta tale…).
Non fosse per quella frase di Giulia «forse non mi piacciono gli uomini». Che, appaiata all’altra «decisi che mi sarei innamorato di lei», fa venire il dubbio che la vicenda, nella sua apparente banalità, alberghi in un pianeta particolare: il pianeta degli anaffettivi, quelli che “non sentono”. Una landa che non sappiamo se vada allargandosi nel mondo reale quanto va allargandosi nella nostra produzione letteraria. Eva Illouz, sociologa nata in Marocco, formatasi negli Stati Uniti e docente a Gerusalemme, parla di «intimità fredde»: addebita alla società dei consumi del Novecento e al trionfo della realtà virtuale nel nuovo millennio l’aver modificato percezione ed espressione delle emozioni e dell’eros.
«Raffreddando», appunto. Mentre Luigi Zoja, analista junghiano, ha parlato, più o meno allo stesso proposito, di «morte dell’altro». E certo è un ossimoro questo – intimità-freddezza – che circola, come un tema importante ma poco analizzato, da alcuni anni nella nostra narrativa (tracce se ne trovano già nei Giorni nudi di Claudio Piersanti, Ti ascolto di Federica De Paolis, Nessuno si salva da solo di Margaret Mazzantini).
Dicevamo invece che Paolo Giordano compie nel suo nuovo romanzo un cammino opposto a quello di Scurati. Giordano ha esordito con un romanzo, La solitudine dei numeri primi, il cui schiacciante successo è stato addebitato anche a una serie di motivi esterni: titolo e copertina, ma che – a nostro parere – è entrato in sintonia col grandissimo pubblico per un suo nucleo segreto: l’educazione al grande freddo che la storia raccontava, un’algidità che faceva risuonare qualcosa di molto presente nel nostro essere collettivo. Il corpo umano, opera seconda, tornava sul tema con virtuosismo: lì Giordano s’è dimostrato un Paganini dell’anaffettività, l’ha rappresentata, insieme alla meccanica dei corpi dei giovani soldati italiani in Afghanistan, in tutte le sue varianti. Il nero e l’argento si incammina, infine, nella strada dei sentimenti: sono gli affetti veri che possono unire un giovane uomo, una giovane donna e il loro primo figlio e che si manifestano in modi non ovvi, per frammenti, per piccole agnizioni, per segreti timori. All’ombra di una donna-albero – la domestica soprannominata Babette per la sua arte culinaria – che li ripara. Volere bene e credere in un orizzonte familiare è molto difficile oggi. Giordano, che il successo da scrittore ha sottratto a una carriera da fisico, registra l’esperimento dei tre con occhio da scienziato in laboratorio. Un occhio capace di restituire le anomalie della vita vera, come il bambino Emanuele, bello in modo così abbagliante da impedirci di vedere la lentezza della sua mente, il suo incespicare, il suo piccolo ritardo. L’imperfetto Emanuele che, sdraiandosi sulla pietra tombale della signora A., nell’ultima riga di questo perfetto libro, esclama finalmente il suo nome vero e trasforma Babette in una reale, perduta – amata – «Anna».
Giordano, nonostante il successo monstre con cui ha esordito, va maturando come uno scrittore di inconsueta classicità. Con questa narrazione della cauta costruzione di una famiglia, ci dice che riuscire in questa opera, oggi, è il contrario che scontato. E dunque se il titolo gioca con Stendhal, il plot gioca con Tolstoj: è la famiglia felice un piccolo miracolo da raccontare (deduciamo: oggi sono le famiglie infelici quelle tutte uguali?).
Ma appunto, Nora, suo marito e il piccolo Emanuele nella vicenda narrativa di Giordano sono il frutto di un iceberg che ha cominciato a sciogliersi. E a quel grande freddo rimandano dunque, dal nostro punto di vista, per principio di contraddizione. Un gelo che non è tutto nostro: tra le pagine scritte che ci testimoniano che strani fili ci legano a un altro – laterale – Paese europeo, l’Olanda, ci sono quelle di Arnon Grunberg che, nel Libero mercato dell’amore (Feltrinelli), ha narrato, sempre in questa stagione, di Roland Oberstein, economista quarantenne, bell’uomo che coltiva quella che lui chiama «imperturbabilità» perché l’amore, in quanto sofferenza, nella vita ma anche nell’arte lo mette a disagio. Né il gelo è nato oggi: quanti indifferenti, quanta noia, quanta nausea lastricano la via del Novecento? Oggi da noi però la novità è che cubetti di ghiaccio si trovano in personaggi che rifuggono da ogni eco epocale, marionette in plot che si consumano nell’arco di una lettura, personaggi che non hanno un prima che li spieghi, come il protagonista del Futuro è nella plastica di Eleonora Sottili (Nottetempo) che non ha voglia di andare al funerale del padre o la madre Crudelia che spolpa atarassica la figlia in Settanta acrilico trenta lana (e/o) di Viola Di Grado. Personaggi il cui gelo è dato, senza spiegazione psicologica né ambientale, e che quindi sono diversi dai “cattivi” di cui continuano a essere costellate le vie della letteratura.
Ma di questo iceberg con la cui lettura si cimentano sociologi, psicoanalisti e scrittori, quali testimonianze ci danno le cronache della “vita vera”? Pensiamo a certi gialli maturati tra quattro mura o giù di lì: al delitto di Avetrana, ai coniugi di Erba, e infine al Carlo di Motta Visconti che uccide moglie e figli (veri) in nome di un amore (inesistente, al più potenziale: virtuale) per una collega, cioè ammazza con paradosso davvero glaciale i «cari che ostacolano la sua felicità», come ha osservato Luigi Cancrini. Carlo che sembra uscito dritto dritto dalle pagine del pamphlet di Zoja sulla morte.
Da qui, da questa brina che ricopre il nostro mondo, devono nascere le intemperanze di altri. Come l’impennata di Margherita D’Amico che in uno dei bei racconti della raccolta Sette di noi (Bompiani) consegna a Lucilla, dieci anni, personaggio dagli echi salingeriani, una verità di tutti i giorni. Una verità che però oggi – in tempi di grande freddo – sembra avere bisogno di essere enunciata da una bambina-filosofa per ridiventare vera e reale: «Amando qualcuno, una sorella, un figlio, un’amica, un compagno, un gatto, un albero, su questi depositiamo spontaneamente, irrimediabilmente e a fondo perduto una parte di noi, che così lasciamo andare per sempre… Più amiamo, più ci disperdiamo con immediatezza» dice Lucilla. Brrr, che paura, non sarà meglio tornare in freezer?