La giovanissima francese Julie Maroh individua nel romanzo a fumetti il medium più adatto a rivitalizzare e attualizzare il coming out novel. Con Il blu è un colore caldo (2010) Maroh si fa interprete di una tendenza della recente letteratura giovane al recupero della “retorica della commozione’ per invitare a una presa di coscienza sulla condizione omosessuale.
In concomitanza con l’uscita nelle sale della Vita di Adele, film del regista franco-tunisino Abdellatif Kechiche vincitore della Palma d’Oro nell’edizione 2013 del Festival di Cannes, è stato tradotto anche in Italia (per i tipi di Rizzoli Lizard) Il blu è un colore caldo (2010, d’ora in poi Blu), graphic novel con cui ha esordito la giovanissima francese Julie Maroh. Si tratta di un evento rilevante; non tanto (o non solo) perché è la prima volta che un fumetto ispira, seppur liberamente, un film insignito di un premio così prestigioso, quanto perché l’opera di Maroh insedia all’interno del campo in espansione del romanzo a fumetti quella che può essere considerata una delle varianti omosessuali del romanzo di formazione, il coming out novel, in cui l’ingresso in società del protagonista è legato a un processo di accettazione della propria sessualità in seguito al primo innamoramento.
Il tema dell’omosessualità femminile si emancipa così definitivamente dalle sue due principali realizzazioni a fumetti, il manga – nella sua veste seriale così come nella variante ad alto tasso di autorialità di Ebine Yamaji, autrice di Indigo Blue, Free Soul e Love My Life, tradotti in Italia da Kappa Edizioni – e le strisce “militanti”, come quelle di Alison Bechdel (autrice celebre per i suoi graphic memoir) pubblicate tra il 1987 e il 2004 e raccolte nel volume Dykes. Lesbiche, lelle, invertite (Bur, 2009). Con Blu si compie un importante salto generazionale: Maroh, classe 1985, è un’interprete paradigmatica dell’“età adulta del fumetto”. Non è passata dalla striscia, ma da subito ha individuato nel romanzo a fumetti, che ormai occupa una posizione non certo marginale nel campo letterario, il medium più adatto a rivitalizzare un genere come il coming out novel giocando abilmente con le sue tonalità emotive.
Ambientata a Lille negli anni novanta, la storia della liceale Clémentine, che scopre con dolore la propria omosessualità quando s’innamora di Emma, studentessa di Belle arti e lesbica dichiarata, si articola apparentemente sulle consuete tappe di una Bildung lesbica: il rifiuto iniziale del desiderio omoerotico, l’ostilità dell’ambiente circostante, nello specifico quello scolastico, la rottura traumatica con il contesto familiare che non accetta l’omosessualità. E si conclude, tragicamente, con la morte della protagonista. Nulla di nuovo sotto il sole: si tratta di un topos della letteratura lesbica, dove numerose narrazioni terminano con una tragica uscita di scena dell’eroina. Ma in Blu la morte è collocata all’inizio. «Amore mio, quando leggerai queste parole avrò già lasciato questo mondo. […] Ti amo, Emma, sei l’amore della mia vita»: in fin di vita Clém consegna a Emma i propri diari, nei quali è narrata la loro storia d’amore. Il graphic novel è quindi strutturato sull’alternanza tra le lunghe analessi affidate al diario di Clém, restituite in tavole in bianco e nero con sprazzi di blu a indicare l’irrompere del desiderio, e il doloroso atto di lettura di Emma, raffigurato in tavole a colori.
L’inizio a forte impatto emotivo – con cui Maroh si fa interprete di una tendenza diffusa nella letteratura “giovane” degli ultimi anni, volta a un recupero rigenerante dell’arte della commozione (tema di tirature ’13) – coinvolge fin da subito il lettore. La scrittura diaristica, cadenzata su toni intimi e affabulatori, invita a seguire da vicino lo scandaglio interiore della protagonista, rende partecipi dei suoi turbamenti, genera un sentimento compassionevole. Anzi, Blu sembra presentare in modo fin troppo esibito le marche della letteratura commovente: è costruito sulla «retorica del troppo tardi» (Moretti), in quanto l’agnizione fra le due coincide con la crisi cardiorespiratoria che porta Clém alla morte, e prevede una punizione sproporzionata (anzi, connotata in senso romanzesco, affine com’è alla tisi di ottocentesca memoria) per Clém, vittima dell’incomprensione. Incomprensione da parte di Emma nel momento in cui viene tradita con un collega, certo – che di fatto però si risolve nell’ultimo incontro –, ma soprattutto incomprensione nei confronti di se stessa. È proprio questo il primo dato significativo: Clém non è un’eroina tragica per il cui crudele destino si prova sdegno, non muore perché la società le è nemica, perché è nel giusto ma ingiustamente discriminata. Implicitamente (ma neanche troppo) ci viene suggerito che muore perché a differenza di Emma non ha coscienza, privata e politica, della propria condizione omosessuale.
Non a caso il “diario in blu, bianco e nero” di Clém, il quale occupa gran parte del graphic novel (130 pagine su 156), si conclude sul sommario contenuto nella tavola che segue il secondo picco emotivo di Blu, ovvero la cacciata dalla casa paterna. Articolata su una gabbia composta da vignette che riassumono tredici anni, scanditi in tappe ben precise – «ho conosciuto i genitori di Emma più in fretta del previsto», «E sono cresciuta più in fretta del previsto», oppure scene della vita lavorativa di Clém, o di vita domestica – la tavola è sovrastata da un’enorme raffigurazione di Clém in posizione fetale, nuda, come a indicare una rinascita, da leggere non tanto in senso positivo quanto di frattura: la vita prima/la vita dopo. Il “dopo” va dai diciotto ai trent’anni di Clém; è a quell’età che la ritroviamo in tavole che raffigurano un presente a colori, ben lontano, anche nel tratto, da quelle della rammemorazione diaristica.
A quel punto il rapporto con Emma comincia a mostrare la corda per la relazione che ognuna ha con la propria omosessualità. Per Emma, attivista LGBT, è una questione politica, mentre Clém cerca di farsi bastare l’amore di Emma per sopperire alla frattura prodotta dalla cacciata dalla casa paterna, dopo la quale il suo animo «è raramente in pace». Tentativo vano, però, perché il desiderio di essere felici «come tutti» senza però rivendicare una differenza (e quindi i propri diritti, sembra suggerire Maroh) è destinato allo scacco. Ma Clém lo capisce troppo tardi: sulla spiaggia dove avviene l’agnizione finale, poco prima dell’ultimo amplesso che le provocherà la fatale crisi cardiorespiratoria, Clém ha una visione di Emma con un bambino, disegnato significativamente in grigio-blu, laddove ormai siamo nel “presente a colori”. Quella visione può essere interpretata come l’immagine del pieno ingresso nell’età adulta: ma il contrasto cromatico ci dice, come già sappiamo, che per Clém questo non avverrà.
Come non provare compassione, si dirà. Eppure: fermiamoci un momento e domandiamoci se sia davvero questo il sentimento mobilitato da Maroh. Certo, si è toccati dalla storia di Clém. Ma in verità è a Emma che il lettore si sente maggiormente affratellato, perché in fondo è attraverso di lei, con i suoi tempi, che ripercorre la storia della sventurata ragazza. Non si tratta quindi di compassione, la quale tende a generare sconforto, ma di commozione. Il lettore si commuove per Emma; o meglio con Emma. Ed è proprio in questo che risiede l’originalità di Blu. La reinterpretazione in chiave graphic del coming out novel operata da Maroh si realizza così tramite uno slittamento nella retorica dei sentimenti: si va oltre la pura compassione o la semplice commozione per un destino crudele inerente alla condizione stessa di omosessuale in una società ostile. Creando una vicinanza con Emma, attraverso l’espediente della commozione condivisa e della testimonianza di Emma, Maroh realizza un appello alla sensibilità del lettore, mirato, più che a suscitare compassione e sdegno per una condizione di minoranza, a una presa di coscienza.
Pur riconoscendo l’importanza e l’originalità di Blu — non bisogna dimenticare che nasce come opera prima di una diciannovenne e che quindi la scelta di concentrarsi sul momento della scoperta di sé sia quasi obbligata – viene da chiedersi se un’operazione del genere non sia già in parte superata. Se non sia il caso di affrancarsi anche dalla matrice narrativa del coming out novel per dare pieno diritto di cittadinanza artistica agli omosessuali facendoli uscire dalle zone dell’immaginario e dalle narrazioni in cui sono ancora per lo più relegati, dove dominano il tragico, il melodrammatico della giovane età, o il tragicomico. Il film di Kechiche va in questa direzione: riparte, idealmente, da dove Maroh si è fermata. La presa di coscienza è avvenuta, Adele (così si chiama Clém nel film) è relativamente in pace con la propria omosessualità, non muore. La sua vita, con i dolori causati dalla solitudine che colpisce indiscriminatamente eteroe omosessuali, malgrado le «proposte di liberazione e di affermazione piena e profonda di sé che quest’epoca mette a disposizione» (Fofi), è appena cominciata, chissà che cosa ha in serbo per lei. Forse ora siamo più attrezzati per chiedercelo, per chiedere che ci venga raccontato: e questo anche perché, in soli tre anni, un graphic novel e un film hanno modificato il nostro immaginario e il nostro orizzonte d’attesa su un tema oggi di grande attualità ma troppo a lungo relegato in una zona marginale della letteratura.
Caffè Helsinki: la Finlandia a Milano
Ospite d’onore alla Fiera del Libro di Francoforte, la Finlandia è stata al centro di una ricca rassegna tenutasi a Milano tra maggio e giugno, Caffè Helsinki. Un’occasione per conoscere un territorio dell’immaginario europeo che della sua posizione marginale ha saputo fare un punto di forza.
Mancano tre anni al centenario dell’indipendenza della Finlandia, ma le prove generali sono già iniziate, almeno in campo letterario. Il 2014 è stato un anno importante per la letteratura finlandese, o meglio, per la sua diffusione internazionale. Il Paese è stato ospite d’onore alla Fiera di Francoforte in ottobre, dove molti sono stati gli eventi volti a rendere nota una cultura spesso sconosciuta ai più. Un assaggio assai saporito del piatto forte francofortese si è avuto a Milano, dove dal 28 maggio al 12 giugno si è tenuto Caffè Helsinki, rassegna di cultura finlandese. L’evento è stato organizzato da Iperborea, attore di punta nella mediazione editoriale in ambito scandinavistico (editore dei bestseller di Arto Paasilinna), in collaborazione, tra gli altri, con il Fili (Finnish Literature Exchange), ente che sovvenziona gran parte delle traduzioni verso altre lingue, assicurando così buona visibilità internazionale a diversi autori, giovani o meno. Caffè Helsinki ha presentato la cultura finlandese nelle sue diverse manifestazioni e articolazioni: dalla cucina, all’editoria – a dare “Assaggi di Finlandia” sono giunti a Milano i fondatori della casa editrice indipendente Siitala, interlocutore privilegiato di Iperborea –, alla letteratura, al cinema. Piatti ricchi, insomma, quelli serviti in diversi luoghi della città: dal Palazzo Reale dell’inaugurazione, alla libreria Gogol & Company, alla Sormani, allo Spazio Oberdan.
Territorio storicamente conteso fra Svezia e Russia, la Finlandia si potrebbe definire il passaggio a Nordest sulla mappa dell’immaginario europeo. Così, almeno, è sembrato nel dialogo che ha aperto la rassegna, tra Rosa Liksom (classe 1958) e Luciana Castellina, autrici in tempi recenti di due libri sulla Transiberiana, rispettivamente Scompartimento N. 6 (uscito per i tipi di Iperborea nel 2014 e finalista al Premio Strega europeo) e Siberiana (Nottetempo, 2012). Se le due autrici hanno scelto di muoversi verso Oriente, altri hanno costruito lo spazio-tempo delle proprie narrazioni restando sulla linea di confine, soffermandosi sull’incontro fra due mondi il cui rapporto è cambiato decisamente dopo il crollo dell’Urss. E il caso, per esempio, di Sofi Oksanen (classe 1977), assente dal programma del festival ma ben presente sugli scaffali delle librerie, e autrice di tre romanzi di larga diffusione – Le vacche di Stalin (Guanda, 2012), La purga (Guanda, 2010) e Quando i colombi scomparvero (Feltrinelli, 2014) – ambientati dagli anni trenta a oggi, idealmente collegati fra loro. Se il primo ripercorre, in una scrittura originale giocata su salti temporali e alternanza di punti di vista, il vissuto della madre, estone fuggita in Finlandia negli anni settanta, gli altri due sono invece ambientati in Estonia, rispettivamente dopo il crollo dell’Urss e tra il 1940 e il 1960, e restituiscono eventi tragici di una pagina di storia forse meno conosciuta attraverso un punto di vista di genere: femminile il primo, maschile il secondo. La mappa dell’immaginario finlandese è insomma ben più estesa di quanto si pensi: e probabilmente ad alimentare la vena narrativa degli autori c’è una storia scritta e inscritta all’interno di confini mobili, popolati di volta in volta di personaggi delle più diverse provenienze.
A colpire, poi, della letteratura e del cinema finlandesi è la capacità di rappresentare una realtà sociale spesso tutt’altro che priva di contraddizioni e difficoltà attraverso l’umorismo. Ne hanno parlato, nell’ambito di Caffè Helsinki, due esponenti di questo filone, Kari Hotakainen e Tuomas Kyrò, insieme a Marco Rossari.
Si tratta di un umorismo utilizzato come modo di accesso a situazioni e contesti talvolta poveri, marginali, come quelli ritratti da colui che forse rimane il più grande narratore della Finlandia, il regista Aki Kaurismàki, del quale Caffè Helsinki ha presentato una retrospettiva. In Colpi al cuore (Iperborea 2006) Hotakainen immagina che le riprese del Padrino si svolgano a Helsinki e che vi prenda parte l’operaio disoccupato e cinefilo Raimo, in un incontro tra un contesto marginale (quello della Finlandia operaia, ai margini, per l’appunto, dell’Occidente) e una versione stereotipata della cultura egemone per eccellenza, che in un certo senso ripercorre all’inverso il viaggio negli Usa della strampalata band protagonista dell’esilarante Leningrad Cowboys Go America (1989) di Kaurismàki. Mentre è a Paasilinna che guarda l’ex fumettista Tuomas Kyró, classe 1974, autore del divertentissimo L’anno del coniglio, omaggio parodico all’ormai “classico” del catalogo Iperborea, L’anno della lepre (1975). In un romanzo che riprende i moduli eroicomici della migliore tradizione settecentesca, per mezzo di un narratore dai grandi poteri affabulatori, Kyrò racconta le peripezie assolutamente contemporanee dell’immigrato rumeno Vatanescu, che per comperare un paio di scarpette da calcio al figlio inizia a lavorare come mendicante per un ex agente del KGB, per poi percorrere il vasto e poco popoloso territorio finlandese e finire strumentalizzato da una caricatura del leader del partito nazionalista.
Assaggi di assaggi, quelli presentati qui, di una letteratura e di un cinema che hanno saputo fare un enorme punto di forza di una posizione marginale – ma cruciale, soprattutto negli ultimi vent’anni, in seguito ai profondi mutamenti e riassetti intervenuti sul fronte orientale – sulla mappa della letteratura europea, dimostrando una capacità di coniugare estro immaginoso e analisi sociale come ormai avviene sempre più raramente nelle letterature occidentali.