In Malaspina Cucchi scopre un’inedita possibilità di adesione al presente, inteso come superficie di un passato-sottosuolo stratificato nella mente dell’io così come nella topografia di una Milano intrisa di memorie familiari e collettive. Ne nasce un emozionato viaggio di scavo in cui il soggetto – pulviscolo nell’universo e vertice di un groviglio di destini perde ogni presunzione di autonomia, pur nella compiaciuta solitudine del suo sprofondamento regressivo. Nel finale, però, lo zampettio dell’io talpa incoccia una misteriosa figura di alter ego disforico e respingente, che chiude il libro su una disorientante vertigine identitaria: e ne fa un’estrema, scheggiata mise en abyme dell’intero percorso di Cucchi.
In Malaspina (Mondadori, 2013), l’ultima raccolta di Maurizio Cucchi, la voce poetica entra subito in scena – con una pronuncia pacata, un po’ rallentata e pensierosa, epperò tutta intrisa di un’euforia tranquilla, intimamente persuasa di sé – dichiarando la propria soddisfazione per la condizione cui ritiene di essere approdata. La poesia recita così: «Ho imparato a esprimere gli umori – / anche gli umori forti – senza camuffarli. / Senza infingimenti. // Mi godo brevi soste felici/ di sospensione e improvvisa / adesione. Mi oriento / verso un mondo più affabile / e poroso».
Be’, mica poco. Non che in passato a Cucchi difettassero una certa propensione all’auto-commento, alla sottolineatura meta-discorsiva degli snodi del proprio percorso; né tantomeno una vena cordialmente didascalica, di sentenziosità compassata, felpatamente ammaestrante. Qui però le due componenti si sommano a enfatizzare il senso di una tensione che si è risolta, separando un prima da un adesso, un itinerario affrontato da una postazione raggiunta. Insomma: sulla soglia del suo nuovo libro «l’ultimo dei nostri classici» (così lo definisce Alberto Bertoni nel risvolto di copertina) sente di aver preso una quota e si autoritrae nella posa di chi assapora, compiaciuto, questo momento.
Né si tratta di un episodio isolato, anzi. L’illustrazione protratta di questa “nuova” condizione è di fatto il tema-guida di Mala spina, che anche per questo si rivela un libro assai coerente, compatto, e dotato di un notevole tasso di leggibilità. Evidente è l’intenzione autoriale di svolgervi un discorso articolato, come dimostra il fìtto reticolo di echi e agganci fra le diverse poesie. Una sorta di bullonatura a vista di questa impalcatura intertestuale è costituita poi dalla presenza, in ciascuna delle cinque sezioni, di un singolo pezzo in prosa, dove l’attitudine ragionativa della voce può distendersi col massimo agio. E tuttavia Malaspina non è affatto un libro dall’impianto lineare, anzi: la sintassi che ne regola l’intreccio è piuttosto snodata, disseminata di insidiosi scarti e svolte. Schematizzando un po’, si può dire che Cucchi costruisca la dorsale del proprio discorso – che è a dominante argomentativa, con un forte fuoco temporale sul presente – soprattutto fra la prima, la terza e la quarta sezione (Berretto a sonagli, Macchine movimento terra, Abbandoni) mentre affida alla seconda e all’ultima (Il cortile delle giovani mamme e Console o capitano) lo sviluppo di due affondi a dominante rievocativa.
Lungo il primo asse, il discorso procede con intermittente continuità alternando due serie di immagini, deputate a sceneggiare le posture mentali ed emotive fra cui il soggetto oscilla. Alla prima, evocata già nel testo iniziale, egli accede invero solo a tratti, durante brevi momenti di «sospensione» dell’indaffarata routine del quotidiano: è un’esperienza di «aperta adesione e armonia / nel presente assoluto», di abbandono alla «pace normale dell’esserci» in quanto parte organica, benché insussistente ed effimera, dell’«universo». Come Cucchi medita in una ispirata pagina in prosa (già apparsa in un suo romanzo del 2011, La maschera ritratto, di cui riparleremo), noi «troppo ingenuamente ci crediamo individui e ci crediamo padroni. Padroni della nostra sorte, per esempio, padroni delle nostre scelte. Ma non credo sia così». Da qui l’invito a non tenere gli occhi «rivolti all’interno, rovesciati», ma a rivolgerli «fuori, dove è il loro vero destino». A queste pause di immersione nel presente, tuttavia, l’io personaggio alterna sistematicamente un mood mentale di segno opposto: si autoritrae cioè nelle vesti di «archeologo», «talpa», «operaio / che manovra», mentre attende con fervore a un programma di continuo arretramento e sprofondamento nel passato, con un paziente lavorio di scavo che lo conduce via via «verso strati / sempre più occulti», fra «subsidenze, depositi / di inesplorata materia remotissima».
L’illustrazione della piena compatibilità, anzi dell’inestricabile coimplicazione, di questa doppia attrazione verso il presente e verso il passato è il primo vero snodo argomentativo del libro. Il fatto è che l’immagine dello scavo, oltre a metaforizzare un movimento psicologico interno all’io, identifica anche un elemento ricorrente di quel paesaggio urbano che fa da sfondo alle sue riflessioni. La Milano entro cui si muove è cioè costellata di macchine escavatrici, come quella che affonda la sua «benna» in piazza Sant’Ambrogio, «oviraptor / o brachiosauro che morde / e smuove», riportando alla luce tracce e reperti «di sepolte storie». Ma in effetti l’intera superficie della città si rivela una scorza-pellicola che contiene in sé, custodendoli, infiniti strati di passato, sepolti e calcificati sì, ma proprio per questo alla portata delle trivellazioni mentali del soggetto. Così dal tracciato dell’attuale corso Buenos Aires può riemergere vivida la memoria di quegli industriosi uomini di fine Ottocento che, sulle macerie della «cosiddetta Polveriera», all’angolo «del demolito – da poco o da pochissimo – Lazzaretto storico», costruirono (ma con materiali «di sinistra, rovinosa provenienza. Avanzi, cioè, della demolizione») quei casermoni popolari dove, mezzo secolo dopo, proprio Cucchi nacque e trascorse la prima infanzia.
La rasserenante, euforizzante scoperta dell’io di Malaspina è insomma che «il vecchio / non vola ma s’infossa», che ciò che è stato in realtà è ancora ed eternamente qui, che il tempo «non esiste» o si rivela niente più che uno spigolo dello spazio. Questa capitale legge cosmica ed esperienziale diventa la premessa per un incantato viaggio di scavo, un’emozionata speleologia del qui e ora in cui topografia e biografia (storia urbana e memoria familiare) si intersecano e confondono di continuo. Disseppellire le tracce della propria vicenda personale non è infatti che un mezzo per risalire poi ancora più indietro, a «quel flusso ininterrotto di moltitudini, e di invisibili emergenze catalogate poi nell’enfasi della storia», in rapporto alle quali l’io stesso non può che riconoscersi infine come «l’esito di un’alchimia infinita e di infinite sequenze di informazioni secolari». In questa scoperta che «un filo c’è» si schiude la possibilità di attingere «un fondamento, un senso / di presenza e adesione / nel comune destino». Addirittura, una «Religio».
Difficile non riconoscere l’intensità di questa rimeditata prospettiva etica ed esistenziale. Epperò colpisce lo spericolato gioco di slittamenti per cui un libro apertosi all’insegna di un’accorata adesione al presente si rivela in realtà tutto teso a celebrare una laica religione del passato. E un effetto di paradosso che la voce, a un certo punto, enuncia apertamente («Perciò io adoro il presente / perché solo il presente contiene / tutto quello che è stato»); e che si fa anche più pungente, in chi legge, con il chiarirsi del sentimento di disagio che l’io talpa nutre verso l’altro presente, quello “vero”, in atto, in cui si dibattono i destini non ancora pietrificati. Qui entra in gioco un vecchio motivo immaginativo di Cucchi, ovvero l’opposizione fra l’urtante imporosità del mondo in cui viviamo, refrattario a ogni infiltrazione dell’umano, «asettico, traslucido / di vacuità, inodore e vanamente / laccato, leccato»; e un’età perduta in cui, invece, le cose recavano traccia di «una più pastosa, nostrana / sporcizia, e più odori», garanzia di «una più fisica e diretta / presenza d’uomo». Ecco qual è il «mondo più affabile / e poroso» verso cui l’io di Malaspina, all’inizio, dichiarava di «orientarsi». E se lui stesso confessa che le sue intente ricognizioni retrospettive «avvengono forse / per nostalgia diffusa» di quella realtà, basta poi far caso al ricorrere di verbi come «mi godo», «mi compiaccio», «mi posso crogiolare», per aver conferma degli esibiti risvolti regressivo-compensatori del programma di questo io personaggio, che formula il suo umoroso ethos del con-esserci, nutrito da un vivo senso di affratellamento nella comune esposizione a forze che ci sovrastano, proprio mentre si autoritrae nella mossa di chi «sprofonda solitario volentieri».
Rispetto a questa cornice, a ogni modo, le due sezioni rimanenti introducono ulteriori elementi di complicazione. Da un lato si offrono come applicazioni esemplari di quella “tecnica di disseppellimento” descritta dall’io nel resto del libro. In particolare la seconda, Il cortile delle giovani mamme, ospita una galleria di istantanee memoriali di luoghi situazioni personaggi della sua infanzia nella Milano dell’immediato dopoguerra. È una delle zone più vivacemente rappresentative del libro, con una diffusa carica narrativa che non solidifica però in un racconto unitario: come Cucchi spiega alla perfezione, in apertura della serie, a essere recuperati sono qui «residui minimali, frammenti / chissà perché incisi nella memoria», che il poeta monta in sequenza come «spezzoni, / trailer di un vecchio film perduto» di cui godersi la proiezione «in pace», «con un pigro sorriso e un’emozione».
Ben diversa la tonalità emotiva della quinta e ultima sezione, dove l’operazione di archeologia memoriale (e fantastica) stringe su un singolo, misterioso personaggio, evocato invero fin dal titolo con una formula d’identificazione sintomaticamente doppia, esitante (Console o capitano). La ricostruzione della sua «storia sepolta / e controversa» avviene infatti «con una certa ripugnanza», sullo sfondo di un intimo nodo di dispetto e fastidio, resi tanto più acuti dall’intensa dinamica di immedesimazione proiettiva che si attiva fra soggetto evocante e personaggio evocato: al punto che l’io voce si ritrova senz’altro a «scivolare in lui», a trasformarsi nella sua voce. Quasi per contrappeso a questo molesto moto di immischiamento, però, Cucchi torna qui a servirsi di un gioco di rifrazioni e dissolvenze molto spinto, che coinvolge in un vertiginoso caleidoscopio una cospicua schiera di altre figure (l’aviatore Guido Keller, Carlo Emilio Gadda, il protagonista del romanzo Sotto il vulcano di Malcolm Lowry). Naturale che la riconoscibilità di questo alter ego disforico e respingente – emblema di deliberata irresponsabilità, marziale spavalderia, rovinosa autodistruzione – resti infine per il lettore piuttosto opaca.
Eppure Cucchi alcuni indizi a riguardo li dissemina. Il primo e più prezioso è addirittura nel finale della terza sezione, quando l’io, arruolandosi di diritto fra gli ideali compagni di viaggio del verniano professor Lidenbrock, immagina di seguirlo nella sua abissale calata, fra «caverne», «oceani» e «alte muffe a ombrello», fino a essere «respinto fuori da un cratere a Stromboli / o forse proprio fino all’Etna».
Già, l’Etna. Per intendere il senso di questo riferimento a prima vista così incongruo, uno deve aver letto il già citato romanzo La maschera ritratto. E qui infatti che, dopo aver rinarrato per l’ennesima volta, e mai forse con tanta nitidezza, il suo percorso di investigazione del nucleo più doloroso della propria vicenda familiare (il suicidio dell’adorato padre Gino, già sottaciuto protagonista del libro d’esordio e poi ancora, con un graduale assottigliarsi di schermi e reticenze, di tante raccolte successive), nella seconda parte del testo Cucchi racconta il proprio tallonamento di un’altra enigmatica figura di assenza: il nonno materno, il padre precocemente defilatosi della madre (anche lei presenza assidua, tra fulminee apparizioni e primi piani prolungati, nell’opera cucchiana). Giovane studente siciliano di Ingegneria, poi militare di carriera scomparso durante la guerra, la quete intorno a questo avo detestabile si conclude proprio a Catania, davanti a un grande quadro che lo ritrae «in alta uniforme», «con una fascia azzurra che gli attraversava il petto, e il fodero della spada che gli pendeva accanto agli stivali». Qui a dar voce alla sconcertante rivelazione che il protagonista, da solo, non sembra capace di accogliere, è la moglie: «“Ma su”, mi ha fatto lei. “Guardalo bene […] Non ti riconosci? Non sei tu vestito da ufficiale, anche se la cosa fa un po’ ridere?”».
E una specie di faglia di Sant’Andrea che si spalanca nella tettonica identitaria del soggetto: la cui annosa, sanguinosa guerra d’unghie per ri-inchiavardarsi a quella placca slittata – e perciò tanto più bramata e idoleggiata – rappresentata dalla memoria del padre («Ma Gino, allora… Il sempre più amato, l’ossessione, l’inarrivabile modello?»), si trova ora revocata in dubbio dall’urto catastrofico con un’altra, concorrenziale placca, che preme per imporre all’io un inaccoglibile e nel contempo irrefutabile riassestamento.
Su questa paurosa vertigine si chiudeva il romanzo, e ora si chiude Malaspina’. che in questo senso assomiglia davvero a un lungo surplace condotto, fra orrore e segreta attrazione, sull’orlo di quel tenebroso baratro di dissoluzione – di sé, di un sé impropriamente costruito – che può alimentare d’altronde il vagheggiamento della permanenza in uno stato di fluttuante fluidità, di volontaria rinuncia o deprivazione identitaria. Del resto è indicativo che la prima sezione s’intitoli – pirandellianamente – Berretto a sonagli, e che in tutto il libro spiri, lo si è visto, un’aria di rastremante, liberatoria abdicazione all’assillo dell’io. Se nel romanzo del 2011 Cucchi aveva spinto a un nuovo vertice quel lungo movimento «a vite» (davvero senza confronti nella sua vena di ossessiva, parossistica fissazione) che è il suo itinerario poetico, in Malaspina non si spinge oltre. Ma adottando uno sguardo di sorniona retrospezione consuntiva, ci offre un’estrema, scheggiata mise en abyme dell’avventura poetica dell’io talpa.