Le nuove norme sull’accesso aperto approvate a ottobre dal Parlamento, diverse da quelle proposte con un decreto agostano dal governo, hanno preceduto la necessaria riflessione sulle politiche per l’open access. Hanno tuttavia il pregio di chiamare alla responsabilità tutti gli attori della produzione scientifica e possono stimolare l’inizio di una riflessione più rigorosa sull’argomento.
In Europa, l’Italia è il terzo paese ad aver approvato una legge sull’accesso aperto ai risultati delle ricerche scientifiche, dopo Spagna e Germania. E però il secondo per entrata in vigore, perché in Germania, benché la norma arrivasse dopo un lungo dibattito, hanno ritenuto di posticiparne la partenza, mentre in Italia governo e Parlamento hanno considerato la questione così «necessaria e urgente» da giustificare il ricorso a un decreto legge. E infine il primo, senza rivali, nella speciale classifica dei paesi che, su questo tema, hanno prima fatto una legge e poi si sono posti il problema di definire una politica. Il che – se non altro – apre alla speranza che si inizi una discussione reale, e rigorosa nel metodo, sulle politiche da adottare. Che significa definire gli obiettivi e individuare gli strumenti più efficaci per raggiungerli.
Andiamo con ordine. L’art. 4, comma 2, del decreto «Valore Cultura» (DL 91/2013) emanato dal governo ad agosto e convertito in legge a inizio ottobre (L 112/2013) prevede che «i soggetti pubblici preposti all’erogazione o alla gestione dei finanziamenti della ricerca scientifica» promuovano l’accesso aperto agli articoli di rivista che riportano i «risultati della ricerca finanziata per una quota pari o superiore al 50 per cento con fondi pubblici». Ciò potrà avvenire o tramite una pubblicazione immediata ad accesso aperto da parte degli editori {via d’oro), o attraverso la ripubblicazione open access in archivi istituzionali o disciplinari {via verde), entro 18 mesi dalla prima uscita per le pubblicazioni scientifiche, tecniche e mediche, entro 24 per quelle umanistiche e delle scienze sociali.
Per meglio analizzare il contesto, vale la pena di fare un passo indietro, partendo dalla Raccomandazione sull’accesso all’informazione scientifica e sulla sua conservazione della Commissione europea, datata 17 luglio 2012. Avendo la ventura di leggere questo tipo di documenti da anni, mi sembra di notare nella «Raccomandazione» la sanzione definitiva di un deciso cambio di rotta nell’individuazione degli obiettivi, maturata nel corso degli ultimi anni. Semplificando: il movimento open access internazionale nasce da un’analisi dell’aumento dei prezzi delle riviste scientifiche, attribuito alla natura oligopolistica dello specifico segmento del mercato internazionale. Si ritiene che la tradizionale presenza sul mercato di operatori non profit legati alle stesse università non sia più sufficiente e che sia quindi necessario un cambiamento radicale del modello stesso dell’editoria scientifica. Il nuovo modello è individuato nell’accesso aperto alle pubblicazioni, al quale si attribuisce la capacità di rompere gli schemi competitivi esistenti e incidere anche sul livello dei prezzi delle riviste tradizionali.
A leggere la «Raccomandazione» questi elementi sembrano accantonati. Nei consideranda iniziali sono evidenziati altri obiettivi, non più legati agli effetti indotti sul mercato editoriale, ma direttamente connessi al beneficio dell’accesso aperto, che presuppone una maggiore diffusione dei risultati delle ricerche, particolarmente importante quando queste sono finanziate dal settore pubblico. Si sottolinea allora come l’accesso aperto possa migliorare le «condizioni in cui si effettua la ricerca» (considerandum 6), garantendo una maggiore diffusione all’eterno delle comunità scientifiche, ma soprattutto si insiste sugli effetti verso l’esterno: l’accesso aperto dà «modo agli attori sociali di interagire nel ciclo di ricerca» (7), e ancora: «I benefici […] saranno avvertiti anche dalle imprese. Le piccole e medie imprese, in particolare, miglioreranno la propria capacità di innovazione» (8).
Ritengo che questo approccio sia metodologicamente più robusto, in quanto i tentativi di dimostrare che l’open access ha effetti pro-competitivi e quindi può indurre una riduzione dei prezzi non mi hanno mai convinto. Non mi ha mai convinto, in particolare, quella descrizione circolare dell’editoria scientifica che era (e sempre meno è) alla base delle posizioni più estreme dei sostenitori dell’accesso aperto. L’idea che nell’editoria scientifica autori, revisori e lettori coincidano – da cui la rappresentazione degli editori come intermediari parassitari («Perché le università devono pagare ciò che le università hanno prodotto?») – non è solo tecnicamente sbagliata, perché non considera i costi dell’attività editoriale, ma è soprattutto claustrofobica. Descrive la più classica delle torri d’avorio (materiale per altro fuorilegge, sostituito da succedanei assai più vili: le condizioni economiche in cui è sospinta la ricerca in Italia fanno piuttosto immaginare torri di osso di bue) in cui gli accademici parlano solo tra loro. Certo, vi sono ambiti di ricerca di base, nell’astrofisica come nella filologia romanza, dove un certo livello di circolarità è inevitabile. Ma assumere che questa sia la regola, e che la diffusione del sapere accademico verso comunità più ampie sia affidata solo alla «divulgazione», è sbagliato, e soprattutto non auspicabile.
La visione dell’accesso aperto proposta dalla Commissione europea presuppone invece l’apertura, l’idea che le ricerche interessino altri «attori sociali». Assumere l’obiettivo della massima diffusione dei risultati della ricerca pubblica verso la società, invece che la modifica degli equilibri competitivi sul mercato, non è indifferente ai fini della definizione delle politiche da adottare. La questione non è, infatti, se promuovere l’accesso aperto o no, quanto piuttosto quali forme dell’accesso aperto siano più efficaci per andare in quella direzione.
Sgombrato il campo dall’illusione che l’open access produca un mondo di maggiori accessi e minori costi allo stesso tempo, la Commissione raccomanda agli Stati membri di prevedere, nelle politiche di promozione dell’accesso aperto, un’adeguata «pianificazione finanziaria associata». Lo fa per ben quattro volte in otto articoli. In primis al momento di fissare i termini generali delle politiche (art. 1) e, più avanti, specificando dove sono i costi: servono risorse giacché «gli organismi di finanziamento della ricerca» pubblica devono «mette [re] a disposizione i finanziamenti necessari perla diffusione» delle pubblicazioni (art. 2). La costruzione di archivi istituzionali efficienti richiede altre risorse (art. 3) e lo stesso deve dirsi per le politiche di «conservazione dell’informazione scientifica» (art. 4).
La norma italiana, che pure nelle intenzioni di chi l’ha inizialmente proposta si ispirava a questa «Raccomandazione», risolve il problema con sicumera: «Dall’attuazione del presente articolo non devono derivare oneri ulteriori per le finanze dello Stato» (comma 4 dell’art. 4 del citato decreto). Ora, se una politica costa e non si prevedono «oneri ulteriori per le finanze dello Stato», la scelta ha effetti riallocativi. Le risorse necessarie vanno trovate tra quelle esistenti, in questo caso tra quelle degli «organismi di finanziamento della ricerca» e del fondo di finanziamento ordinario delle università rispettivamente per garantire la diffusione open access delle pubblicazioni e per assicurare l’esistenza di archivi istituzionali atti anche alla conservazione di lungo periodo. È persino superfluo ricordarlo: si tratta di due fondi falcidiati negli ultimi anni da tagli continui, già in sofferenza, ai quali è davvero difficile chiedere ulteriori sacrifici.
Si può provare a interpretare l’iter parlamentare della norma secondo questa chiave di lettura. Gli effetti di riallocazione sono più pesanti quanto più alti sono i costi di realizzazione degli obiettivi. La prima versione del decreto prevedeva termini molto più brevi per la ripubblicazione ad accesso aperto (6 mesi per tutte le discipline) e soprattutto imponeva un obbligo generalizzato – che ricadeva sui singoli ricercatori – per tutte le pubblicazioni, compresi i libri. Un emendamento proposto dalla senatrice Stefania Giannini e votato all’unanimità in Commissione istruzione e cultura del Senato ha ricondotto i termini della norma a quanto descritto in apertura. Il cambiamento più evidente, e più discusso, riguarda i tempi di «embargo» prima della ripubblicazione open access, molto allungati rispetto all’ipotesi iniziale. Tuttavia, questa scelta mi sembra non sia che la conseguenza dell’aspetto più qualificante: la restituzione del potere decisionale agli enti di ricerca, che meglio potranno calibrare le politiche di accesso aperto in ragione delle risorse disponibili, degli ambiti disciplinari e della tipologia delle pubblicazioni.
Una politica sull’accesso aperto non può basarsi su una soluzione univoca, valida per tutte le circostanze. Molto più efficace è un ragionamento caso per caso, considerando le esigenze delle diverse discipline, le politiche delle singole riviste in concorrenza tra loro, e così via. E la scelta operata anche dalla legge spagnola, che prevede un obbligo di ripubblicazione dopo dodici mesi dalla prima uscita, ma fa salvi i patti contrari tra i ricercatori e gli editori, traducendosi in una previsione collegata di fatto alle scelte editoriali delle singole riviste. Sotto questo profilo, la normativa italiana non differisce molto, salvo imporre un limite massimo di 18/24 mesi ai periodi di embargo, limite assente in quella spagnola.
La norma appena approvata è un punto di partenza, non di approdo. Da qui gli enti che finanziano la ricerca («nella loro autonomia», ricorda la legge, autonomia garantita anche dalla Costituzione) dovranno definire le politiche, possibilmente nel «dialogo tra le varie parti interessate», come raccomanda anche in questo caso la Commissione (art. 7). Tale processo richiede un’assunzione di responsabilità da parte di tutti gli attori coinvolti: gli enti finanziatori, i singoli ricercatori, gli editori. L’obiettivo non può che essere quello di produrre pubblicazioni di elevata qualità, nel rispetto dei vincoli economici sia di parte editoriale sia dei bilanci delle università.
Vale la pena allora di spostare, in conclusione, l’attenzione dagli aspetti economici a quelli più editoriali: quali sono le politiche che possono garantire una crescita della qualità, oltre che della diffusione, delle pubblicazioni scientifiche italiane?
Una singolare coincidenza ha fatto sì che negli stessi giorni dell’emanazione del decreto legge sia rimbalzata in Italia la polemica innescata da un articolo su «Science» del biologo molecolare John Bohannon, che ha riportato i dati di un test da lui svolto su oltre 300 riviste open access gold, che pubblicano direttamente ad accesso aperto a fronte del pagamento di una fee. Riviste che formalmente adottano rigorose procedure di peer review ma che per oltre il 50% dei casi hanno accettato – previo congruo pagamento – un articolo volutamente pieno di errori marchiani. Significa che l’editoria ad accesso aperto è indice di abbandono dei criteri di qualità? In verità significa soltanto che sono fallaci tutte le generalizzazioni. Si potrebbe ribattere che tra le pochissime nuove iniziative editoriali che hanno conquistato i primi posti nelle classifiche delle migliori riviste scientifiche internazionali ve ne sono alcune edite da Plos ad accesso aperto («Plos Biology» e «Plos Genetics» si classificano sesta e settima nella categoria Agricultural and Biological Sciences di Scimago, rilevazione effettuata nel settembre 2013). Insomma: vi sono ottime riviste open access, come ve ne sono di meno buone e di pessime. Lo stesso si può dire delle riviste tradizionali. L’aneddotica del tipo di quella proposta da Bohannon, come quella di segno opposto che stigmatizza l’intero modello editoriale tradizionale a partire da singoli episodi, sembra solo volta a distinguere artificiosamente i buoni dai cattivi, creando steccati e tagliando le gambe a ogni seria discussione sull’argomento. Per fare passi avanti, occorrerà ben altra profondità di analisi.