Quando i primi rudimentali video giochi ancora non riuscivano a soddisfare le richieste di interattività (e di buone storie) degli utenti, i libri-gioco – ibridi in cui l’io leggente diventa l’io narrato – accentuavano il protagonismo del lettore adolescente (maschio, quasi sempre), garantendogli il potere di scegliere fra più alternative e di influenzare così il prosieguo del racconto.
La storia dei rapporti tra narrativa e interazione multimediale annovera, nella teca polverosa dei modelli obsoleti, la forma ibrida del libro-gioco, che assegna al lettore il ruolo di protagonista o, in alternativa, la responsabilità di scegliere le mosse dei personaggi, coniugando così attività ludica e lettura. Si tratta di un genere che ha avuto successo per un periodo di tempo abbastanza limitato: dalla metà degli anni ottanta all’inizio del decennio successivo. Non è dunque facile, oggi, scovare questi libri sugli scaffali di librerie e biblioteche: meglio cercare sul web, dove il bazar di eBay supplisce all’indifferenza dei canali di vendita tradizionali, e i fan brizzolati della fiction a bivi si riuniscono in comunità virtuali come Librogame’s Land (www.librogame.net). La breve ma straordinaria fortuna del librogioco deve poco ai funamboli della sperimentazione letteraria, alle biforcazioni narrative di Borges (Il giardino dei sentieri che si biforcano, 1941) o Queneau (Un racconto a modo vostro, 1973); deve molto, semmai, alle attese suscitate all’epoca dai primi rudimentali videogame, che lasciavano sì intuire mirabolanti orizzonti ludici, ma in realtà promettevano più di quanto potessero mantenere. «Negli anni del boom – spiega Giulio Lughi in un’intervista rilasciata ad Alberto Orsini di Librogame’s Land – i librigioco appagavano un desiderio di interattività insoddisfatto dai videogiochi, che erano basati o sulla reattività pura, come gli sparatutto, oppure erano interattivi ma testuali e dai contenuti molto banali.» Docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Torino, nonché esperto di nuovi media, dal 1985 al 2007 (anno dell’ultimo tentativo di rilancio) Lughi ha diretto la collana «Librogame» della casa editrice EL di Trieste, maggiore artefice della diffusione del genere gamebook in Italia.
Il successo di Lughi e dei torchi triestini esemplifica bene il principio per cui l’istituzione di una collana ufficializza la nascita di un genere letterario: la dicitura ideata dalla EL, che mantiene il sostantivo inglese con un carattere da videoscrittura, assicurava la riconoscibilità del prodotto e ne sottolineava il legame intrinseco con il corrispettivo a schermo. Mossa azzeccata: il marchio registrato si impose fin da subito come nome comune dell’oggetto ibrido, partorendo epigoni come la collana «Bibliogame» della Giunti Marzocco. Al proliferare di collane non seguì tuttavia la nascita di un filone game autoctono: «Qualche proposta italiana ci fu – ammette Lughi – ma non era all’altezza». Mancava, ai tempi, una solida tradizione nella letteratura di genere; e già ampia era la disponibilità di testi stranieri, da acquistare magari in blocco e modificare a piacimento in redazione.
Anche le copertine svolsero un ruolo importante nella definizione della tipologia testuale: i librigame della EL esibivano una veste grafica elaborata, con ottime illustrazioni e un sistema di fascette e simboli che segnalava la serie d’appartenenza, e cioè lo statuto di genere del singolo testo. Pianeta su sfondo grigio? Avventure stellari. Lente d’ingrandimento su sfondo giallo? Detectives club. E così via, lungo una variopinta galleria di gnomi, clessidre, torri, tigri, lupi, draghi e samurai, da cui traspaiono l’attenzione riservata al fantasy, che da noi «all’epoca non esisteva eccetto Tolkien» (Lughi), e la cultura pop del periodo. L’obiettivo, centrato in pieno, era quello di aumentare la visibilità dell’offerta presso un’utenza sensibile al collezionismo, ma certo più a suo agio in edicola, luogo deputato all’acquisto dei fumetti, che in libreria: «I librigame – rivendica Lughi – ebbero il merito di far entrare per la prima volta i ragazzini in libreria ad acquistare da soli». Per comprendere la novità della cura grafica, è utile confrontare la collana capitanata da Lughi con la coeva «Scegli la tua avventura» (traduzione Mondadori di «Choose Your Own Adventure», serie edita tra il 1979 e il 1998 dalla Bantam Books), i cui smilzi libretti conservano la scialba copertina a cornice bianca dell’edizione originale e, in luogo di una vera indicazione tipologica, le istruzioni per l’uso in bella vista sopra il titolo: «L’eroe di questa storia sei tu! Scegli fra 20 [o più] possibili finali». Nei libri targati EL, il pronome di seconda persona passa invece dalla copertina (che reca già il nome della collana) alla quarta, dove la frase di lancio «In questo libro il protagonista sei tu», ripetuta più volte, convive con altre allocuzioni dirette, ugualmente martellanti: «Tocca a te risolvere il caso», «La risposta devi trovarla tu», «Chi? Chi? Chi, se non tu?», «Ecco davanti a te la Terra di Mezzo»…
La messa a fuoco del destinatario elettivo, operazione preliminare di qualsiasi scrittura letteraria, assume particolare rilievo in un genere in cui il personaggio narrato viene a coincidere con l’io leggente. Il narratore definisce la silhouette del tu (sei un mago/cavaliere/guerriero della strada), descrive a grandi linee lo scenario romanzesco e poi si fa semplice cronista dell’azione: vai lì, vai su, vai giù. Colui che narra vestirà nuovamente i panni dell’affabulatore onnisciente al momento della conclusione, per annunciare che ce l’abbiamo fatta o, più probabilmente, che moriremo di qualche morte orribile (game over, appunto).
L’eclissi dell’io narrante non si limita a una mimesi ideologicamente neutra, senza commento: alla descrizione verbale subentrano o si affiancano disegni, ritratti e mappe. E la configurazione stessa del libro a subire modifiche radicali: l’unità minima del racconto si riduce drasticamente, passando dalla pagina al paragrafo numerato, mentre la possibilità di scegliere tra più alternative di lettura moltiplica i finali e gli snodi dell’intreccio («Se vuoi… vai al 101; se invece… vai al 16»). Risultato: ambiguità amletiche (un librogame si legge o si gioca? «Lo leggi come un libro – recitava uno slogan EL –, lo giochi come un gioco, lo vivi come un’avventura») e rivoluzioni bibliografiche: «Questo libro è in realtà una macchina del tempo» (David Bischoff, L’età dei dinosauri), «Le avventure […] non seguono l’ordine di tutti i libri terrestri» (Christopher Black, Pianeti in pericolo)’, «Quello che stai leggendo non è mica un libro… ah, ah! […] è un incantesimo» (J.H. Brennan, Caccia al drago). L’oscillazione libro/gioco riflette tanto l’esigenza di soddisfare un pubblico poco avvezzo alla lettura estesa del libro, quanto la contaminazione con i giochi di ruolo: oltre ai soliti crocicchi narrativi, la progressione d’intreccio prevede di norma combattimenti da svolgere in solitudine con armi, incantesimi e lanci di dado (da annotare su appositi registri), o, nella serie Faccia a faccia (volumi doppi in cofanetto), in duello con un amico alle prese con il tomo speculare.
Non mancano, va detto, tipologie alternative, meno frequenti. In assenza della cronaca del tu, il librogame può risolversi nell’aggiunta di bi o tri o più forcazioni a un racconto in terza persona (come le serie Fire*Wolf e Intrepida Game, o le storie a bivi pubblicate su «Topolino»), oppure far ricorso all’omodiegesi (come i gialli di Martin Waddell). Il lettore è invitato cioè a calarsi nell’io che ricorda eventi passati e a prendere decisioni al suo posto, con un occhio di riguardo al comportamento degli altri personaggi: se i coetanei, per esempio, ti prendono in giro per l’abbigliamento da investigatore junior (succede in Mister mezzanotte), vorrà dire che ce la metterai tutta per risolvere il caso e prenderti la rivincita!
Quale che sia la chiave di ingresso nella fiction, i librigame sono sempre storie di formazione per un pubblico di adolescenti. Lupo solitario, la prima e di gran lunga più famosa serie della EL, ha come protagonista un «giovane cavaliere, sul punto di terminare la sua iniziazione»; Oberon, il mago della serie omonima, ha sedici anni: suppergiù come il tu che è allievo prediletto e ahinoi impaziente del Gran Mago di Yor (Steve Jackson, La rocca del male). Più piccolo, ma non di molto, si presume sia il ragazzino che ha il fegato di infilarsi nella Lime machine (serie dedicata alle scorribande temporali): il giovane eroe dovrà mettersi in viaggio da solo, beninteso «senza insospettire o spaventare amici e familiari». Forse però l’identikit migliore lo delinea la versione libro-game della saga della Fondazione di Isaac Asimov (Mondadori).
«Tu sei ancora un ragazzo […], i tuoi problemi quotidiani sono la scuola, gli amici, le attività sportive, e una grande passione per la scienza dei computer» (La minaccia del Mutante)} «Non vedi l’ora di terminare gli studi, superare l’esame finale e intraprendere la tua prima missione nello spazio» (L’ascesa dei Mercanti).
A premesse simili, conclusioni identiche: l’esito del Bildungsgame non è l’approdo alla maturità, bensì l’inizio di una nuova esaltante avventura. Di libro in libro il giocatore si fa più esperto, ma la vicenda non deve mai varcare la soglia dell’età adulta, pena l’annullamento della dimensione ludica. Morale della favola, è bello giocare ai grandi, più che esserlo davvero: per chi, come Lone Wolf, è «depositario dell’antica sapienza Ramas», «cinque anni di vita corrispondono a un anno soltanto» (Joe Dever, La crociata della morte).
Bando perciò alle figure d’autorità, a tutti coloro che si frappongono alla libera esplorazione del mondo degli adulti; via i noiosi impicci della vita associata («Le ghinee d’oro non sono più tanto usate, specialmente nelle avventure», J.H. Brennan, Il conte Dracula} «I dadi magici trasformano l’entusiasmo in denaro», Caccia al drago)} largo invece alla reversibilità dei moti pulsionali, che rende possibile interpretare, cambiando solamente il paragrafo iniziale, un giorno Van Helsing (qui ringiovanito nella figura di «J. Harker, il noto avventuriero») e un altro il vampiro (Il conte Dracula), una volta la creatura e un’altra il suo creatore (J.H. Brennan, Lrankenstein). Da Oliver Twist all’odierno Harry Potter, la condizione privilegiata dell’eroe iniziatico ma non troppo è l’orfanità, sia reale che metaforica: e i librigame non fanno eccezione. Mark Phoenix, il protagonista di un ciclo di avventure à la Mad Max, sopravvive alla guerra atomica insieme agli zii Jonas e Betty Ann (Joe Dever, Viaggio disperato)} Pip, l’alter ego dickensiano da assumere in Caccia al drago, è «figlio adottivo di un fattore di nome John e di sua moglie Miriam»; il padre di Alteo è «vecchio e debole», mentre il fratello maggiore Teseo è rimasto ucciso nel labirinto di Minosse (Butterfield, Honigmann e Parker, In viaggio verso Creta)} la ragazza protagonista di Trance vive con suo fratello Jimmy; Clovis e Lothar si contendono lo scettro dell’anziano padre, che sta per abdicare (Andrew Chapman e Martin Alien, Sfida per il trono)} quanto poi al prete Gianni della serie Misteri d’Oriente… be’, chi più libero di un prete da vincoli familiari passati e futuri?
Il vincolo per eccellenza, vale a dire il legame con la donna, risulta di fatto estraneo all’orizzonte prematuro e macho tipico del librogame, che sublima le prime pulsioni erotiche nell’avventura randagia da lupi solitari: tutt’al più, se c’è una principessa da salvare (come accade nel Giardino della follia di David Tant), la missione si concluderà con la deposizione della fanciulla tra le braccia del promesso sposo, non del protagonista. La presenza di una ragazza accanto all’eroe è insomma un fenomeno piuttosto raro: nella serie Guerrieri della strada, la fidanzata di Mark è promessa di ripopolamento della Terra dopo l’olocausto nucleare, qualcosa cioè che si situa oltre la storia; nel Ritorno, titolo conclusivo della serie Grecia antica, il matrimonio di Alteo con Arianna viene interrotto dall’arrivo delle Furie («Dalla testa di Arianna sbucano orrendi serpenti e tu la scaraventi lontano, con un grido d’orrore»); ne 11 barbaro ribelle, librogame pilota di una collana pensata per un pubblico più adulto, la tresca di Fire*Wolf con Alena, figlia del capo villaggio e «piena di verginale passione», è causa dell’esclusione del giovane barbaro dal consesso sociale e, significativamente, è parte non della storia ma dell’antefatto.
L’unica figura femminile lecita, nell’immaginario regressivo di chi si trova in mezzo al guado, è, in filigrana, sempre e solo la mamma: al momento dell’arrivo a Creta (Alla corte di Minosse), il primo pensiero di Alteo corre a lei, e così anche l’ultimo: «Sorridi ad una fanciulla – si legge nell’ultimo paragrafo – che tanto ti ricorda tua madre ed ella ti restituisce il sorriso». Donne e storie a bivi, va da sé, hanno sempre avuto rapporti difficili. E come dar loro torto: la narrativa del tu assecondava le fantasie degli adolescenti maschi proprio eludendo il confronto con l’altro sesso, un nemico potenziale e ben più ostico dei mostri di Kaltenland (Joe Dever, Negli abissi di Kaltenland). «Lei», d’altra parte, mal si adatta alle figure canoniche dell’eroismo di «lui»: il mago, il guerriero, l’investigatore, il time traveller. Non stupisce, allora, che i librigame per ragazzine abbiano avuto esiti deludenti. La serie Intrepida Game della Giunti Marzocco, espressamente «dedicata a voi ragazze», è roba per fanciulle: niente racconto in seconda persona, scarsa immedesimazione, un unico bivio alla fine di ogni capitolo. Non sia mai che, leggendo, ci si dimentichi della tortina nel Dolceforno.
Più intrigante, ma altrettanto fallimentare, Realtà e fantasia della EL (serie chiusa dopo sole tre uscite), che mischia all’adrenalina dell’avventura le tensioni oblative e masochiste del genere rosa. La virata sentimentale sposta in avanti l’età presunta dei personaggi, a un passo ormai dalla fatidica sillaba: spetta a chi legge concludere Trance con «Certo che ti sposerò, e vivremo felici per sempre!» o «Ma io non smetterò di chiedertelo. Fino a quando non mi dirai di sì».
Peccato solo che il «cocktail di passioni e castelli in aria» imponga soluzioni al ribasso, buone per gli Harmony ma non adatte al librogame, che sulla possibilità di vivere da prim’attore eventi eccezionali gioca le sue carte migliori: sei «una donna giovane, carina, una donna come tante» che fa la giornalista radiofonica (Elizabeth Steel, Intrigo in FM); «Finalmente sei un’infermiera diplomata!» (Pat Hewitt, Trance); «Vivi con una madre dominatrice e una sorella più vecchia» e, se va bene, diventerai «operatrice di zona di tutta la Grecia» (Kim Jordan, Risola dei misteri).
Una qualunque, una crocerossina, l’impiegata di un’agenzia viaggi: tutto qui?!? «Tu sei Fire*Wolf – recita invece il prologo della collana per aspiranti Conan –, forte, bello e barbaro, un uomo di forti passioni e temperamento, arrogante nelle tue certezze». Nell’universo parallelo dei librigioco, la femminilità non paga; anzi, è un cruccio in più per il redattore scrupoloso, che in cuor suo maledice i sofismi di genere della lingua italiana: «Il pronome “lui” – precisa la Nota per il lettore della serie Fantastica Game (Giunti) – è da intendersi come termine generico che include sia lettori maschi che femmine».
Nel complesso, il librogame si è rivelato un genere inadatto a ospitare una descrizione realistica dei rapporti tra i sessi, e così della vita adulta. La permuta del protagonista con il protagonismo del lettore vanifica inoltre le funzioni conoscitive più profonde della letteratura: all’osservazione analitica dell’esistenza altrui subentra lo sguardo dell’io leggente che osserva agire se stesso, o che valuta le ripercussioni della propria attività di burattinaio prò tempore, per tante volte cioè quante sono le piste percorribili. La rilettura diventa, di conseguenza, un fenomeno codificato, e parte integrante delle caratteristiche di longevità e giocabilità del libro.
Ogni alternativa è degna di attenzione: inclusi, sia chiaro, i vicoli ciechi, piccoli cataloghi di orrore dilettevole. Esaurite le combinazioni, si passa al volume successivo.
L’evoluzione dei videogiochi – a partire, secondo Lughi, dall’uscita di Prince of Persia (1989) – ha bloccato tale passaggio, pensionando il meccanismo di istruzioni, dadi e combattimenti che a stento surrogava l’interattività, e che garantiva ai lettori un vantaggio formidabile, forse persino eccessivo: la facoltà, ignota al videogame, di saltare le pagine e sbirciare per vedere quale fosse la direzione giusta.
Oggi, per passare da fossile a fenice, ed evitare flop ingenerosi come le ristampe expanded della EL, il librogioco tenta la strada del self-publishing, della fan fiction da condividere sul web (i «LibriNostri» di Librogame’s Land), o ancora della didattica per videodipendenti (Andrea Angiolino, Costruire i libri-gioco). Nel frattempo, spuntano app per rileggere le vecchie serie su iPad/ iPhone, con effetti sonori e registri automatici al posto di schede, dadi e matite. Entro il novembre del 2013, infine, era prevista l’uscita di un videogioco per smartphone e tablet ispirato a Lupo solitario, che al formato libro e alla scrittura in seconda persona associa moderni combattimenti in 3D (Lone Wolf. Blood on the Snow). Esperimenti interessanti, d’accordo; e capaci, perché no, di appassionare gli antichi cultori delle arti Ramas, ma forse non sufficienti a riscuotere l’interesse dei più giovani smanettoni da console: che i librigame fossero più libri che giochi, il recupero della cornice libresca lo testimonia con disarmante evidenza. L’impressione, insomma, è che il cerchio si stia chiudendo: come per il cadetto spaziale di Nebula (Pianeti in pericolo), vittima di un campo gravitazionale invincibile.
«Siamo troppo vicini al buco nero. Ci sta aspirando!», grida Tor 2.
«Avresti potuto dirmelo prima!», ma subito venite risucchiati nella profondità sconosciuta, dalla quale non si fa più ritorno.
SKIANT!