Le industrie che vendono contenuti, come l’editoria, la discografia e la cinematografia, stanno attraversando una profondissima trasformazione iniziata vent’anni fa, con l’introduzione delle tecnologie digitali. Si possono individuare quattro fasi distinte che ognuna di queste industrie sembra dover affrontare.
Venti anni fa (1993), nessuno avrebbe potuto prevedere il profondo impatto delle tecnologie digitali sulle industrie dei media tradizionali. Si pensava che le telecomunicazioni potessero essere stravolte da Internet (e-mail, sms, telefonate, videochiamate ecc.), ma le industrie che vendevano contenuti, come l’editoria, l’industria discografica e quella cinematografica, non dovessero subire alcun cambiamento. Al massimo, per loro sarebbe stato possibile «trasportare» più facilmente i contenuti grazie a Internet.
Dieci anni fa (2003), invece, la situazione era già abbastanza chiara. Dal 2000, l’industria discografica ha perso circa il 10-15% all’anno di fatturato per la pirateria, passando da un fatturato mondiale di 40 miliardi di dollari alò miliardi di dollari nel 2012 (fonte Ifpi). Di questi, circa 6 miliardi (il 35%) provengono da vendite digitali. Ciò significa che le vendite fisiche sono passate da 40 a 10 miliardi di dollari in dodici anni: un quarto.
Oggi, dopo anni di contrazioni, il fatturato dell’industria discografica è addirittura in leggera risalita. Sembrerebbe che, a livello mondiale, e in realtà solo grazie ad alcuni paesi, il continuo calo delle vendite fisiche sia ora finalmente compensato da un aumento delle vendite legate all’offerta digitale legale.
L’industria cinematografica e quella editoriale guardano giustamente con molta apprensione a quello che è successo all’industria musicale, che ha fatto da apripista al profondo cambiamento strutturale che tutte e tre le realtà stanno attraversando. La recessione attuale aggrava ulteriormente la situazione, ma c’è comunque una rivoluzione strutturale che queste industrie stanno affrontando. Chi studia i mercati dei media nota infatti molte similitudini tra quanto è accaduto al settore musicale e ciò che accade ora a quello editoriale e cinematografico. Questi ultimi sono solo in ritardo di circa sei-sette anni rispetto all’industria musicale, ma possono far tesoro di ciò che è accaduto per evitare di commettere gli stessi errori.
Le quattro fasi della trasformazione
I cambiamenti che stanno avvenendo in tutte queste industrie consentono di ipotizzare alcuni stadi comuni nel processo di trasformazione verso il digitale, nella fattispecie quattro fasi.
Nella prima, la fase della pirateria, che per l’industria musicale è durata circa cinque anni, il prodotto digitale è la pura «fotocopia» del prodotto fisico. Circola in Rete solo con la pirateria e l’industria vede il prodotto digitale unicamente come un danno: è un prodotto illegale che minaccia il fatturato del settore e dunque va contrastato. L’offerta legale è praticamente inesistente e spesso il pricing non è adeguato né per cercare di diminuire la pirateria né in confronto con la copia fisica. La politica delle imprese del settore è quella di chiedere allo Stato di intervenire contro la pirateria. Le imprese si concentrano solo sul prodotto fisico e sono molto riluttanti a sviluppare offerte digitali legali dei loro prodotti.
La fase due è quella della convivenza necessaria. Ormai è chiaro che c’è futuro per un segmento digitale all’interno del mercato e bisogna provare a sondarlo. Emergono nuovi intermediari prima sconosciuti, che diventano attori rilevanti. Si pensi a Apple, che è stata per la musica ciò che Amazon è per l’editoria. Questi grandi attori sono gli unici a fare profitti con il digitale. Emergono anche nuovi modelli di business, con prodotti nuovi – per esempio i libri interattivi – ma di scarso successo commerciale. Chiudono i distributori tradizionali come i negozi di dischi, le librerie e i cinema. Si intuisce che questa strada va percorsa ma lo si fa malvolentieri. Alcune aziende cercano la strada della protezione con Drm, affidandosi a soggetti esterni (Adobe, Amazon, Apple) o provando con Drm proprietari. Il Digital Right Management, amministrazione digitale dei diritti, è una tecnologia di protezione che può essere applicata a file digitali di qualsiasi tipo al fine di porre alcune limitazioni all’uso, impedendo la copia o consentendola solo sugli apparecchi di uno stesso soggetto. Il pubblico però non la gradisce e ormai sembra troppo tardi per cercare di avviare un Drm standard comune tra le imprese dello stesso settore. Con il senno del poi, ovvero con un Drm standard comune, la storia di queste industrie avrebbe potuto essere completamente diversa. Dovendo convivere con il digitale, si cerca di provarlo semplicemente trasponendo alcuni titoli, ma non quelli di successo. La paura della pirateria è tale che non si rischiano i titoli importanti e nemmeno i testi universitari per il timore di una cannibalizzazione del segmento cartaceo, che comunque continua a essere profittevole. L’editoria e il cinema si trovano oggi in questa fase, che potrebbe durare anche quattro-cinque anni, con bilanci in rosso principalmente per le perdite dal lato «fisico» del mercato. Si provano ristrutturazioni dei costi dal punto di vista dell’offerta per contenere le perdite, ma non ci sono scelte drastiche da parte degli operatori tradizionali.
La terza fase è quella del consolidamento. Il digitale ha raggiunto almeno il 25% del fatturato complessivo del settore e non lo si può più ignorare. Gli editori (in senso ampio, non solo quelli librari) e i produttori si specializzano mantenendo solo alcuni dei prodotti del loro precedente portafoglio. Alcuni prodotti sono distribuiti soltanto sui mercati digitali e altri sono abbandonati in quanto il mercato fisico non è più remunerativo. Al posto delle librerie o dei negozi emergono alcuni intermediari/distributori di successo. Nella musica sono Spotify, Deezer, Pandora, Google Play, ma anche insospettabili avversari come YouTube diventano alleati e generatori di profitti digitali grazie al pagamento di diritti. Sono chiaramente cambiati i modelli di fruizione dei contenuti da parte dei consumatori e il lato della distribuzione digitale ha dunque attori nuovi che fungono da intermediari per queste nuove forme di consumo. Per la somiglianza con il settore musicale, oltre al solito acquisto del file possiamo pensare a forme di affitto di opere editoriali (abbonamenti mensili a biblioteche digitali), a forme di fruizione gratuita (o eventualmente finanziata da pubblicità) di parti rilevanti delle opere stesse, alla creazione di storie brevi a puntate, ma anche a piattaforme dove i lettori si incontrano per scambiarsi opinioni. Molti di questi modelli di business legali che emergono dal lato dell’offerta si affacciano già oggi al mercato dell’editoria libraria, ma è anche presumibile che parecchi falliranno. Tuttavia, il potere contrattuale di queste nuove piattaforme, soprattutto quelle di maggior successo, è in generale molto forte. Il mestiere dell’editore sembra rivoluzionato. L’editore pare allontanarsi dal fruitore, che invece è maggiormente legato alla piattaforma intermediaria. Gli editori cercano nuove modalità di scouting degli autori attraverso il web (e magari anche la televisione), fenomeno prima impensabile. L’organizzazione interna delle case editrici è radicalmente cambiata e molte funzioni sono esternalizzate. La struttura dei costi è dunque del tutto diversa rispetto al passato. Gli editori capiscono che la gestione dei diritti è importantissima e cercano di ampliare il più possibile la diffusione delle opere di cui hanno i diritti e non di essere gli unici distributori dell’opera stessa. L’industria si vanta di essere pienamente protagonista di questa fase, proponendo nuovi modelli di business ma dimenticando di averla osteggiata fino a pochi anni prima. Solo la discografia si trova oggi pienamente in questa fase.
La quarta fase è quella della maturità e possiamo per il momento solo ipotizzarla, perché nessuno dei settori studiati vi è ancora entrato. In questa fase possiamo supporre che i contenuti diventino il fattore chiave del successo mentre le tecnologie non lo sono più. Nel mercato sono consolidati alcuni modelli di business e non ve ne è uno solo vincente (cosa a cui si pensava in precedenza). Le modalità di fruizione dei contenuti sono diverse e sono gli autori e i contenuti che ritornano centrali nel determinare il successo o meno di un editore. Se nella fase precedente erano le modalità distributive il fattore chiave del successo, ora è lo scouting, che però non è ovviamente più associato al tradizionale invio da parte dell’autore della proposta all’editore. È probabile che tutte le industrie arrivino a questa fase tra una decina di anni.
Le strategie di breve e lungo periodo delle case editrici
Potrebbe sembrare facile, a questo punto, delineare quali siano le strategie da seguire per gli editori, visto che il percorso di sviluppo di questi mercati è abbastanza chiaro e per certi versi prevedibile, almeno in una sua traiettoria generale. In realtà non lo è affatto, per due ordini di motivi.
Il primo è che gli editori sono molto più differenziati di quanto non lo siano le case discografiche. Le prime tre case discografiche, che hanno circa l’80% del mercato, sono in realtà molto simili tra loro per tipologia di offerta e si trovavano tutte nella stessa situazione. Per l’editoria libraria la situazione è radicalmente diversa: c’è maggiore frammentazione (concorrenza) e differenziazione dell’offerta; la narrativa è diversa dalla scolastica, dall’accademica, dalla saggistica e dall’editoria scientifica. Ogni tipologia di prodotto potrebbe trovare diverse piattaforme distributive digitali di successo proprio perché i prodotti sono diversi, anche se fino a oggi sono contenuti su uno stesso supporto, il libro cartaceo.
Il secondo ordine di difficoltà è decisamente penalizzante per gli editori esistenti che hanno strutture consolidate, rispetto a quelli nuovi che invece possono organizzarsi da subito in modo più flessibile. Gli editori librari tradizionali oggi sono all’inizio della fase due, quella della «convivenza necessaria» e hanno due ordini di problemi strategici: uno di breve periodo e uno di più lungo periodo.
Nel breve periodo il loro problema è che desidererebbero sperimentare ma non sanno cosa e come. Non c’è nulla di consolidato (tranne Amazon), i nuovi modelli di business sono giovanissimi e non è chiaro quali prodotti e quali forme distributive prevarranno. Si pensa a una piattaforma di successo, ma quasi sicuramente ce ne sarà più di una. Gli ormai due-tre anni di crisi del mercato, peggiorati dalla recessione, non lasciano però risorse finanziarie disponibili per la sperimentazione, anzi spingono a un taglio dei costi tradizionali. Le banche hanno limitato moltissimo il credito e, nella difficoltà, gli editori sembrano diventati più avversi al rischio di quanto non lo fossero prima. E successo lo stesso anche per l’industria discografica, accusata durante la crisi di essere incapace di scegliere nuove proposte, vero mestiere dell’editore il cui venir meno sarebbe stato concausa della contrazione del mercato. Le strutture interne tradizionali degli editori sono abbastanza rigide e non competenti ad affrontare problemi nuovi, e non basta assumere un nuovo dipendente che si occupi del digitale per cominciare a risolvere il problema.
Inoltre, c’è una seconda questione che sembra essere molto sottovalutata: quella delle strategie di prezzo. Di fronte alla pirateria, come di fronte al fenomeno delle fotocopie, l’editore cerca di alzare i prezzi del prodotto originale, quasi a compensare il fenomeno e nella fiducia che i clienti più interessati siano comunque sempre disposti a pagare. Anche nella discografia è successo lo stesso. I prezzi dei cd sono aumentati fino al 2007 per poi diminuire drasticamente fino a oggi. Nella fase della convivenza forzata, invece, le imprese percepiscono la concorrenza di prezzo dei prodotti digitali e fisici sostituti e abbassano i prezzi. Oggi, anche per la contingenza della recessione, i consumatori sono molto più sensibili al prezzo di quanto non lo fossero in passato. Tra i libri cartacei una recente ricerca di A.T. Kearney e Bookrepublic ha mostrato che il prezzo medio è sceso da 11 euro nel 2010 a 6,50 euro nel 2012, mentre Bookrepublic ha indicato che nello stesso biennio il prezzo medio dei libri digitali è sceso da 5,70 euro a 2,90 euro. Mantenere alti i prezzi può per molti editori significare autoescludersi dal mercato. In realtà, l’elasticità della domanda al prezzo potrebbe essere largamente diversa per tipologia di prodotto e per editore; dunque potrebbe essere necessario studiare il fenomeno per ciascuna di queste tipologie, all’interno del fenomeno generale della riduzione del prezzo.
Ma gli editori devono pensare non solo ai problemi di breve periodo (quali libri vendere anche in digitale e attraverso quali piattaforme e alleanze? Pdf o ePub? E opportuno ritoccare i prezzi?), ma anche alla loro strategia di più lungo periodo, rispondendo a domande quali: ci sarà spazio per tutta la mia tipologia di offerta attuale anche tra cinque-dieci anni? Su quali segmenti e attraverso quali piattaforme mi conviene competere e quali dei miei segmenti dovrò invece tralasciare? Per quali dei miei generi avrà ancora senso una produzione e distribuzione cartacea? E infine: ci sono altri modi con cui posso «raccontare le storie ai lettori»? Ossia veicolare quei contenuti editoriali che poi sono sempre il mio asset principale?
L’editore ha ancora in mano il contatto con gli autori e dunque con i contenuti. Questo succederà anche nella fase più lontana della maturità del mercato. Ma in fondo, se nel cinema o nella televisione ci sono versioni diverse del film tradizionale, quali le web series, i cortometraggi ecc., perché non pensare anche a prodotti alternativi al semplice libro tradizionale in versione digitale?
Il lungo periodo è forse più vicino di quanto possa sembrare. Sarebbe ora di pensare un po’ di più ai problemi di lungo periodo e meno a quelli di breve.