Nel 2012 il MoMA ha acquisito alcuni video giochi «storici», sancendo l’ingresso del medium nel canone artistico e confermando la preferenza della creatività contemporanea per l’interattività. Ma come si declina, nei videogiochi, la «funzione autore»? Il ruolo del game designer è quello di stabilire le regole della partita, fabbricando la fabbrica delle storie.
I videogame si possono considerare opere d’arte? Secondo il MoMA sì. Il 29 novembre 2012 Paola Antonelli, curatrice del dipartimento di Architettura e design, ha annunciato l’acquisizione da parte del Museo di Arte Moderna di New York di quattordici videogiochi «storici» (Pac-Man, Tetris, Another World, Myst, SimCity, Vib-Ribbon, The Sims, Katamari Damacy, eve Online, Dwarf Fortress, Portal, flOw, Passage, Canabalt), ai quali nel giugno 2013 se ne sono aggiunti altri sei (Pong, Space Invaders, Asteroids, Tempest, Yars’ Revenge, Minecraft), più una game console (Magnavox Odyssey). Secondo il programma ne dovrebbero seguire altrettanti, fino a un totale di quaranta opere. Difficile sottovalutare l’importanza di questo riconoscimento: un’istituzione culturale di grande prestigio decreta ufficialmente l’ingresso del disegno interattivo nel canone artistico contemporaneo. E, come spesso avviene, le vicende artistiche e quelle economiche vanno di pari passo: lo scorso settembre la casa di produzione scozzese Rockstar ha annunciato che la realizzazione della quinta puntata della saga Grand Theft Auto costerà 265 milioni di dollari, 30 in più di Avatar, il film di James Cameron che dal 2009 detiene il record hollywoodiano di costi (nonché di incassi, oltre 3 miliardi).
Dunque, il giapponese Toru Iwatani, il russo Aleksej Leonidovic Pazitnov, il francese Eric Chahi, gli americani Rand e Robyn Miller, l’altro americano Will Wright, il giapponese Masaya Matsuura ecc., cioè gli ideatori dei giochi esposti al MoMA, nati professionalmente come programmatori o software developers, possono a buon diritto fregiarsi del titolo di «autori». Questo, s’intende, nell’ambito delle arti visuali, settore disegno applicato (applied design). Non è un mistero che la nozione di autore si declini in maniera differente a seconda dei casi. Il ruolo del pittore che lavora con tela, pennello e tavolozza non è quello del regista che, governando uno staff di centinaia di persone (i titoli di coda di Aiutar durano un quarto d’ora), traduce in immagini uno script ideato da altri, o insieme ad altri. Ma non c’è dubbio che un film, come un romanzo, racconta una storia: e che quindi, a parte gli esseri umani in carne e ossa che l’hanno inventato e realizzato, si dia, nell’opera, una «funzione autore». Come si mettono le cose per un videogame?
Una premessa. Narrare è una delle possibili modalità discorsive; ossia – secondo la terminologia da tempo accreditata – un «gioco linguistico». Il termine «gioco» sta qui a indicare che le azioni non sono compiute in maniera casuale o arbitraria, ma osservano una serie di norme, tanto più condivise quanto più implicite, le quali conferiscono all’agire senso, legittimità, efficacia. Come accade, appunto, nei giochi propriamente intesi: non c’è gioco senza regole. In una partita di scacchi non si può muovere più di un pezzo alla volta, né (per contro) saltare una mossa; a un tavolo di bridge si può dichiarare «un picche» o «due fiori», non «otto fiori» o «due azalee». Nel caso del racconto le norme sono meno cogenti che in altri ambiti, e tuttavia non meno decisive. Per esempio, non si può narrare senza evocare dei personaggi e mettere in sequenza degli avvenimenti: se si esce da questo perimetro, il «gioco» cambia. Una narrazione non è composta di enunciati in libertà, proferiti e disposti a casaccio, ma segue alcune regole, tanto più ferree quanto meno dichiarate: che, secondo il genere (o il sottogenere), potranno anche essere piuttosto minuziose (tipo: se all’inizio del film compare una pistola, prima o poi qualcuno la userà). E valga il vero: se si può parlare di narrativa sperimentale è solo perché esistono procedure invalse e comunemente rispettate.
I rapporti fra gioco e narrazione non si esauriscono qui. Se narrare è – sul piano pragmatico – un gioco, la maggior parte dei giochi in senso stretto è poi intrinsecamente «narrabile». Racconti avvincenti, com’è noto, possono essere tessuti su qualunque gara sportiva. Servono esempi? Il ciclismo abbonda di storie epiche, talvolta comprensive di memorabili sentenze:
«Un uomo solo al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi» scandì Mario Ferretti il 10 giugno 1949, cominciando la radiocronaca della diciassettesima tappa del Giro d’Italia, Cuneo-Pinerolo. Così per il calcio: Gianni Brera è stato, prima e più che un competente commentatore, un grande inventore di personaggi. E così per tanti giochi e sport, a cominciare (Hollywood docet) dal pugilato, dal biliardo, dal poker. In occasione dei Giochi di Londra del 2012 qualcuno ha scritto che le Olimpiadi sono soprattutto una macchina che produce storie. E che dire della finale di Reykjavik 1972, Bobby Fisher contro Boris Spassky? Ma si possono raccontare in maniera altrettanto efficace e godibile anche fatti più dimessi e domestici: che so, un torneo di bocce, una serata di Risiko.
Riassumiamo. Ogni gioco, e quindi anche ogni videogioco, è opera di un autore (uno o più, non importa), cioè di chi l’ha ideato e realizzato. Ogni partita costituisce poi una vicenda suscettibile di essere, a posteriori, narrata. Inoltre – e qui sta il punto di maggior interesse – chi partecipa al gioco lo può vivere direttamente come racconto, dall’interno e dal vivo, proprio come avviene durante la partecipazione a un evento teatrale. Rispetto a questo modello vi sono però due importanti differenze. La prima consiste nel fatto che il racconto inscenato dal videogame ha carattere interattivo: lungi dall’essere un semplice destinatario, il giocatore determina (o meglio, contribuisce a determinare) il corso degli avvenimenti. La seconda consiste nella ripetitività: un gioco è fatto per essere replicato, ogni partita ha un decorso differente. Evidentemente l’«opera» – o l’equivalente dell’opera – non è la singola partita, bensì l’insieme di regole che la rendono possibile. Se insomma narrare è un gioco linguistico, e se un gioco è una macchina che fabbrica storie, allora l’autore del gioco è colui che pratica il gioco linguistico di fabbricare la macchina che fabbrica storie. Ma è un autore davvero, un autore implicito (implied author) secondo la teoria del racconto?
L’autore del videogame, distinto dalla persona del programmatore, svolge il medesimo ruolo di chiunque decida le regole di un gioco. Non determina lo svolgimento di una partita, ma definisce le coordinate entro le quali essa si svolge. Allestisce uno scenario, definisce spazi e tempi, assegna ruoli; dà forma ai personaggi e alle loro relazioni, ne decide obiettivi e potenzialità; configura elementi, ripartisce risorse, perfeziona dettagli, sancisce limiti. Il riferimento allo sport è abbastanza eloquente. Quando la Fia delibera in merito al cambio gomme nelle gare di FI, mette a punto, con ogni evidenza, un congegno narrativo; idem quando la sua omologa calcistica, la Fifa, regolamenta le sostituzioni dei giocatori o decreta l’espulsione per fallo da ultimo uomo. Il repertorio delle cose che potranno accadere durante una corsa o una partita è vasto, ma non illimitato; anzi, in linea di massima è molto più ristretto di quanto non appaia: tipicamente nei giochi di percorso, spesso sagaci varianti multimediali dell’indimenticabile gioco dell’oca (come le serie King’s Quest o Monkey Island, che temo non saranno ammesse al MoMA). Un gioco è tale in quanto consente una serie di atti, negando possibilità di esistenza a tutti gli altri: sì che la variabilità delle possibili combinazioni rimanga compresa all’interno di uno spazio rigidamente strutturato. Un «sistema» che, per rendere possibile e valorizzare un complesso di eventi e di gesti, codifica il mondo in termini tra grammaticali e liturgici. Il che significa, in buona sostanza, che a ogni gioco – come a ogni rito – sottostà un’immagine del reale. Questo vale, mutatis mutandis, per l’uso del latino nella messa tridentina, opzione molto italiana e molto cattolica; per il cerimoniale dei saluti nel judo (saluto all’avversario e saluto al tatami, cioè al tappeto), autentico distillato di spirito nipponico; per la struttura squisitamente britannica del punteggio del tennis, per cui il tennista che ha fatto 71 punti di fila senza perderne nemmeno uno (ha cioè vinto i primi due set 6-0,6-0, nel terzo è in vantaggio 5-0 ed è sul 40 a 0 nel sesto game) può ancora perdere la partita.
Quali conclusioni possiamo trarre? Che cosa comporta, per gli studi letterari, il successo dei videogame e la loro canonizzazione nel campo dell’applied design? Non credo che sarebbe appropriato proporre una canonizzazione analoga sul versante della letteratura. Il giapponese Keita Takahashi, gli americani Tarn e Zach Adams, il gruppo islandese della Ccp Games, il cinese Xinghan Chen, per continuare (senza esaurirlo) l’elenco dei quattordici magnifici del MoMA, non rientrano nel novero dei grandi romanzieri contemporanei. Possiamo tuttavia fare un paio di osservazioni minime. In primo luogo, prendiamo atto che la creatività contemporanea mostra una predilezione per le modalità interattive: e questo, data la quantità di operazioni che compiamo quotidianamente online (dall’acquisto di un biglietto alla disposizione di un bonifico), in puntuale sintonia con lo Zeitgeist. In secondo luogo rimane confermato che il dominio della narratività è molto più esteso rispetto all’arte della parola, e che ogni epoca e ogni cultura racconta e si racconta in una quantità di forme diverse: nelle celebrazioni sacre e profane, nei festeggiamenti, nei piccoli e grandi riti sociali, nel modo di divertirsi e di gareggiare. Rispetto a questa galassia di narrazioni, la rappresentazione letteraria è insieme subordinata (è un modo di narrare fra tanti altri) e sovraordinata (per quanto sconfinato e metamorfico, l’universo del racconto non comprende nulla che non possa diventare materia di un’opera d’arte). Non che questo sia un privilegio esclusivo, naturalmente: anche in un film o in un videogioco può entrare, in linea di principio, qualunque aspetto della vita. La qualità specifica della letteratura – sua vocazione, vincolo, vanto – consiste nell’operare attraverso il linguaggio (nel linguaggio e sul linguaggio), facendo della parola la misura di tutte le cose: riferimento e criterio, giudizio e metro. Tu chiamalo, se vuoi, format.