Scrivere una canzone di Giuseppe Anastasi e Alfredo Rapetti, figlio del celebre Mogol, tradisce l’idea di un paroliere «uomo della strada», che fa della naturalezza e della genuinità (di marca ideologica) la cifra del proprio scrivere, dimostrando di aver assimilato – travisandole – le istanze della canzone d’autore, ormai applicate alla produzione commerciale.
Sui banchi delle scuole elementari, al tempo dei pennini e dei calamai, la Storia si insegnava per aneddoti: «Il dado è tratto», «Qui si fa l’Italia o si muore». Più tardi, qualche zelante pedagogista ha preteso di fornire anche ai bambini un’immagine un po’ meno schematica degli eventi. L’unica Storia a procedere ancora in bianco e nero è quella della canzone italiana. In un doppio paginone sulla «Lettura» del «Corriere della Sera» (26/05/2013), il cantautore Max Pezzali ne evoca le svolte, tra le quali non può mancare il Festival di Sanremo del 1958: «Poi un bel giorno è arrivato Mimmo Modugno con il suo immortale capolavoro Nel blu dipinto di blu, e nulla è stato più come prima. La travolgente energia dell’interprete che non aveva paura di vivere anche fisicamente la canzone allargando le braccia ad ogni ritornello, in aperto contrasto con l’atteggiamento ingessato e compito dei cantanti dell’epoca, le splendide parole quasi urlate che arrivavano dritte al cuore degli ascoltatori…».
Chi non conoscesse ancora la fiaba delle Braccia Allargate, si metta in ascolto: c’era una volta, a Sanremo, Mimmo Modugno… Come viveva Modugno la canzone? Fisicamente. Dove arrivavano le splendide parole? Dritte al cuore degli ascoltatori. «Nonna, ma che denti lunghi che hai…»
C’è qualcosa di omerico, in questi racconti sgocciolati nel corso degli anni da un rotocalco a un’intervista, da una radio a un libello pop: come Atena è puntualmente occhiglauca, nella canzone italiana ogni hit è un «immortale capolavoro». «Immortali» sono le liriche di Mogol; Battisti «scava in profondità nell’animo umano».
Uno legge, e si chiede che cosa abbia spinto la redazione della «Lettura» a pubblicare questa anodina rifrittura dell’arcinota leggenda. Va bene che siamo in un paese dove ogni starnuto del papa fa notizia, ma Pezzali non è il papa, e la sua estemporanea lezioncina dovrà pur avere una giustificazione giornalistica. In fondo al secondo paginone, un trafiletto spiega tutto: è in uscita l’album Max 20, che festeggia vent’anni di carriera del musicista pavese. Che l’autore di immortali capolavori come Sei un mito li celebrasse esponendo a noi piccoli lettori la sua Storia della canzone italiana era il minimo che ci si potesse aspettare.
Esce per Zanichelli Scrivere una canzone, un manualetto a cura di Giuseppe Anastasi e Alfredo Rapetti (figlio di Giulio, più noto come Mogol). In altri contesti culturali (penso soprattutto agli Stati Uniti) manuali del genere si trovano a ogni angolo; in Italia sono una rarità. Da noi, l’idea che la scrittura «creativa» possa essere oggetto di insegnamento incontra ancora molte resistenze. Gli autori del volumetto si sono lasciati il problema alle spalle: da tempo, in qualità di affermati parolieri, mettono la loro esperienza a disposizione degli iscritti al Cet, l’«università della canzone» fondata da Mogol (senior). Da loro ci si aspetterebbe dunque un approccio pragmatico, artigianale. In effetti, alcuni capitoli sono dedicati agli aspetti tecnici della scrittura per musica, al verso, alla rima, alla metrica in genere. Ma i due non sono americani. Al loro italianissimo amor proprio una prospettiva puramente «professionale» va stretta. Un lyricist anglosassone si acconterebbe di spiegare come si costruisce una canzone che «funziona», che piace, che vende’, al paroliere italiano i soldi e il successo non bastano. Ancora più importante, per lui, è essere considerato a tutti gli effetti un artista. Da questa inquieta pretesa, un osservatore esterno potrebbe imparare molto intorno alle peculiarità della nostra cultura nazionale. Mogol junior e Anastasi non mancano occasione per sottolineare che la loro è arte, la stessa «che da migliaia di anni ha la capacità di rinnovare l’emozione in chi la guarda, la ascolta, la legge al di là del tempo e dello spazio, della cultura, delle ideologie o dei codici interpretativi di un presente passeggero. Un’arte la cui preoccupazione principale è la comunicazione di un’estetica fatta di valori».
In passi come quello riportato viene in chiaro l’ideologia che sostiene la legittimazione culturale della canzone in corso in Italia da quarant’anni. La prima cosa che gli autori tengono a sottolineare è che il loro non è un prodotto effimero: la canzone esiste «da migliaia di anni». Quella che «comunica» è «un’estetica fatta di valori» (esistono dunque estetiche «senza valori»; ma di quali valori si parla? e in che senso un’estetica viene «comunicata»?). La canzone, poi, «suscita emozioni» (dov’è implicito che invece poesia e musica «colta» non lo facciano). Queste emozioni – attenzione – non sono legate a un «presente passeggero»: varcano i limiti del tempo, dello spazio, delle culture, dei codici interpretativi legati a una certa epoca. Non sono, queste, le caratteristiche di un classico?
Anastasi e Rapetti junior preferiscono parlare di evergreen, «capolavori che, come tutta l’arte quando riesce a superare il suo tempo (Caravaggio, Mozart, Gaudi, Dante, Shakespeare), sono diventati patrimonio dell’umanità: simboli di valori condivisi e dono inesauribile di bellezza». E quali sono, questi capolavori? My Way, Mi ritorni in mente, Imagine, Bocca di rosa, Eleanor Rigby, Caruso, New York, New York.
Prendere sul serio questi accostamenti e confrontare, mettiamo, il Canto V dell’inferno con i versi di Mogol sarebbe impietoso. Ci avrà mai riflettuto, il giovane Alfredo? Pensa davvero che papà sia bravo come Dante?
Neanche il più acclamato poeta contemporaneo oserebbe paragonare tanto candidamente la propria opera a quelle dei grandi. Il buon gusto, se non la modestia, lo frenerebbe. Da dove – viene da chiedersi – il paroliere, il critico, l’apologeta della canzone ricavano il coraggio per proporre confronti tanto imbarazzanti? Di mettersi sullo stesso piano di Shakespeare un drammaturgo di oggi si vergognerebbe, conscio che magari chi lo legge è in grado di valutare le disparità; quando si paragona a Dante, invece, il paroliere italiano sa che per il pubblico a cui è rivolta la sua sparata il divino poeta è un puro flatus vocis: nessuno troverà ridicolo il paragone. Anche in questo, io credo, sta la forza di un canzonettista. Se riesce a «comunicare emozioni» a un pubblico di massa, è perché ne condivide senza sforzo la cultura e il gusto. Nei maldestri richiami a Caravaggio e a Mozart io avverto – più che la tracotanza – l’ingenuità e la buona fede dell’autore popolare. Il paroliere non è un intellettuale che «si abbassa» al livello dell’ascoltatore medio, spacciandogli cinicamente cose che in cuor suo disprezza: è lui stesso un uomo della strada, con qualche strumento in più, ma sostanzialmente con lo stesso spirito del suo pubblico, le stesse letture. I soldi che guadagna, se li merita. E proprio non capisce perché le sue opere debbano essere considerate arte di serie B. Della poesia conosce in genere quel poco che si insegna a scuola; non ne legge, perché la considera irrilevante, noiosa e sorpassata per definizione. Se fosse nato negli Usa, vivrebbe la propria formazione «popolare» senza problemi. Ma è italiano, e oscuramente avverte il bisogno di dar lustro al proprio lavoro tirando in ballo una cultura «di serie A» di cui ha vaghe e frammentarie nozioni. Per farsene un’idea, basta dare una scorsa alla breve bibliografia che corona il manualetto, dove in mezzo a due o tre saggi e saggetti sociologici e a presenze peregrine come gli aforismi di Brancu i e gli scritti di Miro, la poesia si affaccia qua con finestre alte di Philip Larkin, là con il Fanciullino di Pascoli, con il Canzoniere di Saba; persino Rilke è rappresentato, ma dalla marginalissima Lettera a un giovane poeta. Per formarsi, insomma, l’aspirante paroliere, a cui il libro è indirizzato, dovrebbe leggere le poesie di Larkin (e perché non quelle di Auden, di Eliot, o – mettiamo – i testi di Bob Dylan o di Georges Brassens?); di Pascoli solo la poetica, tralasciando l’opera in versi; di Saba, invece, l’intero Canzoniere. E le Elegie duinesi di Rilke? Mah, forse meglio non perdere tempo a decifrarle. L’elenco, in cui non c’è nemmeno un titolo che si occupi specificamente delle questioni e dei problemi dello scrivere per musica, ci dà un’idea dell’asistematicità, della casualità dei riferimenti dei due autori, anche nel campo di loro competenza.
E con questo? E con questo, niente. Il mio scopo non è certo denunciare la presunta «impreparazione» di due professionisti di successo. Mi sembra che valga la pena, però, di riflettere su quali trasformazioni abbia attraversato la cultura italiana nel giro di qualche decina di anni. La legittimazione culturale della canzone, iniziata negli anni settanta del secolo scorso, è ormai un fatto compiuto; il prestigio della poesia, un tempo fuori discussione, è ridotto quasi a zero. Non si tratta solo di una competizione tra generi: a prendere il sopravvento è una concezione complessiva (per lo più implicita e irriflessa) della letteratura, della critica, dell’estetica.
Quale idea di scrittura stia oggi dietro il lavoro del paroliere, questo libretto ce lo rivela con disarmante chiarezza. Gli autori presentano la canzone come l’unico ambito in cui può aver luogo una comunicazione autentica, profonda, pura, vicina alla famosa vita vera. Eccoli, i «valori» che informerebbero l’estetica canzonettistica: «naturalezza», «capacità di essere se stessi», «sincerità con se stessi e con gli altri», «azzeramento del pudore». Quale canzonettista, in passato, avrebbe insistito su tali virtù? Quale paroliere avrebbe parlato della canzone come di un’intensa e profonda espressione lirica della personalità dell’autore? La «rivoluzione» dei cantautori, evidentemente, ha lasciato un segno anche nella mentalità di quelli che una volta si consideravano dei semplici mestieranti. La canzonetta italiana sembra aver assimilato, decennio dopo decennio, le istanze della canzone «d’autore». Quello che ne risulta è una poetica della «poesia onesta» inconsapevolmente affine a quella formulata da Saba in un famoso saggio, qui mai citato.
«Tenete sempre presente – raccomandano Anastasi e Rapetti agli aspiranti parolieri – che la vita è l’oggetto della comunicazione, e vivere vuol dire essere sinceri […]. Ognuno deve essere se stesso, avere il coraggio di esserlo.» Altrove sentenziano: «L’autore ha il dovere morale di comunicare quello che sente in totale sincerità». Si potrebbe obiettare – proprio a partire dall’opera di Mogol senior, citatissima – che il testo di una canzone non sempre ha un carattere lirico, e che non sempre chi lo ha scritto se ne fa diretto portatore; ma al di là di queste incongruenze, ciò che colpisce è soprattutto la martellante predicazione di quella che potremmo chiamare una «ideologia dell’autentico». In fondo, quello di paroliere è un mestiere come un altro; l’autore di Papaveri e papere o quello di Vola colomba non si ponevano certo il problema di essere più o meno spontanei e genuini. Perché mai il paroliere del Duemila dovrebbe sforzarsi tanto di essere sincero? Quella di Anastasi e di Mogol junior è una crociata per la moralizzazione dell’industria musicale? O forse l’indicazione di un percorso di autocoscienza? Della loro insistenza sulla sincerità e sull’essere se stessi i due autori non ci forniscono esplicitamente le motivazioni, ma alla fine l’impressione è che la ricerca dell’autenticità sia da intendere, più che come un precetto morale, come un «metodo creativo». Essere se stessi senza infingimenti viene visto come il modo più sicuro per essere originali. E solo chi è originale (sottintendono gli autori) ha successo.
L’idea è, insomma, che la canzone sia l’ambito in cui i valori più veri e profondi prevalgono «naturalmente», grazie a una magica sintonia tra produttori e consumatori. La «produzione commerciale» (così veniva chiamata, con disprezzo, negli anni settanta del secolo scorso) oggi ci viene presentata come l’ambito in cui – grazie a qualche «mano invisibile» affine a quella che regolerebbe l’economia – si afferma la più umana autenticità.
L’ottimismo dei parolieri mi sembra un’occasione per riflettere sulla natura dell’ideologia che ogni giorno ci ammaestra.
Quando ho letto dell’uscita di una raccolta di canzoni su testi di Patrizia Cavalli (Patrizia Cavalli e Diana Tejera, Al cuore fa bene far le scale) sono corso in libreria. Gli incontri tra poesia e musica sono una rarità da non perdere. Dai poeti della generazione della Cavalli, emersi negli anni della «spettacolarizzazione» della poesia e dell’emancipazione culturale del pop, era lecito aspettarsi un deciso avvicinamento alla canzone; invece, archiviate le esperienze di Pasolini, Fortini, Roversi, a partire dagli anni ottanta canzone e poesia si sono mosse in Italia su binari paralleli, senza che tra loro si stabilissero contatti significativi. Le ragioni di questo distacco emergono nella conversazione con le autrici riportata nel libretto. Come molti poeti, la Cavalli guarda con occhio curioso ma un po’ allarmato alla messa in musica dei suoi testi. È la stessa Tejera a riferire che, ascoltando per la prima volta una delle canzoni, il suo commento fu: «Ma per questo testo una musica così? Sembra il trio Lescano». A questa iniziale diffidenza è poi subentrato un affettuoso entusiasmo, e un’attiva collaborazione; ma le perplessità non sono del tutto scomparse. «Per me – dice la poetessa – una canzone deve essere semplice, immediata, non banale, efficace e memorabile […]. La musica di Diana invece… mi sembrava che vagasse senza una forma definita, non aveva neanche il ritornello. Che canzone è se non ha il ritornello? Insomma non riuscivo a situarla nel genere canzonettistico, diciamo che alle mie orecchie suonava strana.» Il rapporto fra testo e musica nel lavoro della giovane compositrice appare alla Cavalli «fluttuante», «destrutturato»: «E come se fossero due estranei che se ne vanno ognuno per conto proprio senza nessuna voglia di incontrarsi».
Oltre alle poesie musicate da Diana Tejera (sei), il disco propone cinque canzoni nate come tali da una più stretta collaborazione tra le autrici. Le perplessità della Cavalli trovano conferma soprattutto nelle prime. All’ascolto, l’impressione è che la musica si muova di verso in verso come un acrobata sul filo: a ogni passo vacilla, si raddrizza, fa una corsetta… Di questo effetto di navigazione a vista, la compositrice è solo in parte responsabile. Ascoltando, vengono in chiaro i problemi che si trova ad affrontare chiunque metta in musica i versi di un autore contemporaneo. Un testo poetico, oggi, raramente si attiene a schemi prosodici definiti; questo costringe la musica – se non vuole uscire dall’orizzonte «pop» – a continui aggiustamenti e contorcimenti. Le differenze tra poesia e canzone – oggetto negli ultimi anni di interminabili e un po’ vacue discussioni – emergono in forma di evidenti discrasie strutturali. I versi della Cavalli tendono alla prosa; sulla pagina, però, la loro prosasticità viene puntualmente «corretta» e sublimata da una serie di «marche» poetiche: innanzitutto la metrica (che non di rado ricorre a endecasillabi e altri versi canonici), qualche rima, gli enjambements che spezzano il flusso del discorso, una sintassi che qua e là si discosta da quella del parlato. La poesia non esibisce immediatamente un «centro»; la sua comprensione – a dispetto dell’apparente semplicità del dettato – richiede un’attenzione prolungata; il testo può anche risultare complesso, ma il lettore ha comunque di fronte un oggetto linguistico «stabile», da ripercorrere a piacere. Una volta musicate, invece, le parole scorrono nell’orecchio senza freni. Nelle canzoni «normali», a questa «fuga» rimediano di norma ridondanze e ripetizioni, e soprattutto la messa a fuoco di una frase chiave, di un’immagine; ma quando le parole non sono pensate in vista del canto, l’attenzione dell’ascoltatore è messa a dura prova. Diana Tejera – va detto a suo merito – si attiene fedelmente alla poesia di partenza, ma la sua impostazione pop fatica a smussare gli spigoli del testo. Le melodie, gli accordi, gli arrangiamenti, l’interpretazione sono quelli delle canzoni che siamo abituati ad ascoltare, ma è come se dovessero combattere contro una forza opposta, che li zavorra e li disinnesca. A ogni frase siamo in attesa dei rassicuranti cliché che formano l’armamentario di ogni buon canzonettista; i cliché si affacciano, cercano di installarsi, ma alla fine a venirci incontro è una sorta di prosa salmodiata che fa pensare ai canterellamenti improvvisati dei bambini.
Veniamo ai pezzi scritti «a quattro mani». Qui la Cavalli costruisce i suoi testi sul modello della canzone: l’idea centrale è chiara fin dal titolo, la metrica è più «quadrata», le rime più frequenti e regolari; ci sono strofe e ritornelli, c’è persino (in Al cuore fa bene far le scale) un supercanzonettistico tara tatà tatàta tà tatà. La direzione è quella giusta; peccato che in questa «canzonizzazione» i testi tendano a banalizzarsi: qui si canta del cuore che non sopporta di «andare in pensione», là di una ragazza che si rifiuta di essere «sposa talibana» ecc. Evidentemente, come la stessa Cavalli ammette, «a differenza di quanto si crede, scrivere canzoni non è per niente facile». Soprattutto non è facile, in una canzone, mantenere l’originalità e il fascino di una poesia. A volte – come in questo caso – più poeta è il poeta, più gli sarà difficile farsi paroliere. Ma proviamoci ancora: vale la pena.