Il videogioco come stratificazione narrativa

Medium «bollente», il videogioco colloca l’utente al centro del processo narrativo, calandolo in universi digitali programmati fin nei minimi dettagli. Universi che, negli ultimi anni, con il fenomeno dei Mmog (Massively Multiplayer Online Game), si sono fatti persistenti, lasciando ai giocatori la libertà di agire come vogliono… o, quanto meno, la percezione di poterlo fare.
 
Probabilmente, il videogioco è il medium più artificiale mai creato e, in quanto tale, è il risultato di una moltitudine di scelte, di figure professionali e di arti.
Il primo problema sembra essere, quindi, quello dell’identificazione di un autore, data la vocazione sempre collettiva del medium.
Generalmente, considerando la natura corale e distribuita del videogame, si identifica l’autore nella software house che ha ideato e sviluppato il progetto.
Tuttavia, quando abbiamo a che fare con una saga videoludica l’individuazione dell’autore è puramente commerciale e, quindi, convenzionalmente simile a quella del cinema. Come il pubblico cinefilo attribuisce al regista il ruolo autoriale di un film, e non allo sceneggiatore o al cameraman, allo stesso modo i videogamers riconoscono come autore il game designer, ovvero colui il quale ha la direzione del progetto e l’ultima parola su qualsiasi elemento costituente l’opera.
Data la sua totale artificiosità, potremmo dire che il videogioco è il medium più narrativo poiché ogni singola particella che lo compone è stata pensata, progettata e scritta, lasciando ben poco all’immaginazione. Il mondo che appare è di per sé completo, compiuto e perfettamente coerente.
Se lo catalogassimo secondo il sistema mcluhaniano del «caldo-freddo», dovremmo etichettarlo «bollente», come minimo: l’utente viene sottoposto a un bombardamento di dati, informazioni, emozioni indotte, e tutto ad «altissima definizione».
Eppure, il videogioco è contemporaneamente freddissimo, glaciale: il coinvolgimento dell’utente è necessario per la prosecuzione della storia, ed è quindi notevolmente inclusivo, oltre a esserlo dal punto di vista sociale, grazie ai sistemi social ormai integrati in qualsiasi videogame.
Ogni azione compiuta da un personaggio all’interno di questo universo digitale è già stata pensata e descritta in codice ed è quindi preesistente alla sua realizzazione.
Analizzando il linguaggio del videogioco, Lev Manovich individua l’unità minima narrativa addirittura nella semplice animazione che descrive gli spostamenti del personaggio lungo il livello: a ogni comando dell’utente corrispondono delle brevissime animazioni autoconclusive, come quando il protagonista della più famosa saga videoludica della storia, Mario, non riuscendo a superare un ostacolo, si ritrova a compiere un ruzzolone all’indietro, finendo a terra. Un movimento così apparentemente semplice è il risultato di una concatenazione di frames artificiali che costituiscono una piccola storia compiuta, la quale manterrebbe il suo senso anche se estrapolata da quel contesto.
Di conseguenza, ogni istante vengono raccontate sullo schermo tante narrazioni, micro o macro che siano, quanti sono gli elementi animati. Effettivamente, un grande videogame è in grado di rendere emozioni, nuove sfaccettature ogni qual volta lo si rigiochi; come un grande libro o un grande film, del resto.
Spesso ci si imbatte nella convinzione secondo cui il videogioco, tramite il controller, che è tastabile, genera un contatto fìsico con l’utente e quindi, in qualche modo, è più interattivo di qualsiasi altro medium. Però, premere un tasto nella realtà per compiere un’azione nel gioco genera solamente un nesso causa-effetto simile a quello che un lettore otterrebbe sfogliando le pagine di un libro-game per imboccare un bivio a sinistra, «p. 34», o a destra, «p. 205».
Il vero livello di interazione avviene tra gli strati della coscienza del giocatore, secondo un continuo rapporto tra stimolazione e percezione.
Ma facciamo un passo indietro, chi «racconta» il videogame?
La risposta può variare da genere a genere, da videogame a videogame.
Se prendiamo un adventure game, probabilmente diremmo che il gioco viene narrato da se stesso o da un narratore fondamentale, ma in certi casi sarebbe innegabile la presenza di un meganarratore cinematografico; se scegliessimo un picchiaduro potremmo ritrovare una sorta di mostratore filmico; nel caso di un role-playing game o di un first persoti shooter potremmo sostenere che il narratore sia allo stesso tempo interno ed esterno, intradiegetico ed extradiegetico, e che gli avvenimenti siano concatenati senza soluzione di causa, parte di un flusso autonomo.
Un bel problema.
Il primato del videogioco sta nel porre l’utente al centro dell’intero processo narrativo.
L’autore reale ha sempre ben chiaro chi sarà il suo reale destinatario.
Il game designer progetta l’intero videogame intorno al sistema di interazione uomo-macchina cercando, poi, di adattarlo ai passaggi dell’intreccio.
Un maestro assoluto del game e interaction design è il giapponese Hideo Kojima, creatore della fortunatissima saga videoludica Metal Gear (serie che sarà citata più volte come esempio). Nel primo episodio per piattaforma PlayStation, Metal Gear Solid (1998), il protagonista si ritrova a dover combattere contro un avversario apparentemente invincibile (Psycho Mantis) poiché dotato di un potere telepatico tale da permettergli di leggere nella mente delle persone intorno a lui e, quindi, di predire le mosse del giocatore.
Ascoltando le parole del nemico e i suggerimenti degli alleati, è presto chiaro che è impossibile battere lealmente un avversario tanto potente, così il videogiocatore è costretto a staccare fisicamente il controller dalla propria PlayStation e inserirlo nella porta dedicata al secondo player. In questo modo Psycho Mantis rimane spaesato al punto di arrendersi. Un’esperienza simile è senza precedenti nella storia dei media.
In Finlandia, Remedy, un’innovativa software house, ha rilasciato nel 2011 Alan Wake, un videogioco ispirato ai romanzi di Stephen King e alla serie Twin Peaks di David Lynch.
Si tratta di uno psicothriller in terza persona, in cui l’utente viene trascinato nella follia che circonda una piccola cittadina nascosta tra le montagne dell’Ovest americano attraverso una serie di escamotage narrativi, primo tra tutti il flusso di pensiero. Mentre il videogiocatore è intento ad allontanare le orde di nemici malefici, il protagonista ragiona su ciò che sta accadendo intorno a lui, distorcendo la percezione dello spazio e del tempo, arrivando a far entrare l’utente nel proprio subconscio. L’importanza del giocatore viene resa graficamente con il posizionamento del personaggio ai lati dello schermo, lasciando centrale il player.
I personaggi dei videogame, quindi, non sono molto diversi da quelli degli altri media; anzi, sono gli stessi, poiché generati dai medesimi archetipi universali: Alan Wake non ha alcuna peculiarità che lo contraddistingua dal protagonista di un qualsiasi romanzo horror. La diversità è data dal livello di affinità che viene a crearsi tra utente e personaggio.
In generale, i personaggi si trovano di fronte a vari ostacoli e prove da superare. I protagonisti dei romanzi sono soliti sbagliare, cadere e rialzarsi, difficilmente compiono sempre la scelta giusta; diversamente, i personaggi principali dei videogiochi sono costretti a farlo, sempre, altrimenti vengono puniti con la morte o il game over e il racconto non può proseguire. Mantengono quindi, intrinsecamente, i caratteri degli eroi epici o dei film d’azione di bassa caratura. Tuttavia, ciò che li riporta sul piano dell’utente è una serie di finezze ideate dai game designer come Hideo Kojima: sempre nella saga di Metal Gear, l’agente speciale Solid Snake entra in contatto con diversi «aiutanti», «donatori» e «antieroi». A seconda delle scelte compiute nei dialoghi, Snake guadagna punti salute di fronte a una buona notizia o un complimento, o ne perde in seguito a una presa in giro. Lo stato emotivo del personaggio viene così esplicitato in maniera non verbale, ricorrendo a un espediente inedito in qualsiasi altro medium, una specie di transfert verso l’utente.
Il videogiocatore può anche «sentire» lo stato fisico di un personaggio, attraverso la modifica dei parametri di controllo: quando Snake è ferito o debilitato, l’utente dovrà effettuare maggior pressione sui tasti, o muovere il joystick più velocemente, per fargli compiere qualsiasi azione.
Sempre nello stesso videogame, durante determinati dialoghi e passaggi narrativi è possibile interagire con il «filmato» premendo delle combinazioni di tasti e scoprire così i pensieri o i punti di vista dei personaggi o condividerne i ricordi attraverso una specie di flashback cinematografico.
Le figure retoriche vengono reinterpretate (rimediate?) anche dal videogioco, appunto, come già è accaduto a suo tempo al cinema, ma pure liberate dalla loro «forma classica», cercando di portare l’utente a vivere il loro «effetto». Un chiaro esempio si trova sempre in Metal Gear, e più precisamente nel quarto capitolo della saga per PlayStation: Guns of the Patriots. Questo episodio rappresenta la chiusura di una trilogia, di conseguenza lungo tutto il racconto sono disseminate citazioni dai giochi precedenti.
Quando l’utente si imbatte in eventi collegati ai capitoli passati della saga, gli vengono proposte varie forme di analessi: oltre ai classici flashback cinematografici si avviano livelli di gioco estrapolati dai titoli precedenti, con grafiche, meccaniche, comandi, effetti sonori fedeli agli originali, e quindi diversi dagli attuali, per riportare il giocatore a rivivere le emozioni del primo videogioco, vecchio di dieci anni. In pratica, si rivive per davvero il passato, potendolo rielaborare, però, grazie all’interazione.
Questa è forse la più fedele imitazione del vero processo mentale del ricordo: mai perfettamente fedele, e nemmeno paragonabile al banale flash del passato.
Come già detto, ogni elemento che costituisce l’environment del videogioco è il frutto di un lungo processo di ideazione, progettazione e sviluppo-scrittura.
Di conseguenza, come in un bel film o in un buon romanzo tutto è coerente e consistente con le vicende e gli stati emotivi del racconto.
Tuttavia, con la diffusione delle connessioni Internet a bassissimo costo, molte software house hanno cominciato a portare i propri utenti in mondi sì consistenti e coerenti, ma soprattutto persistenti.
La persistenza è ciò che permette al videogioco di avvicinarsi alla vita, poiché fornisce i settings per la sua clonazione: uno spazio, un tempo e la capacità di interagire con il mondo circostante.
In questo caso si parla di Mmog ovvero videogiochi Massively Multiplayer Online.
In questi universi paralleli vigono regole simili a quelle del nostro mondo:
– un sistema economico evoluto (socioeconomico?), ricco di mestieri, che genera molteplici comportamenti e interazioni sociali portando fino all’alienazione alcuni utenti (i farmers);
– un sistema di leggi e regole interne ed esterne al gioco: nei mondi artificiali non è possibile accedere a determinate zone o aggredire alcuni personaggi, la pena è l’intervento di una sorta di «polizia» che punisce il giocatore con l’uccisione del suo personaggio. Ma il controllo è anche esterno, poiché se un utente mantiene un comportamento scorretto nei confronti degli altri membri della community può essere punito dai Game Masters (Gm), ovvero semidivinità m game che rappresentano qualche impiegato seduto davanti a un computer nel quartier generale dell’azienda sviluppatrice;
– un sistema di leggende che giustifica gli avvenimenti del gioco e la sua stessa esistenza ma anche eroi (e antieroi) autogenerati dalla comunità degli utenti: giocatori particolarmente abili o particolarmente scarsi che entrano a far parte della memoria collettiva o addirittura del gioco stesso (es.: Leeroy Jenkins);
– una gerarchia sociale basata sulla proprietà privata e sul senso di appartenenza a gruppi fortemente elitari. Con, in aggiunta, una speciale classifica basata sull’onore e la reputazione, nonché sui traguardi raggiunti e i comportamenti degni di encomio sul campo di battaglia;
– fazioni, razze, alleanze e «zone grigie», il tutto condito dalla certezza manichea di appartenere al «bene» a differenza del nemico «cattivo e senza onore».
 
In mondi così complessi e popolosi esiste una narrazione di fondo sulla quale è costruito il videogioco, e successivamente vengono aggiunte «espansioni» che introducono approfondimenti narrativi, nuovi nemici e nuove zone da esplorare. Tuttavia, ciò che rende questi giochi particolarmente interessanti è la continua creazione di storie da parte degli utenti i quali, liberi di muoversi e agire secondo il proprio piacimento, affrontano le sfide compiendo scelte diverse e, per superare gli ostacoli, modificano sia gli «oggetti magici» sia, contravvenendo alle regole previste dai designer, l’intreccio stesso. Inoltre, le comunità generano contenuti grassroots esterni al mondo ludico, creando sempre nuove fabulae e livelli di senso.
Nonostante l’evidente artificialità e la natura fortemente strutturata, il videogioco è in grado di agire sulla mente del proprio utente, restituendo un’illusione di realtà inedita grazie agli stimoli che propone tramite le moltitudini di micronarrazioni contenute nei suoi mondi artificiali, e nei suoiframes, lasciando ai giocatori la percezione di libertà di autodeterminazione nonostante i palesi limiti fisici propri del medium.