I romanzi del panico da fabbrica

Ora che l’universo della fabbrica, dopo un ventennio d’assenza, torna prepotente al centro di molte narrazioni, due sono le specificità più evidenti: l’uso della prima persona singolare e la scelta di un punto di vista filtrato dalle lenti insieme deformanti e illuminanti della nevrosi, spesso declinata nella forma totalizzante del panico.
 
Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale è il volume, edito nel 2013 da Laterza su commissione dell’associazione degli industriali lombardi e a cura di Giorgio Bigatti e Giuseppe Lupo, che ha ricostruito il modo in cui nel Novecento la nostra letteratura ha saputo espugnare il mondo chiuso in sé della fabbrica e, più latamente, ha raccontato il lavoro operaio. E la bella, nota genealogia: Pratolini e Bernari, Ottieri e Volponi, Balestrini e Rea… Chi, tra loro, è stato il più profetico? Chi ha forgiato gli attrezzi più adatti a raccontare il lavoro industriale ancora oggi, nel nostro presente postindustriale?
Nell’ultimo ventennio i giovani narratori si sono cimentati piuttosto con la realtà del non lavoro o del lavoro flessibile all’estremo, con l’impossibile binomio «vita precaria e amore eterno», come riassumeva un titolo di Mario Desiati. E stata Silvia Avallone nel 2010 a tornare in un’enclave classica, l’altoforno Lucchini di Piombino, AFO 4, con Acciaio (Rizzoli), opera prima che, con un’abile struttura narrativa multicentrica da soap opera, restituiva quel «dentro» come un universo senza eroismo – fatica e soprusi, violenza e droghe per migliorare i ritmi –, un inferno cui pagare pedaggio per poter vivere davvero, cioè per i suoi giovani personaggi degli anni duemila vivere «fuori».
Il 2013 triplica: sono almeno tre i libri «figli della fabbrica». In cinquina allo Strega, il primo giovedì di luglio, Le colpe dei padri (Piemme) di Alessandro Perissinotto: storia di un manager quarantenne asceso al penultimo piano di una multinazionale di Torino, che scopre di non essere chi credeva, figlio di borghesi, bensì figlio naturale di un terrorista degli anni settanta. Motivo per cui l’uomo, Guido Marchisio, fallisce l’operazione che doveva garantirgli la conquista di quell’ultimo piano: lo scippo della fabbrica agli operai, complice la vacanza per il ponte dei Morti, con la dislocazione delle linee produttive nella ex Iugoslavia, dove il lavoro costa meno. Qui ciò che colpisce è in primis la capacità previsionale di Perissinotto, visto che agosto 2013 sarà ricordato come il mese in cui padroni e padroncini italiani si sarebbero divertiti con il nuovo gioco di prestigio: far scomparire catene di montaggio dai capannoni chiusi per ferie e farle riapparire qualche migliaio di chilometri più in là, invitando gli operai a trasferirsi in Polonia, laddove desiderassero mantenere il posto. Ma più nascosto, quasi incistato nella storia, c’è un altro elemento che rende attuale il romanzo: l’uso dell’io. Perissinotto scrive in prima persona, nei panni di colui cui Marchisio ha narrato la vicenda. E questa voce narrante si permette dei singolari virtuosismi: come quando nel descrivere l’infanzia solitaria di Guido il Perissinotto che narra ci dice di capirla, perché anche lui è stato figlio unico.
Ora se c’è, tra quelle in corso, una rivoluzione poco rilevata, è questa: l’uso della prima persona. Nella sfera «informazione & comunicazione» è la vittoria del blog: l’opinione firmata, con tanto di faccetta del blogger, batte la neutralità del notiziario. Ma è da qui che l’«Io» tracima anche in letteratura? E con quali effetti? L’«Io» ha preso il posto non solo di una terza persona oggettiva, ma anche di un «Noi» – solidale, collettivo – che non esiste più? E vero che in tempi di reality perché la realtà possa essere considerata tale ha bisogno di un testimone che la certifichi? Come va giudicato il fenomeno in corso dell’«autofiction»? E perché spesso le autofiction sono nel filone misery, cioè ci narrano una malattia o un lutto?
Gli altri due titoli «industriali» che il 2013 ci consegna ci portano esattamente in questo alveo: Il panico quotidiano di Christian Frascella (Einaudi) e La fabbrica del panico di Stefano Valenti (Feltrinelli). Da notare il gioco di parole che, in entrambi i titoli, si inanella intorno a questa parola che descrive una delle sindromi più socialmente in crescita. Una malattia che ha diritto a un’attenzione particolare, merita, essa sì, di diventare narrazione, perché può innalzarsi a una grandezza metafisica e perché va dimostrando di poter essere il sintomo di qualcosa di mostruosamente sbagliato nel modo in cui viviamo.
Questi due libri ci confermano poi la risposta all’interrogativo dell’inizio: è Paolo Volponi il più profetico degli scrittori. Per quel duello etico e psichico – infinitamente più strenuo di un duello politico – che il suo Albino Saluggia ingaggiava già nel 1962, in Memoriale, con la realtà totalizzante della fabbrica.
Frascella, classe 1973, torinese, racconta ciò che gli successe a un certo punto durante gli otto anni trascorsi stampando lamiere alla catena di montaggio, mentre ancora vagheggiava solo di fare lo scrittore. È il primo attacco di panico: «Ero muto, sordo, cieco, semiparalizzato. Ho pensato che era la fine. Un attacco di cuore, un ictus, una congestione fulminante, una crisi epilettica, un malore che mi stroncava giovane, 27 anni, operaio, di notte, in fabbrica». Da qui la vicenda disordinata e attanagliante che lo porta a fare i conti con «cos’è un turno in fabbrica, cos’è la rotazione, cos’è la catena di montaggio, cos’è il taylorismo, cos’è il capitalismo», dice il suo avatar. Il Christian del libro osserva dalla dimensione a se stante cui il panico lo consegna: «Guardai quelle formichine blu che erano i miei colleghi, intente nelle loro operazioni: si muovevano nel ventre sputa-eco dell’industria automobilistica, nessuno sapeva della loro esistenza. Quando le auto finivano nei concessionari, gli acquirenti indirizzavano almeno un pensiero a chi aveva contribuito alla creazione di ciò che stavano per portarsi a casa, nei loro garage? O avevano dell’industria un’idea di robot intelligenti?» si chiede.
Il panico, quel mix totalizzante di ansia-depressione-angoscia che regala a chi ne soffre piccole morti spesso quotidiane, è, qui, anzitutto una risposta estrema a un sentimento di reificazione.
Tant’è che il giovane Christian comincia a sentirsi meglio quando un collega anziano lo porta a lavorare nel suo orto.
L’io che narra nella Fabbrica del panico di Stefano Valenti ha avuto, da parte sua, un padre vittima dell’amianto alla Breda di Sesto San Giovanni.
Valenti, classe 1964, valtellinese, traduttore, all’esordio narrativo, ricostruisce la vicenda della Breda Fucine, ramo dell’industria siderurgica della «Stalingrado d’Italia», dove l’amianto usato per proteggersi dal calore fece strage dagli anni novanta: come documentato dal Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro e nel territorio, settantatré morti per mesoteliomi, asbestosi, placche pleuriche, tumori al polmone. Mentre l’azienda derubricava la potenza cancerogena del materiale a semplice tossicità e dava ai dipendenti il contentino di un mezzo litro di latte al giorno. Il padre di Valenti, tra loro.
«Gli innocenti scendevano in pianura come un torrente in piena per far funzionare le fabbriche» scrive l’autore, descrivendo l’esodo da quelle montagne che «si alzano in verticale come lenzuola stese ad asciugare» dei montanari valtellinesi, diretti a guadagnarsi da vivere nell’hinterland milanese. Valenti senior trascorre anni da operaio generico alla catena del reparto aste Breda ed è un rapporto tanto totalizzante e un abbraccio tanto mortale che il suo sogno di un’altra vita è così riassunto: «Immaginava di vivere senza la fabbrica e preparava il corpo con meticolosa accuratezza al grande evento, il momento fatale della separazione». La via d’uscita che si è dato è questa: diventare pittore. Perciò si esercita la sera e, con questa speranza, a un certo punto recide il cordone ombelicale con la fabbrica e torna in Valtellina dai genitori. Con la pittura, la sua sarà una lotta corpo a corpo perché è nel diventare «bravo» e quotato che intravede l’unico riscatto, ma l’amianto rilascerà poi a distanza i suoi effetti e lo porterà alla morte. E dunque, quando sul finale del suo libro Valenti junior sale sui monti con l’urna della cremazione, quelle che porta – per disperderle – sono le ceneri di un genitore morto essendo animato da un sentimento prevalente, la rabbia per l’ingiustizia. Prima, aveva scoperto il figlio, era stato tra i testimoni che avevano dato al Comitato forza e gambe su cui camminare.
Ora, la particolarità della Fabbrica del panico è che questo figlio scrive ponendosi in un singolare rapporto con il padre: di quello ha ereditato la sofferenza affettiva, psichica, che la fabbrica dà e, pur tenendosene lontano, l’ha elaborata in panico. Nel padre e nei suoi vicini di catena operava un male più semplice:
«La depressione, sua e dei compagni, diventava assoluta. La necessità di combatterla, vincerla, contenerla, si faceva più intensa e più acuto si faceva il desiderio di sedare il dolore. La polvere, le fibre, la limatura si depositavano sul corpo, sull’anima…». E intanto c’è il cronometrista che registra i tempi e li accelera e, se perdi colpi, finisci al colloquio psicologico, prendi le pastiglie, ma se insisti sei licenziato e allora la depressione ogni sera, nell’addormentarsi, diventa ansia.
La fabbrica del panico ricostruisce una delle grandi vicende operaie degli ultimi decenni (è stato il Comitato nato alla Breda a ottenere il riconoscimento della dannosità dell’amianto), quel tipo di storia che negli anni settanta sarebbe diventata epos e, nei novanta e duemila, ha faticato a forare il silenzio dei media.
E lo fa inventando la funzione più moderna e fino qui inedita dell’io: un uso allo stremo del soggetto per conoscere e rendere l’oggetto. Volponi è il nome evocato in quarta di copertina. A ragione, perché pure in Memoriale c’è un io narrante, perché pure lì protagonista è la Fabbrica e pure lì quel mondo totalizzante è visto con le lenti deformanti e illuminanti della nevrosi. Ma in fondo La fabbrica del panico è anche un libro tipico di questi anni: perché mescola realtà e fiction; e perché la soggettività dell’io narrante, con la sua malattia, ha un ruolo primario nel racconto.
Non sempre queste sono garanzie di riuscita. Ma Stefano Valenti, a modo suo, ha dato una risposta al dilemma che Ottiero Ottieri proponeva in un suo articolo del 1961 per «Il menabò», in cui diceva che il mondo delle fabbriche è inconoscibile, perché «quelli che ci stanno dentro possono darci dei documenti, ma non la loro elaborazione: a meno che non nascano degli operai o impiegati artisti, il che sembra piuttosto raro. Gli artisti che vivono fuori, come possono penetrare in una industria? I pochi che ci lavorano diventano muti, per ragione di tempo, di opportunità ecc. Gli altri non ne capiscono niente».
Qui un figlio, in omaggio al padre, trova la strada per raccontarci come quel tipo di industria e di organizzazione sociale oggi risultino ormai intollerabili. Non è possibile nostalgia. Valenti senior soffriva di depressione, Valenti junior soffre di panico, ma è la Fabbrica che è follia.
Piacerebbe anche a Giorgio Gaber, questo uso dell’«Io»: non è quel «dolce monosillabo innocente» diventato in Occidente «l’ultimo peccato originale», come lui cantava?