Uno degli aspetti caratteristici dell’ultimo lavoro di Saviano è il ripensamento, doloroso ma non rinunciatario, a proposito di una scelta compiuta nel 2006, pubblicando Gomorra. Qui sono i cartelli colombiani, è il narcotraffico internazionale a dominare la scena. Come di consueto, molte sono le informazioni, i racconti che l’inchiesta trascina con sé. Ma il ragionare si fa più accorato, e una domanda inquietante affiora tra le pagine: ne è valsa la pena?
A distanza di sette anni dal clamoroso successo di Gomorra, un Roberto Saviano ormai fatto celebre torna con Zero Zero Zero a sondare inquieto i meandri più infidi del nostro tempo. Torna, e conferisce alla nuova ricognizione un carattere ecumenico, globale, come vuole la cittadella-mondo in cui abitiamo. «Fa uso di coca chi ti è più vicino» annota sin dalle prime pagine, magari senza che tu lo sappia, anche se è in una pluralità di altrove che il sangue zampilla, si organizzano i grandi traffici e se ne mondano i proventi massicci.
La scelta è forse difensiva, rimedia a una prossimità bruciante con il quartiere di Scampia e con i clan casalesi. Fatto sta che lo sguardo savianesco si slarga, assumendo un profilo planetario e persino cosmogonico. La coca, «il petrolio bianco» che da decenni affluisce in Occidente grazie a cartelli e combinazioni internazionali, ha prodotto un inaudito «Big Bang», un «cosmo nuovo» che chiede di essere esplorato. La vita odierna – tale la convinzione del napoletano – è determinata «più da quello che Félix Gallardo “El Padrino” e Pablo Escobar “El Màgico” decisero e fecero negli anni ottanta che da ciò che decisero e fecero Reagan e Gorbaciov». E colui che per inerzia o miopia ne ignora l’impatto mai potrà comprendere «il destino» di democrazie pressoché nominali, trasfigurate come sono da surrogati chimici e flussi finanziari tanto imponenti.
Bastano queste poche battute a metterci sull’avviso. Siamo nel solco di un massimalismo ispirato, a base documentaria ma non sdegnoso di profezie; che del testo d’esordio riprende alcune idee direttrici e almeno in un caso lascia una diversità impregiudicata. Anche in Gomorra vigeva la convinzione secondo cui la periferia geografica e sociale (qui la Colombia, il Guatemala, il Messico) costituisce per molti riguardi il vero e più determinante fulcro della tarda modernità. Il narcotraffico, viene detto, è «una storia che si crederà marginale, accaduta in un lembo di terra ignoto e trascurabile. E invece è centrale». Analogamente, come in quel primo libro è strettissimo il rapporto che intercorre tra affari in chiaro e scambi di natura illecita. Il passaggio del potere effettivo dai produttori di cocaina ai grandi distributori non può sorprendere, spiega Saviano, «è una legge dell’economia, e quindi anche una legge del narcotraffico, che rappresenta l’essenza stessa del commercio e delle regole del mercato».
Si può discutere di quel «quindi», tanto concludente e sbrigativo. Una simmetria tra lecito e illecito ci sarà pure, un ricalco, una mimesi spregiudicata; ma anche a tali patti resta arduo derivare da Gomorra il presente volume. Lì assumeva un ruolo strategico l’edilizia, un comparto non d’avanguardia in grado di garantire il primato ai clan camorristi, la capitalizzazione dei traffici, il riciclaggio e insieme il controllo capillare sul territorio. Qui è la grande finanza, sono le «lavanderie» di Wall Street e della City londinese a favorire il maneggio, consentendo alla ’ndrangheta calabrese di tessere l’ordito internazionale e di farsi scuola per i nuovi trafficanti d’oltreoceano. Di là da cemento e mattoni, è insomma un mondo immateriale e dislocato che negli ultimi anni si è avvalso della coca per sanare una crisi altrimenti catastrofica. Sono 352 miliardi di dollari i profitti stimati, una cifra superiore a un terzo di quanto il Fondo monetario internazionale ha stabilito a perdita per il sistema creditizio complessivo: sì che «i guadagni delle organizzazioni criminali sono stati l’unico capitale d’investimento liquido a disposizione di alcune banche per schivare il fallimento».
Non è nostro intento revocare in dubbio le fonti e il ricco apparato di dati statistici che il reporter napoletano dispone con la consueta maestria competente: solo si sarebbe desiderato un raccordo, un ritorno puntiglioso sul già scritto. Un rimeditare assorto, intriso di sensibilità metafisiche, che si coglie per altro verso riguardo ai modi espressivi e alle soluzioni affabulanti.
La qualità della scrittura è sempre stato un punto a dibattito nell’opera di Saviano; il quale, sceneggiando una sorta di «tu» montavano, per metà interlocutore, per metà istanza autocoscienziale, sembra darsene avviso, ma in tono stoico, quasi per una necessità da trascendere. «Quando riuscirai a raccontare – annota –, quando capirai come rendere accattivante il racconto, quando saprai esattamente dosare stile e verità, quando le tue parole usciranno dal tuo torace, dalla tua bocca e avranno un suono, tu sarai il primo a provarne fastidio.»
Stile e verità, manifestarsi dell’io e insofferenza per ciò che di artificioso questo inevitabilmente comporta. Da un brano di tanta risonanza si sarebbero attesi risultati maggiori: questo va detto. Zero Zero Zero esibisce in realtà un impasto effettistico, a cui concorrono in sostanza tre soluzioni: una strategia oralizzante, con fraseggio breve, marcato e talora anacolutico («Io quel posto lì dentro di me non so dove sia, ma è pieno»); un ornato che di là da un assiduo metaforeggiare fa centro sullo strapotere dell’anafora, della ripetizione martellata; e un certo gusto elencatorio, non di rado a carattere sinonimico. Ne viene un certo grado di ridondanza, di prolissità malcontenuta; che sul terreno dei contenuti confida in una coppia ulteriore di accorgimenti. La notazione didascalica, utile a sciogliere quanto di gergale è nel resoconto: «Gruppi che gestiscono coca e capitali della coca e prezzi della coca e distribuzione della coca. Questo sono i cartelli», «Hielo. Che non è ghiaccio, bensì cristalli di metanfetamina»; in secondo luogo le formule gnomiche, i motti sapienti, facilmente trasposti in ambito morale, o moralistico: «La codardia è una scelta, la paura uno stato», «La coca è la risposta esaustiva al bisogno più impellente dell’epoca attuale: l’assenza di limiti».
Altrettanto diffuso, e forse più rilevante ai fini di una tipizzazione testuale, è il ricorso massiccio alle tecniche di attualizzazione resocontistica. Saviano rifugge da cronologie stratificate, da raccordi temporali complessi; gli imperfetti e le formule al passato aggettano senza esitazione nel presente indicativo: «A quel tempo in Messico non c’erano i cartelli. E Félix Gallar do che li crea».
Sta qui il modo centrale del suo dire; qui, e nell’alternarsi ininterrotto di storie e discorsi. I brani a carattere informativo reggono altrettanti episodi fabulanti, s’impastano con essi, secondo slarghi singolari, come è per Bruno Fuduli, vessato dalla ’ndrangheta, poi trafficante doppiogiochista e confidente di polizia, infine repentito e trafficante in proprio. Altrove valgono montaggi paralleli, come per Natalia Paris e Salvatore Mancuso, detto el Mono; sino all’estremo limite del racconto seriale, a schidionata, che interviene a proposito della mafia russa. «Ho con me una raccolta di foto dei protagonisti» è detto a un certo punto: «Seconda pagina dell’album […] La terza foto […]. Un’altra foto…». O più avanti, tornando in Sudamerica: «Per esempio, la vecchia storia di Griselda»; «Oppure la storia di un’altra donna». In realtà tanto fervore non produce momenti di effusione narrativa, ma una ricca sequenza esemplare, paradigmatica. Più che un reportage narrati – vizzato, Zero Zero Zero ci appare per il tono e l’andatura una megaomelia laica; anchesì contraddistinta da una voce intimamente perturbata: «Storie storie storie – confessa Saviano –, di cui non riesco a liberarmi».
Il punto è cruciale, e se esiste uno stacco tra volume di esordio e questo nostro, esso va individuato in una più marcata ossessività del resoconto d’inchiesta. Ne reca traccia anche la scrittura, quando dalle formule brevi e da una sintassi oralizzata, bravamente ricolma di artifici, cede alle seduzioni del soliloquio, nel profuso e pseudodialogante disporsi del rimuginio interiore.
L’io che affiorava dalle pagine di Gomorra aveva un profilo problematico, però vitale ed eroico; ora, a seguito del successo e di una malgoduta celebrità, ci appare più isolato e sperso. Qualunque cosa ne dicano i critici, non si tratta di una sopravvenuta evanescenza del personaggio narratore: la figura del testimone civico, impavido e tenace, c’è ancora. Solo sembra scontare una dolorosa solitudine e non pochi dubbi circa il proprio ruolo. «Mi chiedo da anni a che cosa serva occuparsi di morti e sparatorie» annota meditabondo. «A volte credo sia un’ossessione. A volte mi convinco che in queste cose si misura la verità.» L’investitura che lo ha reso cavaliere di giustizia ha ancora un senso totalizzante, titanico: «Voglio affondare le mani nella ferocia, rovistare dove fa più male e poi vedere cosa mi rimane appiccicato alle dita». Però a questo sprofondamento infero, e a questo tuffarsi nella metafisica del Male, è venuto meno il sostegno laico e insieme religioso della condivisione, del mischiarsi paritariamente con gli altri nei modi di un fratello che chiama alla consapevolezza.
Un piglio nevrotico e teneramente esibito non deve sorprendere nella scrittura savianesca; la cifra interna del suo dire già in origine risuonava tra conoscenza e ossessione. Ora tuttavia è la seconda a rilevare, mostrando ciò che dell’attivismo romantico fa da controcanto penoso: «Non riesco più a guardare una carta del mondo senza vedere rotte di trasporto, strategie di distribuzione. Non vedo più la bellezza di una piazza in città, ma mi chiedo se può essere una buona base per lo smercio al dettaglio». La sopraffazione violenta, che cova al cuore di ogni istituzione sociale nel tempo della borghesità adempiuta, finisce per assumere tratti onorifici e invasivi, da cui è malagevole difendersi: «Ho guardato nell’abisso e sono diventato un mostro», e con rimbalzo di persona: oramai «è l’abisso che vuole guardare dentro di te». Bisogna diminuire di statura, commuovere e commuoversi; farsi Pollicino, l’eroe fiabesco senza aiutanti o doni magici, che ha da cavarsela solo in ragione di una mente desta: «Sono anni ormai che anch’io mi sento simile, che seguo con costanza il suo esempio».
Troppo si era puntato sugli effetti taumaturgici di una denuncia libresca, benché accolta entusiasticamente da moltitudini di lettori italiani ed esteri. «Ho irrorato del sangue di Napoli le orecchie di mezzo mondo – ammette Saviano – ma a Scampia nulla è cambiato.» Note di delusione amara e momenti di conforto, o di autoconforto, costellano in effetti l’intero volume. Raccontare la città partenopea è un po’ come tradirla; «però – prosegue – in questo tradimento io trovo posto, L’unico, per ora, che mi è dato». Un posto nel mondo, certo, e non tra le seconde file. Ma qui giunti, e ogni cosa considerando, sorge ineludibile la domanda: ne valeva la pena? «No. Non vale mai la pena rinunciare a una qualche strada che porti alla felicità. Anche piccola. Non vale mai la pena, nonostante tu creda che il sacrificio verrà ricompensato dalla storia, dall’etica, dagli sguardi di approvazione.» Infine la parola chiave è pronunciata: sacrificio; anche se con un rilancio di orgoglio professionale, e narcisistico, che una sintassi singolarmente franta e martellata tende a esaltare: «Io non volevo sacrificio, non volevo ricompensa. Volevo capire, scrivere, raccontare. A tutti».
Uno scoramento comprensibile percorre le pagine di Zero Zero Zero: la reclusione logora, indebolisce, e tuttavia non si registrano segni inequivoci di desistenza. Poco rilievo ha la proposta pratica e conclusiva di rompere le trame efferate del narcocapitalismo con la legalizzazione delle droghe, cocaina in primis. Non è questo il punto savianesco, il fuoco di un lavoro ormai pluriennale. Colpisce piuttosto la posizione che egli viene assumendo in quanto polemista, come erede di una tradizione civica che pure ha avuto da noi modelli plurimi. Mentre descrive l’albero della ’ndrangheta calabrese, lo paragona alla struttura mafiosa dei siciliani e ne considera il distendersi frondoso, ci si attenderebbe un riferimento a Sciascia, alla famosa Linea della palma, che lentamente risale verso nord, e qui verso il mondo. Invece no: Saviano resta singolarmente estraneo al magistero sciasciano. Con tutte le differenze del caso, è l’esempio di Pasolini a guidarlo. Sia per una certa sindrome di Cassandra, che oggi sembra sedurlo: «E colpa mia se ora continuo a gridare e ho la sensazione che nessuno sia più disposto ad ascoltarmi». Sia per uno slancio che è insieme passionale e conoscitivo; che rifiuta le mediazioni di un intelletto astratto, illuminista, come i modi canonici e inamidati del cronista reporter. «Non farsi coinvolgere – dice –; avere uno sguardo ter[z]o tra sé e l’oggetto. Non l’ho mai avuto. Per me è il contrario. Esattamente il contrario. Avere uno sguardo primo, dentro, contaminato.» Un pasolinismo insomma senza icona, privo di millenarismo apocalittico (per ora), poco incline al passato contadino e ai buiori di un eros sempre reversibile. Però sempre più chiaro di libro in libro, e non c’è che da prenderne atto.